La nostra selezione dei migliori film
usciti quest'anno,
scritto da redazione ODG
TR-73
24.12.2022
Anche il 2022 è giunto al termine. È stato un anno intenso per la settima arte che, dopo aver superato stoicamente gli anni della pandemia, risplende di nuove storie, punti di vista, idee. L’inventiva dei suoi autori ha interpretato le problematiche del nostro tempo, ed esplorato nuovi modi di intendere il cinema.
Ci siamo commossi, spaventati, divertiti, siamo stati ammoniti, ma sopratutto abbiamo capito quanto l’arte, sopratutto in questi tempi difficili, ci aiuti ad analizzare la realtà che ci circonda, spronandoci a comprendere meglio il presente e facendoci sperare in un futuro migliore. Il cinema è vita, linfa per gli occhi e il cuore. Data la vastità degli argomenti trattati, è difficile identificare la traccia tematica che ha unito le opere di quest’annata. Di certo si può affermare che tutte siano contraddistinte da una vibrante forza creativa, riflessi perfetti di coloro che le hanno concepite e portate sul grande schermo.
America, Europa, Asia, i titoli che hanno segnato il 2022 provengono da ogni parte dell’emisfero, prova tangibile della potenza del cinema, un cinema che non conosce né confini, né barriere. Grandi ritorni, sorprese, piccole gemme nascoste: ecco la nostra selezione dei migliori film di quest’anno, presentati ai festival, in streaming o usciti nelle sale italiane a partire dallo scorso gennaio.
Triangle Of Sadness
di Ruben Östlund
Rutilante, esagerato, schizoide, Triangle of Sadness eccede da sé stesso. Ed esagerare è la cifra adatta per narrare di una società debordante, che vuole accumulare e possedere sempre di più. Forma e materia dell’ultimo film di Ruben Östlund, ormai abbonato alla Palma d’oro, vanno dunque paralleli verso un’apocalissi bulimica, arraffona, una grande bouffe patinata dai filtri instagram di due modelli influencer: Carl e Yaya, individui-immagine, istanze pubblicitarie totalmente inadatte alla comunicazione emotiva. La forza artistica di quest’opera tripartita combacia con l’angoscia del nostro tempo: l’iperbole narcisistica ha sapore di realtà, l’eccesso espressivo si avvicina al più credibile degli orizzonti. Il WC che boccheggiava in Parasite, qui diventa un vero e proprio vaso comunicante a cui è impossibile aggrapparsi, perché la società di Triangle non deperisce per carestia, mancanza, povertà, ma collassa per saturazione, scoppia nella sua pienezza, tenta di combattere il vomito ingozzandosi ancora una volta. Gli stilemi iper-frequentati del naufragio, dell’isolamento, della desertificazione, del ribaltamento elitario, non possono che essere l’ennesima illusione. Perché il punto non è più una guerra tra poveri o tra poveri e ricchi. L’unica battaglia rimasta vaga nel binomio sterile, netto e instagrammabile che sta tra «il fascino discreto» dello sguardo Balenciaga e il sorriso alla HeM. Tragico e geniale.
Scritto da Matteo Bonfiglioli
The Banshees of Inisherin
di Martin McDonagh
The Banshees of Inisherin è uno sguardo disperatamente definitivo su un’umanità bambinesca, narcisista, interessata solo ai propri confini, o alle proprie strategie di espansione. La reazione è di ammirata incredulità. Perché ride, in costume, di vicende vagamente umane e dolorosamente attuali: rimozione, isolamento, sospensione, trasfigurazione dell’altro in ideale. Tutto canta di un individuo insulare, tanto interessato a guerre attigue solo come rassicurante distrazione dal suo reiterato sfacelo. Così il cinema non può che occuparsi di un capriccio, mentre la vita più cruciale si muove ai lati della narrazione. Rancore, cesoie, vendette, capre e follia a sorsi di birra. Infine, un’amicizia possibile solo se postuma. E non c’è più eroismo possibile, nessun canto epocale per passare alla storia. La scrittura sempre più raffinata di Martin McDonagh è capace di fare humor sull’angoscia, ridere della fine del rapporto tra uomo e mondo, perché piangerne sarebbe attestazione di una speranza superstite. Caustico, tragico ed esilarante, The Banshees ha sconvolto Venezia79 e ha portato alla ribalta il talento della bravissima Kerry Condon, forse la vera protagonista del film.
Scritto da Matteo Bonfiglioli
Piccolo Corpo
di Laura Samani
Dopo la vittoria dell’European Discovery-FIPRESCI, Laura Samani si attesta come una nuova importante voce della nostra cinematografia. In Piccolo Corpo rivive quel realismo magico che Alice Rohrwacher -Le Meraviglie, Lazzaro Felice - sembra ereditare da Ermanno Olmi, le oscillazioni tra onirico e contadino di film come Re Granchio di Zoppis e Rigo de Righis o le ispirazioni favolistico-originarie di Bella e Perduta di Pietro Marcello. Tutte istanze di un cinema nostrano che elegge il racconto aedico e la leggenda, come fonte prediletta rispetto al reale. Ma soprattutto, si consolida la possibilità di un cinema terreno e insieme immaginifico, materico eppure iperbolico. Inizio ‘900, laguna veneta, una bimba nata morta è il prodromo per una corsa verso l’impossibile: un santuario di montagna in cui il battesimo, consente al piccolo corpo di avere un nome e di salvarsi dall’oblio. Dalla morte alla vita, Samani inverte il naturale corso degli eventi e delle narrazioni. L’oggetto del desiderio è quindi «dare un nome», antidoto alla sparizione, appunto, dire, raccontare, nominare come rifiuto della realtà mortifera, del consolidato. Piccolo Corpo, raffinato nella recitazione, nella ricerca linguistica dialettale, nella costruzione di personaggi antichi eppure così attuali, delinea il racconto cinematografico più speranzoso e rincuorante per il cinema italiano del 2022, in equilibrio tra sacro e profano.
Scritto da Matteo Bonfiglioli
Licorice Pizza
di Paul Thomas Anderson
Il lupo perde il pelo ma non il vizio. PTA non si stanca mai di stupire il suo pubblico e continua a indagare atmosfere che fanno da contrappunto alle sue opere precedenti. Se ne Il filo Nascosto (2017) l’oggetto del desiderio era un’amore torbido e contorto ambientato nella fredda Inghilterra, con Licorice Pizza PTA torna nella sua San Fernando Valley per raccontare una storia che parla di un amore puro nello sbocciare dell’adolescenza. Anche in questo caso il film è una danza tra due persone che non riescono a smettere di rincorrersi - come nella prima scena - ma non sono mossi da logiche e giochi di potere bensì dal puro desiderio di inseguire i proprio sentimenti. I colori sono caldi e la messa in scena vivace come i suoi protagonisti, ennesima prova di adesione e coerenza tra ciò che vediamo sullo schermo e l’universo interiore dei personaggi raccontati.
PTA conferma la sua abilità nel realizzare un cinema che sembra collocarsi al di fuori del nostro tempo. Come ha detto Sorrentino prima della notte degli oscar: «Ho visto tutti i film degli Oscar, il più bello è Licorice Pizza, mi sembra che sia un film che gioca in un’altro campionato».
Scritto da Eric Scabar
Parigi 13Arr.
di Jacques Audiard
Non era affatto facile per Jacques Audiard, tornare a Cannes sei anni dopo la vittoria della Palma D’Oro con Deephan (2015) e dopo aver realizzato il suo primo lungometraggio in lingua inglese: The Sisters Brothers (2015). La decisione di realizzare un film piccolo e intimo che strizza l’occhio al genere mumblecore, sembra essere stata la scelta giusta. Una gemma scritta a sei mani con Céline Sciamma e Léa Mysius, Parigi, 13Arr. - titolo originale: Les Olympiades - è la perla nascosta di Cannes 2021. Un film semplice ma al contempo complesso, perché si pone l’obiettivo di raccontare quello spaccato antropologico multiforme e in continuo cambiamento che si vive nel 13Arr. di Parigi, un quartiere riconvertito abitato da molti immigrati.
L’ultimo film di Audiard è un’opera che riesce nell’intento di raccontare sogni e timori delle giovani generazioni. È notevole la sensibilità dell’autore nel raccontare una generazione fluida e in continuo cambiamento come quella di oggi. Le paure derivanti dall’utilizzo improprio delle nuove tecnologie, l’ansia del porn revenge, sembra quasi che Audiard abbia vissuto questo tipo di situazioni per quanto è bravo a raccontarle. Parigi, 13Arr. è un film pulsante di vita, che parla del nostro presente e che sa entrare nell’intimità dei giovani d’oggi.
Scritto da Eric Scabar
Il capo perfetto
di Fernando León de Aranoa
Il capo perfetto è l’evento della stagione cinematografica spagnola del 2022. Il film in Spagna ha dominato i Goya 2022, vincendo Miglior film, regia, attore protagonista, sceneggiatura, montaggio e colonna sonora. Fernando León de Aranoa realizza un’impeccabile dark comedy sul mondo del lavoro. Julio Blanco è il proprietario di un'azienda di bilance industriali in attesa di un'imminente visita da parte di una commissione che deciderà sul destino di finanziamenti pubblici e conferirà un premio per l'eccellenza aziendale. Un susseguirsi di problemi e impedimenti metterà a dura prova la professionalità e la reputazione dell’uomo.
Javier Bardem regala una delle interpretazioni più memorabili della sua carriera, costruendo un personaggio controverso e carismatico. La regia e la scrittura di León de Aranoa sono chirurgiche, nulla è superfluo o dato per scontato e ogni elemento contribuisce alla costruzione di una drammaturgia in cui tutto è orientato alla costruzione di un meccanismo impeccabile e bilanciato, come le bilance costruire dall’azienda di Julio Blanco.
Scritto da Eric Scabar
Neptune Frost
di Saul Williams e Anisia Uzeyman
Raramente capita di imbattersi in un film senza precedenti, un po’ perché le trame si riconducono sempre a quella decina di archetipi narrativi, e un po’ perché più si va avanti e più la sperimentazione formale appare stanca e rigurgitata. Neptune Frost riesce nell’impossibile impresa di evadere entrambe le cose, riconstestualizzando l’afro-futurismo in un cinema con una vera urgenza estetica, sonora e politica.
Dal grottesco onnisciente sguardo di un piccione viaggiatore a una banda di minatori con delle schede madre al posto delle scarpe, il film di Williams e Uzeyman è un portale verso un nuovo mondo, reso alieno da decenni di violenta oppressione sociale e culturale.
Scritto da Rodrigo Mella
Funny Pages
di Owen Kline
Sono passati diciassette anni da quando Owen Kline si rifugiava in biblioteca per masturbarsi ne Il calamaro e la balena di Noah Baumbach. Diciassette anni in cui Kline ha lavorato agli Anthology Film Archives di New York, intrapreso una breve carriera da fumettista underground e un’altra da suonatore di banjo, e scritto stesure su stesure di quello che un giorno sarebbe diventato il suo debutto da regista.
Oggi, quel giorno è finalmente arrivato - ed è valsa la pena attenderlo. Funny pages è un sudicio trionfo, un coming of age perso tra le pagine di fumetti porno incollate tra loro da un viscoso liquido bianco, non colla. Coprodotto da A24 e i Fratelli Safdie, il primo film da regista di Owen Kline è uno dei film più ispirati, vivi e divertenti dell’anno.
Scritto da Rodrigo Mella
Nostalgia
di Mario Martone
Un uomo, Felice, torna nel proprio quartiere, il rione Sanità, dopo quarant'anni. Gli sembra che nulla sia cambiato, ma lentamente si perde in quel labirinto fatto di strade, di vicoli e di ricordi, si perde nella nostalgia del passato, ma non si rende conto che il passato non sembra avere alcuna nostalgia di lui. Tutti i personaggi che incontra gli dicono infatti di tornarsene a casa. La Sanità diventa un labirinto borgesiano in cui La fine - citando un racconto di Borges - è già scritta, in cui i tanti sentieri che si biforcano nelle possibilità che offrono i vicoli fisici e i vicoli della memoria sembrano portare a un unico luogo, il luogo del ricordo più oscuro.
Tutto sembra uguale, del resto nelle catacombe di San Gennaro è presente un dipinto che raffigura una donna africana come la moglie del protagonista. Ma tutto è in realtà cambiato. Felice non riesce ad accorgersene, o meglio, sembra accorgersene, ma preferisce seguire fino alla fine i fantasmi, le illusioni, quel canto della sirena, doloroso e distruttivo, che è il ritorno a casa.
Scritto da Arturo Garavaglia
Gli orsi non esistono
di Jafar Panahi
La realtà sfugge alla rappresentazione e la inchioda fino ad annientarla nell’ultimo - speriamo non per molto - film di Jafar Panahi. Il regista, confinato in un villaggio di frontiera con la Turchia, assiste in remoto alle riprese del suo nuovo film che narra della fuga di due innamorati dall’Iran. Nel frattempo, si trova a fare i conti con l’atmosfera, sempre più cupa e minacciosa, del luogo che lo ospita.
Un film privo di speranza, quello di Panahi, che sembra sancire il totale fallimento dell’agire del cinema per produrre una realtà diversa da quella che appare. Il metacinema, caratteristica distintiva della filmografia del regista - e della cinematografia iraniana stessa - sembra arrestarsi in un punto di non ritorno. Le persone reali non accettano più il proprio ruolo di personaggi e sfuggono alla messa in scena che è, sempre e comunque, il cinema. Il regista è quindi a un punto fermo. Non sa se fuggire - scoperto e non accettato - o se rimanere e cercare di far sì che la realtà muti anche senza l’ausilio della settima arte.
Scritto da Arturo Garavaglia
When The Waves Are Gone
di Lav Diaz
In una cornice noir Lav Diaz mette in scena uno scontro titanico tra due entità destinate all’annientamento reciproco. Il detective Hermes, apparentemente integerrimo eppure corrotto, è colpito da una violentissima psoriasi che lo porta ad essere respinto da tutti. Il suo superiore, appena uscito dal carcere dopo essere stato arrestato dallo stesso Hermes, si fa predicatore e gira per le Filippine - pretendendo di battezzare gli impuri - alla ricerca costante di vendetta nei confronti del suo ex-sottoposto. I detentori del potere, rappresentati dai due poliziotti, vengono messi alla berlina da Diaz che, attraverso i suoi chiaroscuri, esalta le rispettive miserie e la drammaticità del loro marciume.
Comico e tragico, When The Waves Are Gone incede inesorabilmente, fra danze sfrenate, grotteschi omicidi, abbacinanti campi lunghi e i consueti piani sequenza tipici del regista filippino, verso un finale in cui i due «eroi» si fronteggiano in uno scontro all’ultimo sangue degno dei migliori poemi epici, se non fosse che i protagonisti del film sono criminali e il loro duello è tutt’altro che epico. Il pamphlet di Lav Diaz contro i poteri che dominano il suo paese è un ulteriore tassello di una vera e propria opera-mondo a cui il regista mette mano sin dai suoi esordi. Il suo linguaggio si sta evolvendo e sta virando sempre di più verso il genere e il grottesco, ma l’incisività e la lucidità del suo cinema restano intatte.
Scritto da Arturo Garavaglia
Pinocchio
di Guillermo del Toro e Mark Gustafson
Come il burattino, così il film: il Pinocchio in stop-motion di del Toro prende vita come il suo protagonista, attraverso la forza magica ma artigianale della più concreta tra le forme di animazione. Finalmente un corpo imperfetto, trafitto dagli stessi chiodi con cui Geppetto ha crocifisso l’enorme Cristo di legno nella chiesa di paese, finalmente la presenza della morte, che permea il racconto come già faceva nel romanzo di Collodi, finalmente una fiaba che non è in antitesi con la realtà, in cui il fantastico si intreccia con la storia del fascismo italiano.
Ora il grillo parlante abita davvero nel cuore di Pinocchio perché già abitava l’albero da cui proviene quel pezzo di legno: è solo una delle tante trovate poetiche di del Toro, che si serve della maestria di Gustafson per plasmare un’opera animata tra le più profonde degli ultimi anni. E nello scomodare il celebre romanzo e tutte le sue incarnazioni precedenti, invece di aderire al modello sceglie di sovrapporre la propria visione a quella originale. Forse è questo - ogni tanto occorre ricordarlo - che rende tale un autore.
Scritto da Luigi Muneratto
Fire of Love
di Sara Dosa
L’incredibile storia dei coniugi Krafft, pionieri della vulcanologia e figure anticonformiste, viene ripercorsa in questo documentario di Sara Dosa attraverso i materiali d’archivio delle loro spedizioni scientifiche. Come batte il cuore della Terra e come quello degli innamorati sono le domande che il film si pone e lascia irrisolte, travolgendo lo spettatore in un flusso di lava e sentimento altrove dalla memoria e lontano dal tempo.
Eroi herzoghiani, romantici e sciagurati, questi due amanti scienziati resteranno a lungo impressi nella mente di chi fa la loro conoscenza per il segreto del loro amore, l’utopia delle loro imprese e la fatalità del loro destino. È cinema prezioso questo, che salva dall’oblio e narra l’ineffabile racchiuso nella scintilla che innesca l’eruzione, in un bacio e nella sua immagine strappata alla morte.
Scritto da Andrea Tiradritti
De Humani Corporis Fabrica
di Verena Paravel e Lucien Castaing-Taylor
Planato alieno alla scorsa Quinzaine des réalisateurs di Cannes, De Humani Corporis Fabrica di Verena Paravel e Lucien Castaing-Taylor è un film esperienza che non lascia indifferenti. Nel solco dei loro lavori precedenti la coppia di cineasti e antropologi ridefinisce le possibilità tecnologiche e ontologiche dello sguardo cinematografico, sondando le viscere del corpo umano come astronauti nello spazio interstellare. Filmata in un ospedale parigino, l’opera è un disturbante susseguirsi di panorami tanto familiari quanto sconosciuti: le membra dei pazienti, i loro tessuti e i loro organismi in funzione vengono indagati grazie all’utilizzo di macchine da presa grandi come bisturi, capaci di percorrere canali nascosti e gallerie pulsanti in modo da restituire così immagini senza uguali.
Eccezionale esplorazione riguardo al mistero dell’umano e del suo funzionamento, De Humani Corporis Fabrica si concentra sul microscopico per abbracciare l’infinito, rivelando l’orrore e la meraviglia dei mille corpi che ci abitano.
Scritto da Andrea Tiradritti
Tár
di Todd Field
Il film è incentrato su Lydia Tár (Cate Blanchett), talentuosa direttrice d’orchestra, e le cruciali settimane che la separano da quello che sarà il momento più importante della sua carriera: la serata in cui dovrà dirigere la quinta sinfonia di Mahler. Todd Field, lontano dal mondo del cinema per sedici anni, torna dirigendo un’opera magistrale, il complesso character-study di una donna ossessionata dal potere e dalla perfezione, che farebbe di tutto per raggiungere i propri obiettivi e mantenere il suo status. Cate Blanchett porta sullo schermo quella che potrebbe essere la sua interpretazione migliore, in un ruolo che sta già diventando iconico.
Ma Tár non è solo un brillante studio sul personaggio, attraverso il film, infatti, Field cerca di analizzare la figura di un’artista moralmente complicata, evidenziando anche in maniera satirica la cosiddetta cancel culture. Ogni dettaglio del film è minuziosamente curato: dalle straordinarie performance del cast - dove spicca anche la presenza dell’attrice tedesca Nina Hoss in un ruolo secondario - fino al raffinato uso del piano sequenza. Tár uscirà al cinema il prossimo 9 febbraio.
Scritto da Omar Franini
Decision to Leave
di Park Chan-wook
Decision To Leave, il nuovo film di Park Chan-wook, è un noir dalle sfumature melodrammatiche che racconta il complesso rapporto tra Chang Hae-joon, un detective tormentato, e Song Seo-rae, indagata numero uno nell’omicidio del marito. Park sfrutta questo intrigante incipit per creare un’opera affascinante, dove cerca di narrare la storia di un amore impossibile. La nuova pellicola del maestro coreano soddisfa sotto ogni punto di vista, in special modo per le magistrali interpretazioni di Park Hae-il e Tang Wei, capaci di dare vita a personaggi enigmatici e dal fascino irresistibile. La regia di Park è impeccabile, sia per il modo in cui ha saputo gestire il ritmo del film e i suoi repentini cambi di tono, che per la maniera di rappresentare la realtà distorta in cui i suoi due personaggi vivono.
Decision to Leave è un'opera imperdibile, che continua ad affascinare e stupire ad ogni visione, consigliamo di recuperarlo appena uscirà in sala il prossimo 2 febbraio.
Scritto da Omar Franini
RRR
di S. S. Rajamouli
Uno dei film più sorprendenti dell’annata 2022 proviene da Tollywood, industria cinematografica indiana che produce film in lingua Telugu, a differenza delle opere in lingua Hindi della più conosciuta Bollywood. Stiamo parlando di RRR, il nuovo film del visionario regista S. S. Rajamouli, che narra della forte amicizia tra due rivoluzionari e della loro lotta contro il colonialismo britannico. La storia avvincente, le due intense interpretazioni di Ram Charan e N.T. Rama Rao Jr., e soprattutto la regia massimalista di Rajamouli-dove spicca l’uso sproporzionato del CGI o di sequenze musicali indimenticabili - rendono RRR una delle visioni più coinvolgenti dell’anno. Il lungometraggio non ha, di fatto, nulla da invidiare ai grandi blockbuster americani.
Il film, inoltre, contiene una delle sequenze musicali più coinvolgenti e divertenti apparse sul grande schermo nell’ultimo periodo: la scena dove i due protagonisti si ritrovano ad un matrimonio e iniziano a ballare una danza tipica sulle note della canzone Naatu Naatu. Consigliamo di recuperare RRR su Netflix, anche se purtroppo è presente solo con il doppiaggio in lingua Hindi.
Scritto da Omar Franini
Pacifiction
di Albert Serra
Il nuovo lungometraggio di Albert Serra racconta la storia di Monsieur De Roller, un diplomatico francese incaricato di recarsi a Tahiti per controllare degli stabilimenti militari, e verificare se sono vere le voci sull'avvistamento di un sottomarino che potrebbe rappresentare il pericolo di un conflitto nucleare.
Pacifiction è un’opera complessa, che non lascia indifferente chi la guarda. Serra si serve del ritmo lento, delle scene improvvisate, e della mancanza di azione, per creare un film dall’atmosfera ipnotica e contemplativa. Il cineasta trasforma un piccolo paradiso in un inferno paranoico, nel quale Monsier Rolleur, interpretato da un camaleontico Benoît Magimel, si trova a vagare, di luogo in luogo, alla ricerca di una risposta definitiva.
Scritto da Omar Franini
Forever Young - Les Amandiers
di Valeria Bruni Tedeschi
È il 1986 e alla prestigiosa scuola di recitazione del Théâtre des Amandiers di Parigi non può essere ammesso chiunque: tra i numerosi candidati solo dodici aspiranti attori - i più talentuosi - saranno selezionati per frequentare il corso tenuto dal celebre regista Patrice Chéreau, qui interpretato da un formidabile Louis Garrel. Tra i fortunati allievi ammessi c'è Stella, giovane ragazza borghese e aspirante attrice.
Nel film Stella non dice molto, o meglio, non lo fa attraverso le parole: perché Forever Young - Les Amandiers, quinta opera per Valeria Bruni Tedeschi alla regia, parla soprattutto con i corpi dei suoi interpreti. Il film rappresenta una felice quanto ossequiosa celebrazione del lavoro dell'attore, un lavoro dove i confini tra ruolo, persona e personaggio si confondono nel turbinìo della vita dei ventenni della Parigi degli anni Ottanta, in preda all'incombere degli spettri dell'AIDS e dell'eroina. Un film tutto d'un fiato, dove ogni inquadratura trasuda di devozione per l'arte della recitazione sotto ogni suo aspetto, anche in quelli meno glamour.
Scritto da Lorenzo Vitrone
Il corsetto dell'imperatrice
di Marie Kreutzer
Spesso gli spiriti non si trovano in edifici fatiscenti o antiche dimore, ma dentro di noi, e ci perseguitano, incessantemente, giorno dopo giorno. Il corsetto dell’imperatrice parla di una donna vittima della storia, tormentata dal suo stesso mito, incapace di trovare la felicità in un mondo che le è familiare e sconosciuto assieme. La storia della leggendaria Elisabetta di Baviera - l’immortale Sissi - raccontata attraverso un gioco di specchi, un labirinto narrativo dove tutto è sfuggente ma nello stesso tempo tangibile.
La talentuosa Marie Kreutzer dirige una superba Viki Krieps - l’indimenticabile Alma di Phantom Thread (2017) - in un’opera dalla geniale messa in scena: moderna, provocatoria e commoventemente vera. Stupenda la sequenza che accompagna i titoli di coda.
Scritto da Alberto de Carolis Villars
Blonde
di Andrew Dominik
Marylin Monroe non è mai esistita. Andrew Dominik - l’spirato regista di L’assasinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (2007) e Cogan (2012) - frantuma in mille pezzi l’immagine della celeberrima icona per restituisci un pirandelliano gioco delle parti. Agnello sacrificale del patriarcato, vittima dell’incurante, perverso, e famelico desiderio maschile. Dominik si spinge al limite, plasmando un’opera che vive nello spazio della metafora. Un lungo e visionario incubo lynchiano, che si discosta dal semplice biopic per mutare in un’allucinata, e feroce, parabola sul successo.
Un lungometraggio radicale nella forma e nei contenuti che, attraverso l’astrazione dalla verità storica - che Dominik sceglie coscientemente di non seguire per accostarsi alla stupenda «biografia immaginaria» che Joyce Carol Odets scrisse nel 1999 - un’ispirato e brillante uso del colore, e un continuo dirottamento dei formati delle immagini, ci accompagna nell’inferno personale di Norma Jean Baker: il fragile, ed infelice, essere umano intrappolato dietro alla fasulla maschera della peccaminosa diva hollywoodiana.
Scritto da Alberto de Carolis Villars
Il prodigio
di Sebastián Lelio
1862: in un piccolo villaggio rurale dell’Irlanda, l’undicenne Anna O’Donnell sopravvive senza mangiare. La giovane afferma che il suo unico nutrimento proviene dal cielo, miracolo o imbroglio? Grazia divina o cieca superstizione? La verità è molto più complessa di questo.
Conturbante, ancestrale come un cantico che giunge dalle profondità del linguaggio umano, la nuova opera di Sebastián Lelio, prodotta da Netflix, è un accurato e ingegnoso studio sulla forza della convinzione. Un tour de force attoriale che, retto interamente dalla prova di una Florence Pugh in stato di grazia, coinvolge lo spettatore in una dimensione misteriosa e spettrale. Magistralmente cadenzato e convincente sino alla fine.
Scritto da Alberto de Carolis Villars
Bones and All
di Luca Guadagnino
Stati Uniti, un pigiama party e i Duran Duran di sottofondo, siamo negli anni 80 ma non stiamo per vedere un teen drama nostalgico: Maren, la protagonista, stacca di netto con un morso l’indice della sua amica. Con questa immagine Luca Guadagnino torna all’horror abbandonando l’Europa degli anni 70 raccontata da Suspiria ed abbracciando i paesaggi sconfinati dell’America narrata da Jack Kerouac. Bones and All è il coming of age di Maren e Lee, una coppia unita dallo stesso stato da outsider determinato dal loro impulso irrefrenabile di cibarsi di carne umana, è un viaggio tolkieniano alla ricerca di qualcosa da accettare o da distruggere: la propria diversità.
La regia di Guadagnino si dimostra, ancora una volta, di una raffinatezza estrema, capace di rimanere perfettamente in equilibrio tra orrore e incanto. Gli aspetti più raccapriccianti del viaggio sono mediati da un’atmosfera terrena, da una quotidianità che permette all’amore adolescenziale di nascere senza sembrare fuori luogo e la crudezza dei corpi divorati ed insanguinati è contenuta nei paesaggi meravigliosi e deserti. Bones and All è un film che racconta di due anime perse, avendo anch’esso una doppia anima: brutale e poetica.
Scritto da Bianca Susi
Marcel the shell with shoes
di Dean Fleisher-Camp
Era il 2010 quando Dean Fleischer-Camp andò virale su Youtube con il video del piccolo Marcel, una conchiglia con un solo occhio e delle bellissime scarpe che, animata in stop-motion, rispondeva ad una breve intervista. Dodici anni dopo, il video di tre minuti è diventato un film gioiello della tecnica mista senza cambiare nulla della sua struttura iniziale: un mockumentary su una conchiglia animata.
Marcel the shell with shoes on è un film per ragazzi? Assolutamente sì, ma isolarlo in una fascia di pubblico ristretta sarebbe sbagliatissimo. È una storia che parla di solitudine, di famiglia, di crescita e di lutto mantenendo come punto di vista principale quello della piccola conchiglia mentre si confronta con il suo nuovo inquilino Dean, il regista. Per novanta minuti seguiamo Marcel che, con la stessa curiosità di un bambino, scopre il mondo esterno smontando con una semplicità quasi filosofica tutti i costrutti futili ed artificiali della vita umana. Nonostante il richiamo forte all’infanzia e alla favola, il film trova sullo schermo la giusta chiave per essere universale e maturo, risultando un’opera visivamente interessante in cui animazione e mockumentary si intrecciano e si esaltano portando noi spettatori a ridere, piangere e crescere con la piccola conchiglia.
Scritto da Bianca Susi
Nope
di Jordan Peele
Jordan Peele centra di nuovo un punto cruciale del cinema con il suo bad miracle: è ancora possibile fare intrattenimento d’autore. E il comico reinventatosi maestro dell'horror moderno lo fa nella maniera filmica più familiare possibile: ripescando dal passato tropi da blockbuster - molti hanno paragonato questo film ad un Lo Squalo (1975) moderno - per reinserirsi nel futuro del cinema, non tralasciando le critiche sociali ormai suoi segni distintivi.
In Nope, la caccia all’alieno svela le pratiche fallaci di un’industria cinematografica che continua a penalizzare la comunità afroamericana, quando le loro sofferenze vengono trasformate in intrattenimento. E di fronte all’imponente, e spaventosa, crisalide aliena bianca, il discorso metanarrativo si fa maestoso, come nel miglior cinema d’autore.
Scritto da Davide Merola
Top Gun: Maverick
di Joseph Kosinski
Gestire il seguito di un cult è sempre difficile. Pochi ci sono riusciti, ma in questa cerchia possiamo annoverare senza ombra di dubbio Joseph Kosinski, regista del sequel del fortunato film di Tony Scott. Più di trent’anni dopo il primo Top Gun, Tom Cruise torna con una storia di mentori e turbe giovanili - come quella del primo film in fondo - ma stavolta Maverick sta dall’altro lato. E anche se la storia rimane simile e semplice, la maestria con cui è gestito questo secondo capitolo farà scuola.
Top Gun: Maverick punta in alto come i veri piloti di jet, così come lo stesso Cruise, sempre attento e rigido nei confronti della qualità delle sue produzioni. Il sequel si fa così, carico dei «fallimenti» passati di un film precedente rinchiuso nella sua epoca, e apre questa nuova storia a diversi scenari: i personaggi si fanno vulnerabili e il contesto diventa credibile, anche nella stratosfera. Menzione d’onore per il cameo di Val Kilmer.
Scritto da Davide Merola
Saint Omer
di Alice Diop
Medea, il mito, la maternità e la più atroce trasgressione: l’infanticidio. Saint Omer, esordio al lungometraggio di finzione della regista francese di origini senegalesi Alice Diop, ha la forma e l’assetto di un courtroom drama che trae spunto da un reale fatto di cronaca, ma che progressivamente si muove su riflessioni assolute. Rama è una giovane scrittrice di colore incinta, è una donna istruita e ben inserita nell’élite culturale occidentale. Interessata ad un progetto sul mito di Medea, decide di seguire il processo a Laurence Coly, giovane donna di origini senegalesi accusata di aver lasciato annegare sua figlia di soli quindici mesi in mare. Non è un film semplice Saint Omer, Alice Diop affida tutto al linguaggio che assume una forma ambivalente. Ad un largo uso del dialogo corrisponde la scelta di una essenzialità formale e visiva che riduce la messa in scena a pochi elementi.
Le due protagoniste diventano l’una specchio dell’altra, e al contempo emblema della dualità di un’anima divisa tra senso di appartenenza al proprio tessuto culturale d’origine, e adesione ai canoni di modernità occidentali. Ma il cuore pulsante della riflessione verte su interrogativi ben più inquietanti che riguardano il rapporto madre-figlia. Un legame indissolubile tanto quando insondabile, come in ultima istanza rimangono insondabili le ragioni che hanno portato Laurence a compiere il più atroce dei gesti.
Scritto da Diana Incorvaia
As bestas
di Rodrigo Sorogoye
Con As Bestas, il suo sesto ed ultimo film, Rodrigo Sorogoyen, regista spagnolo tra i più interessanti nel panorama europeo contemporaneo, compie ancora una volta una profonda indagine sulla parte più oscura e bestiale dell’animo umano. Emblematica in questo senso la sequenza d’apertura del film: un ralenti che mostra una violenta lotta tra uomo e animale, l’uno nel tentativo di prevalere sull’altro. Pur non mostrando nessuno dei volti dei protagonisti, lo spettatore ha già chiaro quello che accadrà in seguito. La paura dell’altro percepito come diverso apre le porte all’istinto di sopraffazione e dominazione attraverso il solo utilizzo della forza bruta . Ambientato tra i paesaggi di montagna galiziani, il film segue la vicenda di una coppia di coniugi che decide di trasferirsi in un piccolo villaggio di campagna nel tentativo di entrare più a contatto con la natura. La sola presenza dei nuovi arrivati basterà a creare tensione con gli abitanti del luogo. Sorogoyen è magistrale nella gestione di una tensione latente ma sempre percepibile, che conduce lo spettatore in un clima di sospensione man mano più teso. Il progressivo scardinamento dei punti salienti del genere thriller, sfianca lo sguardo che rimane in attesa di una esplosione, del raggiungimento di un vertice emotivo, senza che questo però arrivi mai.
All’improvviso si cambia prospettiva, quasi a simulare un rilascio di energia, uno spiraglio d’aria, introdotto dal punto di vista di un personaggio secondario alla narrazione. Una regia esemplare mista ad una capacità di narrazione stratificata su più livelli confermano Rodrigo Sorogoyen come uno dei registi più validi della sua generazione.
Scritto da Diana Incorvaia
Gigi la legge
di Alessandro Comodin
La comfort zone della scrittura relega il cinema ad una dimensione rassicurante, lontana dal rischio narrativo, lontana dall’intromissione della vita nel film, del caos e dell’imprevedibilità che caratterizzano l’esistenza e che il cinema tenta di imitare. Solo quando la settima arte riesce a farsi carico di raccontare il reale attingendo ad esso - non solo in senso tematico, ma anche pratico, cioè introducendo l’elemento del non-attore - allora si raggiunge quel «vero» a lungo ricercato da moltissimi autori. Un vero unicamente raggiungibile con un atto di fede nei confronti della storia che quest’ultimi vogliono raccontare, lasciandosi trasportare dai soggetti a cui danno il potere di influenzare il proprio prodotto che, nel momento stesso in cui la camera si accende, viene inevitabilmente riscritto.
Gigi la Legge è l’esempio contemporaneo di questa ricerca a lungo professata da teorici del calibro di Cesare Zavattini. È l’esempio che per fare cinema non serva una storia d’impatto o fuori dal comune, ma un personaggio che ci entri nel cuore e del quale vogliamo seguire le vicende, positive o negative che siano, anche là dove si tratti di un singolare vigile urbano di un piccolo paesino del Friuli-Venezia Giulia. Il cinema di oggi, infatti, ha bisogno di storie comuni e meno di grandi eroi
Scritto da Aureliana Bontempo
Notte fantasma
di Fulvio Risuleo
L’ultimo film di Fulvio Risuleo racconta di una notte fatta di crescita personale, di auto-determinazione del proprio io e comprensione di esso. I due personaggi che animano il film arrivano, tuttavia, a due consapevolezze diverse. Da una parte troviamo il personaggio di Tarek, un ragazzo figlio di seconda generazione, apparentemente ingenuo, ma in realtà alla ricerca di una sua tranquillità quotidiana, che non richiede più di ciò che la vita gli può dare. Finalmente, un personaggio contemporaneo che ci insegna che essere privi di sogni e motivazioni non è una colpa o motivo di inferiorità intellettiva, ma lo specchio dei nostri tempi.Dall’altra parte, in contrapposizione con Tarek, ci viene presentato un poliziotto, un fantasma senza nome che vaga in una Roma, per chi la conosce e la vive, familiare ma allo stesso tempo sconosciuta, il quale alla fine di una lunga notte comprende la propria impossibilità di svincolarsi dalle regole non scritte della società e vivere una vita fatta di libertà e accettazione di sé.
Notte Fantasma, oltre a proporre un interessante ridimensionamento del «maschile» nei rapporti interpersonali e sociali, porta con sé un insegnamento, condivisibile o meno: per essere sereni e in pace con se stessi bisogna accettare la propria condizione senza pretendere forse nulla di più di ciò che la vita ci offre.
Scritto da Aureliana Bontempo
The Whale
di Darren Aronofsky
Le balene, a differenza di quanto si possa immaginare, sono tra gli animali che percorrono le maggiori distanze intorno al globo. Eppure, la balena di The Whale, Charlie, non si muove mai.Charlie è un insegnante universitario di letteratura che, non riuscendo a superare la morte del proprio fidanzato, trova conforto nel cibo, ingrassando fino ad assumere un peso tale da condizionare la propria salute fisica.
Adattamento dell’omonima pièce teatrale, il film di Darren Aronofsky è un'attenta e delicata messa in scena del dolore. The Whale è un’opera fatta di materia tangibile, in cui il corpo di Charlie diventa una superficie sulla quale si accumulano cordoglio e rimpianti di un passato doloroso fatto di perdite e insoddisfazioni. Tale superficie trova il suo diretto corrispettivo sullo schermo, che nel caso specifico di questo film, permette un contatto diretto con i sensi di chi guarda, provando profonda empatia con il protagonista, merito anche di un'incredibile performance di Brendan Fraser. Una casa, una bibba e una balena. The Whale cela il tentativo di accettare i propri fallimenti e tentare, letteralmente fino all’ultimo respiro, di porvi rimedio. L'invito diretto che ci pone Aronofsky è quello di ricercare l’onestà, in una società in cui questo valore sembra aver smarrito il suo significato più autentico.
Scritto da Aureliana Bontempo
After Yang
di Kogonada
Che cosa significa essere cinese oggi? Cosa significa essere figlio della diaspora cinese?
È questo ciò che Kogonada esplora nel suo secondo film After Yang, presentato al Festival di Cannes. Liberamente adattato da un racconto di Alexander Weinstein, il film è ambientato in un futuro fantascientifico, ma piuttosto attendibile rispetto a quello che sarà effettivamente il futuro dell’umanità, in cui è possibile acquistare dei cloni per fare dare dei fratelli ai propri figli. After Yang presenta un interessante punto di vista sul lungo interrogativo “cosa accadrebbe se i robot potessero provare emozioni?”; non prendendo però alcuna posizione etica in merito, ma, al contrario, sfruttando la domanda per riflettere su cosa siano effettivamente le emozioni umane.
Quando Yang, l’androide, dai connotati asiatici, appartenente ad una famiglia americana che ha adottato una bambina cinese alla sua nascita, si spegne per sempre, il padre di famiglia cerca in tutti i modi di farlo aggiustare, scoprendo che il robot che è stato a loro fianco per tutto quel tempo, era in realtà un “essere” sensibile e introspettivo che si chiedeva ogni giorno cosa significasse essere cinese.
È allora chiaro che, per il regista, essere cinesi non significa conoscere gli aneddoti e la Storia della Cina, ma riconnettersi con quella propria cultura fatta di un inevitabile connessione con i defunti, significa tenere vivo il loro ricordo, e soprattutto i loro ricordi.
Scritto da Aureliana Bontempo
Monica
di Andrea Pallaoro
Dopo anni di silenzio, Monica, a causa della malattia della madre, trova il coraggio di riaffacciarsi sul proprio passato e rincontrare i suoi parenti. Per non svegliare il ricordo della persona che è stata, però, decide di presentarsi alla porta della loro casa in punta di piedi. È l’ultima occasione che ha per ottenere quell’antica agnizione che si anela nel rapporto con il materno: essere riconosciuti per quello che si è diventati. Eppure, dormire di fianco ad un genitore, da adulti, assume un valore diverso, dal momento che il proprio corpo non è più quello di una volta ma è cresciuto, mutato e con sé porta tutte le conquiste e le ferite che la vita gli ha procurato. Così, il regista Andrea Pallaoro riflette sull’identità e la memoria, dimostrando come gli sguardi e i gesti in una foto di famiglia possano restituire la distanza dei baci che nel tempo sono stati negati.
Scritto da Alice De Luca
Esterno Notte
di Marco Bellocchio
Fedele alla linea, con Esterno Notte, Marco Bellocchio torna a mostrare l’inquietudine che nel 1978 si è nascosta dietro le porte delle case italiane. Così, camminando per i corridoi del Bel Paese, in 330 minuti restituisce il senso di attesa di quei giorni, facendo aggrappare gli spettatori alle speranze di tutti i personaggi che racconta. Eppure, mentre le macchie sulle mani di Cossiga cominciano a dissolversi insieme alla fede di Paolo VI, la pazienza di Eleonora Chiavarelli, come anche la disponibilità a trattare delle BR, si appresta a terminare. Mano a mano, infatti, portando sulle spalle, come una croce, il peso del periodo di prigionia, il presidente della Democrazia Cristiana diventa ostaggio di ciò che rappresenta. Tanto che, senza più soffocare la narrazione tra le stanze dei brigatisti, dopo diciannove anni, il regista di Buongiorno, notte, trova finalmente il coraggio di uccidere Aldo Moro anche sul grande schermo.
Scritto da Alice De Luca
Rheingold
di Fatih Akin
Rheingold è l'undicesimo film di Fatih Akin, tedesco di origine turca, regista di culto che nell'arco di vent'anni ha raccontato la migrazione, la multiculturalità delle città tedesche, ha toccato i toni dell'horror, del dramma giudiziario, del melodramma. Sempre con una grande forza, credibilità, con lo sguardo improntato ai personaggi, alle comunità di appartenenza, alla loro condizione umana.
Questo suo Rheingold è la storia vera di Xatar, rapper iraniano di etnia curda, che si trova al centro di una una vera e propria odissea personale. Nasce profugo insieme ai genitori, militanti nell'Iran di Khomeyni, impara a fare a botte per farsi rispettare per le strade di Bonn, dove da piccolo migra insieme alla famiglia. Diventa poi spacciatore, trafficante, ladro d'oro, infine artista rapper. È una commedia che raccoglie a sé toni diversi, passando da sequenze strazianti di vita vissuta nella guerra a fight di strada, da scene heist movie all'urban drama. Divertente, impeccabile nella descrizione del dolore e della redenzione di un personaggio, figlio di culture diverse e artista, nella rapina e nelle rime.
Scritto da Cosimo Maj
Margini
di Nicolò Falsetti
Scritto e diretto dall'esordiente Niccolò Falsetti e dallo sceneggiatore e attore Francesco Turbanti, Margini è una commedia «toscana» diversa dalle altre. È un punk movie, dove i protagonisti- uno scalcagnato trio hardcore - convincono una nota band statunitense a suonare nella loro città, Grosseto, un posto «a due ore da tutto».
È un film pregevole in molti aspetti, fa ridere di un'ironia malinconica, delinea con intelligenza il ritratto di una realtà lontana, nel tempo e nello spazio, di una provincia poco esplorata, di una sottocultura in fermento, frenetica, ma sopita. Un rendez-vous condito dal delirio punk-hardcore dei tre protagonisti, che altro non porta se non il ritorno all'ordinarietà, imposta da un luogo da cui si può soltanto andare via. Nel frattempo però, Grosseto diventa l'anticamera di un piccolo Woodstock, una giostra di vibranti passioni e scelte estreme, un luogo dove quello che sembra irrilevante diventa fondamentale, ragione di vita. Anche se ti lascia senza un tetto sopra la testa, con la magra consolazione di un pugno di banconote e un trafiletto nella prima pagina della cronaca locale.
Scritto da Cosimo Maj
Il signore delle formiche
di Gianni Amelio
Si può essere puniti per il solo fatto di esprimere se stessi e i propri sentimenti verso qualcuno? Ebbene sì. Negli anni ’60, in Italia, un intellettuale e mirmetologo italiano Aldo Braibanti divenne oggetto di uno scandaloso processo in cui fu accusato di «plagio della mente» e «sottomissione morale», per il solo fatto di essere omosessuale e provare dei sentimenti per Ettore, un giovane ventitreenne, che verrà rinchiuso in un ospedale psichiatrico e sottoposto a elettroshock.
Gianni Amelio adagia sul tessuto filmico, la travagliata vicenda che colpì Braibanti, partendo dalla conoscenza tra i due nelle campagne emiliane sino all’arresto e al processo del poeta. L'occhio della macchina da presa si amalgama alla fotografia dai colori scuri, per posarsi sullo sguardo e le spalle voltate dei protagonisti che assaporano per poco la libertà di essere. Audaci le interpretazioni di Luigi Lo Cascio, nel ruolo del protagonista, di Leonardo Maltese, che incarna il giovane Ettore, e di Elio Germano, nei panni di un giornalista dell’Unità pronto a scagliarsi contro il suo direttore editoriale pur di difendere il poeta dalle accuse cui era sottoposto.
Il Signore delle formiche è uno dei film più intimi del 2022, in cui si percepisce il grido di libertà del regista che riproduce una doppia funzione, inscenando la storia di un amore negato da una società intessuta di bigottismo e restrizione culturale, frutto di un Bel Paese che non è mai andato veramente avanti e al contempo un film su un singolo individuo che ne rappresenta molti, poiché riflette sull'amore e sulla libertà di amare.
Scritto da Francesca Accurso
La nostra selezione dei migliori film
usciti quest'anno,
scritto da redazione ODG
TR-73
24.12.2022
Anche il 2022 è giunto al termine. È stato un anno intenso per la settima arte che, dopo aver superato stoicamente gli anni della pandemia, risplende di nuove storie, punti di vista, idee. L’inventiva dei suoi autori ha interpretato le problematiche del nostro tempo, ed esplorato nuovi modi di intendere il cinema.
Ci siamo commossi, spaventati, divertiti, siamo stati ammoniti, ma sopratutto abbiamo capito quanto l’arte, sopratutto in questi tempi difficili, ci aiuti ad analizzare la realtà che ci circonda, spronandoci a comprendere meglio il presente e facendoci sperare in un futuro migliore. Il cinema è vita, linfa per gli occhi e il cuore. Data la vastità degli argomenti trattati, è difficile identificare la traccia tematica che ha unito le opere di quest’annata. Di certo si può affermare che tutte siano contraddistinte da una vibrante forza creativa, riflessi perfetti di coloro che le hanno concepite e portate sul grande schermo.
America, Europa, Asia, i titoli che hanno segnato il 2022 provengono da ogni parte dell’emisfero, prova tangibile della potenza del cinema, un cinema che non conosce né confini, né barriere. Grandi ritorni, sorprese, piccole gemme nascoste: ecco la nostra selezione dei migliori film di quest’anno, presentati ai festival, in streaming o usciti nelle sale italiane a partire dallo scorso gennaio.
Triangle Of Sadness
di Ruben Östlund
Rutilante, esagerato, schizoide, Triangle of Sadness eccede da sé stesso. Ed esagerare è la cifra adatta per narrare di una società debordante, che vuole accumulare e possedere sempre di più. Forma e materia dell’ultimo film di Ruben Östlund, ormai abbonato alla Palma d’oro, vanno dunque paralleli verso un’apocalissi bulimica, arraffona, una grande bouffe patinata dai filtri instagram di due modelli influencer: Carl e Yaya, individui-immagine, istanze pubblicitarie totalmente inadatte alla comunicazione emotiva. La forza artistica di quest’opera tripartita combacia con l’angoscia del nostro tempo: l’iperbole narcisistica ha sapore di realtà, l’eccesso espressivo si avvicina al più credibile degli orizzonti. Il WC che boccheggiava in Parasite, qui diventa un vero e proprio vaso comunicante a cui è impossibile aggrapparsi, perché la società di Triangle non deperisce per carestia, mancanza, povertà, ma collassa per saturazione, scoppia nella sua pienezza, tenta di combattere il vomito ingozzandosi ancora una volta. Gli stilemi iper-frequentati del naufragio, dell’isolamento, della desertificazione, del ribaltamento elitario, non possono che essere l’ennesima illusione. Perché il punto non è più una guerra tra poveri o tra poveri e ricchi. L’unica battaglia rimasta vaga nel binomio sterile, netto e instagrammabile che sta tra «il fascino discreto» dello sguardo Balenciaga e il sorriso alla HeM. Tragico e geniale.
Scritto da Matteo Bonfiglioli
The Banshees of Inisherin
di Martin McDonagh
The Banshees of Inisherin è uno sguardo disperatamente definitivo su un’umanità bambinesca, narcisista, interessata solo ai propri confini, o alle proprie strategie di espansione. La reazione è di ammirata incredulità. Perché ride, in costume, di vicende vagamente umane e dolorosamente attuali: rimozione, isolamento, sospensione, trasfigurazione dell’altro in ideale. Tutto canta di un individuo insulare, tanto interessato a guerre attigue solo come rassicurante distrazione dal suo reiterato sfacelo. Così il cinema non può che occuparsi di un capriccio, mentre la vita più cruciale si muove ai lati della narrazione. Rancore, cesoie, vendette, capre e follia a sorsi di birra. Infine, un’amicizia possibile solo se postuma. E non c’è più eroismo possibile, nessun canto epocale per passare alla storia. La scrittura sempre più raffinata di Martin McDonagh è capace di fare humor sull’angoscia, ridere della fine del rapporto tra uomo e mondo, perché piangerne sarebbe attestazione di una speranza superstite. Caustico, tragico ed esilarante, The Banshees ha sconvolto Venezia79 e ha portato alla ribalta il talento della bravissima Kerry Condon, forse la vera protagonista del film.
Scritto da Matteo Bonfiglioli
Piccolo Corpo
di Laura Samani
Dopo la vittoria dell’European Discovery-FIPRESCI, Laura Samani si attesta come una nuova importante voce della nostra cinematografia. In Piccolo Corpo rivive quel realismo magico che Alice Rohrwacher -Le Meraviglie, Lazzaro Felice - sembra ereditare da Ermanno Olmi, le oscillazioni tra onirico e contadino di film come Re Granchio di Zoppis e Rigo de Righis o le ispirazioni favolistico-originarie di Bella e Perduta di Pietro Marcello. Tutte istanze di un cinema nostrano che elegge il racconto aedico e la leggenda, come fonte prediletta rispetto al reale. Ma soprattutto, si consolida la possibilità di un cinema terreno e insieme immaginifico, materico eppure iperbolico. Inizio ‘900, laguna veneta, una bimba nata morta è il prodromo per una corsa verso l’impossibile: un santuario di montagna in cui il battesimo, consente al piccolo corpo di avere un nome e di salvarsi dall’oblio. Dalla morte alla vita, Samani inverte il naturale corso degli eventi e delle narrazioni. L’oggetto del desiderio è quindi «dare un nome», antidoto alla sparizione, appunto, dire, raccontare, nominare come rifiuto della realtà mortifera, del consolidato. Piccolo Corpo, raffinato nella recitazione, nella ricerca linguistica dialettale, nella costruzione di personaggi antichi eppure così attuali, delinea il racconto cinematografico più speranzoso e rincuorante per il cinema italiano del 2022, in equilibrio tra sacro e profano.
Scritto da Matteo Bonfiglioli
Licorice Pizza
di Paul Thomas Anderson
Il lupo perde il pelo ma non il vizio. PTA non si stanca mai di stupire il suo pubblico e continua a indagare atmosfere che fanno da contrappunto alle sue opere precedenti. Se ne Il filo Nascosto (2017) l’oggetto del desiderio era un’amore torbido e contorto ambientato nella fredda Inghilterra, con Licorice Pizza PTA torna nella sua San Fernando Valley per raccontare una storia che parla di un amore puro nello sbocciare dell’adolescenza. Anche in questo caso il film è una danza tra due persone che non riescono a smettere di rincorrersi - come nella prima scena - ma non sono mossi da logiche e giochi di potere bensì dal puro desiderio di inseguire i proprio sentimenti. I colori sono caldi e la messa in scena vivace come i suoi protagonisti, ennesima prova di adesione e coerenza tra ciò che vediamo sullo schermo e l’universo interiore dei personaggi raccontati.
PTA conferma la sua abilità nel realizzare un cinema che sembra collocarsi al di fuori del nostro tempo. Come ha detto Sorrentino prima della notte degli oscar: «Ho visto tutti i film degli Oscar, il più bello è Licorice Pizza, mi sembra che sia un film che gioca in un’altro campionato».
Scritto da Eric Scabar
Parigi 13Arr.
di Jacques Audiard
Non era affatto facile per Jacques Audiard, tornare a Cannes sei anni dopo la vittoria della Palma D’Oro con Deephan (2015) e dopo aver realizzato il suo primo lungometraggio in lingua inglese: The Sisters Brothers (2015). La decisione di realizzare un film piccolo e intimo che strizza l’occhio al genere mumblecore, sembra essere stata la scelta giusta. Una gemma scritta a sei mani con Céline Sciamma e Léa Mysius, Parigi, 13Arr. - titolo originale: Les Olympiades - è la perla nascosta di Cannes 2021. Un film semplice ma al contempo complesso, perché si pone l’obiettivo di raccontare quello spaccato antropologico multiforme e in continuo cambiamento che si vive nel 13Arr. di Parigi, un quartiere riconvertito abitato da molti immigrati.
L’ultimo film di Audiard è un’opera che riesce nell’intento di raccontare sogni e timori delle giovani generazioni. È notevole la sensibilità dell’autore nel raccontare una generazione fluida e in continuo cambiamento come quella di oggi. Le paure derivanti dall’utilizzo improprio delle nuove tecnologie, l’ansia del porn revenge, sembra quasi che Audiard abbia vissuto questo tipo di situazioni per quanto è bravo a raccontarle. Parigi, 13Arr. è un film pulsante di vita, che parla del nostro presente e che sa entrare nell’intimità dei giovani d’oggi.
Scritto da Eric Scabar
Il capo perfetto
di Fernando León de Aranoa
Il capo perfetto è l’evento della stagione cinematografica spagnola del 2022. Il film in Spagna ha dominato i Goya 2022, vincendo Miglior film, regia, attore protagonista, sceneggiatura, montaggio e colonna sonora. Fernando León de Aranoa realizza un’impeccabile dark comedy sul mondo del lavoro. Julio Blanco è il proprietario di un'azienda di bilance industriali in attesa di un'imminente visita da parte di una commissione che deciderà sul destino di finanziamenti pubblici e conferirà un premio per l'eccellenza aziendale. Un susseguirsi di problemi e impedimenti metterà a dura prova la professionalità e la reputazione dell’uomo.
Javier Bardem regala una delle interpretazioni più memorabili della sua carriera, costruendo un personaggio controverso e carismatico. La regia e la scrittura di León de Aranoa sono chirurgiche, nulla è superfluo o dato per scontato e ogni elemento contribuisce alla costruzione di una drammaturgia in cui tutto è orientato alla costruzione di un meccanismo impeccabile e bilanciato, come le bilance costruire dall’azienda di Julio Blanco.
Scritto da Eric Scabar
Neptune Frost
di Saul Williams e Anisia Uzeyman
Raramente capita di imbattersi in un film senza precedenti, un po’ perché le trame si riconducono sempre a quella decina di archetipi narrativi, e un po’ perché più si va avanti e più la sperimentazione formale appare stanca e rigurgitata. Neptune Frost riesce nell’impossibile impresa di evadere entrambe le cose, riconstestualizzando l’afro-futurismo in un cinema con una vera urgenza estetica, sonora e politica.
Dal grottesco onnisciente sguardo di un piccione viaggiatore a una banda di minatori con delle schede madre al posto delle scarpe, il film di Williams e Uzeyman è un portale verso un nuovo mondo, reso alieno da decenni di violenta oppressione sociale e culturale.
Scritto da Rodrigo Mella
Funny Pages
di Owen Kline
Sono passati diciassette anni da quando Owen Kline si rifugiava in biblioteca per masturbarsi ne Il calamaro e la balena di Noah Baumbach. Diciassette anni in cui Kline ha lavorato agli Anthology Film Archives di New York, intrapreso una breve carriera da fumettista underground e un’altra da suonatore di banjo, e scritto stesure su stesure di quello che un giorno sarebbe diventato il suo debutto da regista.
Oggi, quel giorno è finalmente arrivato - ed è valsa la pena attenderlo. Funny pages è un sudicio trionfo, un coming of age perso tra le pagine di fumetti porno incollate tra loro da un viscoso liquido bianco, non colla. Coprodotto da A24 e i Fratelli Safdie, il primo film da regista di Owen Kline è uno dei film più ispirati, vivi e divertenti dell’anno.
Scritto da Rodrigo Mella
Nostalgia
di Mario Martone
Un uomo, Felice, torna nel proprio quartiere, il rione Sanità, dopo quarant'anni. Gli sembra che nulla sia cambiato, ma lentamente si perde in quel labirinto fatto di strade, di vicoli e di ricordi, si perde nella nostalgia del passato, ma non si rende conto che il passato non sembra avere alcuna nostalgia di lui. Tutti i personaggi che incontra gli dicono infatti di tornarsene a casa. La Sanità diventa un labirinto borgesiano in cui La fine - citando un racconto di Borges - è già scritta, in cui i tanti sentieri che si biforcano nelle possibilità che offrono i vicoli fisici e i vicoli della memoria sembrano portare a un unico luogo, il luogo del ricordo più oscuro.
Tutto sembra uguale, del resto nelle catacombe di San Gennaro è presente un dipinto che raffigura una donna africana come la moglie del protagonista. Ma tutto è in realtà cambiato. Felice non riesce ad accorgersene, o meglio, sembra accorgersene, ma preferisce seguire fino alla fine i fantasmi, le illusioni, quel canto della sirena, doloroso e distruttivo, che è il ritorno a casa.
Scritto da Arturo Garavaglia
Gli orsi non esistono
di Jafar Panahi
La realtà sfugge alla rappresentazione e la inchioda fino ad annientarla nell’ultimo - speriamo non per molto - film di Jafar Panahi. Il regista, confinato in un villaggio di frontiera con la Turchia, assiste in remoto alle riprese del suo nuovo film che narra della fuga di due innamorati dall’Iran. Nel frattempo, si trova a fare i conti con l’atmosfera, sempre più cupa e minacciosa, del luogo che lo ospita.
Un film privo di speranza, quello di Panahi, che sembra sancire il totale fallimento dell’agire del cinema per produrre una realtà diversa da quella che appare. Il metacinema, caratteristica distintiva della filmografia del regista - e della cinematografia iraniana stessa - sembra arrestarsi in un punto di non ritorno. Le persone reali non accettano più il proprio ruolo di personaggi e sfuggono alla messa in scena che è, sempre e comunque, il cinema. Il regista è quindi a un punto fermo. Non sa se fuggire - scoperto e non accettato - o se rimanere e cercare di far sì che la realtà muti anche senza l’ausilio della settima arte.
Scritto da Arturo Garavaglia
When The Waves Are Gone
di Lav Diaz
In una cornice noir Lav Diaz mette in scena uno scontro titanico tra due entità destinate all’annientamento reciproco. Il detective Hermes, apparentemente integerrimo eppure corrotto, è colpito da una violentissima psoriasi che lo porta ad essere respinto da tutti. Il suo superiore, appena uscito dal carcere dopo essere stato arrestato dallo stesso Hermes, si fa predicatore e gira per le Filippine - pretendendo di battezzare gli impuri - alla ricerca costante di vendetta nei confronti del suo ex-sottoposto. I detentori del potere, rappresentati dai due poliziotti, vengono messi alla berlina da Diaz che, attraverso i suoi chiaroscuri, esalta le rispettive miserie e la drammaticità del loro marciume.
Comico e tragico, When The Waves Are Gone incede inesorabilmente, fra danze sfrenate, grotteschi omicidi, abbacinanti campi lunghi e i consueti piani sequenza tipici del regista filippino, verso un finale in cui i due «eroi» si fronteggiano in uno scontro all’ultimo sangue degno dei migliori poemi epici, se non fosse che i protagonisti del film sono criminali e il loro duello è tutt’altro che epico. Il pamphlet di Lav Diaz contro i poteri che dominano il suo paese è un ulteriore tassello di una vera e propria opera-mondo a cui il regista mette mano sin dai suoi esordi. Il suo linguaggio si sta evolvendo e sta virando sempre di più verso il genere e il grottesco, ma l’incisività e la lucidità del suo cinema restano intatte.
Scritto da Arturo Garavaglia
Pinocchio
di Guillermo del Toro e Mark Gustafson
Come il burattino, così il film: il Pinocchio in stop-motion di del Toro prende vita come il suo protagonista, attraverso la forza magica ma artigianale della più concreta tra le forme di animazione. Finalmente un corpo imperfetto, trafitto dagli stessi chiodi con cui Geppetto ha crocifisso l’enorme Cristo di legno nella chiesa di paese, finalmente la presenza della morte, che permea il racconto come già faceva nel romanzo di Collodi, finalmente una fiaba che non è in antitesi con la realtà, in cui il fantastico si intreccia con la storia del fascismo italiano.
Ora il grillo parlante abita davvero nel cuore di Pinocchio perché già abitava l’albero da cui proviene quel pezzo di legno: è solo una delle tante trovate poetiche di del Toro, che si serve della maestria di Gustafson per plasmare un’opera animata tra le più profonde degli ultimi anni. E nello scomodare il celebre romanzo e tutte le sue incarnazioni precedenti, invece di aderire al modello sceglie di sovrapporre la propria visione a quella originale. Forse è questo - ogni tanto occorre ricordarlo - che rende tale un autore.
Scritto da Luigi Muneratto
Fire of Love
di Sara Dosa
L’incredibile storia dei coniugi Krafft, pionieri della vulcanologia e figure anticonformiste, viene ripercorsa in questo documentario di Sara Dosa attraverso i materiali d’archivio delle loro spedizioni scientifiche. Come batte il cuore della Terra e come quello degli innamorati sono le domande che il film si pone e lascia irrisolte, travolgendo lo spettatore in un flusso di lava e sentimento altrove dalla memoria e lontano dal tempo.
Eroi herzoghiani, romantici e sciagurati, questi due amanti scienziati resteranno a lungo impressi nella mente di chi fa la loro conoscenza per il segreto del loro amore, l’utopia delle loro imprese e la fatalità del loro destino. È cinema prezioso questo, che salva dall’oblio e narra l’ineffabile racchiuso nella scintilla che innesca l’eruzione, in un bacio e nella sua immagine strappata alla morte.
Scritto da Andrea Tiradritti
De Humani Corporis Fabrica
di Verena Paravel e Lucien Castaing-Taylor
Planato alieno alla scorsa Quinzaine des réalisateurs di Cannes, De Humani Corporis Fabrica di Verena Paravel e Lucien Castaing-Taylor è un film esperienza che non lascia indifferenti. Nel solco dei loro lavori precedenti la coppia di cineasti e antropologi ridefinisce le possibilità tecnologiche e ontologiche dello sguardo cinematografico, sondando le viscere del corpo umano come astronauti nello spazio interstellare. Filmata in un ospedale parigino, l’opera è un disturbante susseguirsi di panorami tanto familiari quanto sconosciuti: le membra dei pazienti, i loro tessuti e i loro organismi in funzione vengono indagati grazie all’utilizzo di macchine da presa grandi come bisturi, capaci di percorrere canali nascosti e gallerie pulsanti in modo da restituire così immagini senza uguali.
Eccezionale esplorazione riguardo al mistero dell’umano e del suo funzionamento, De Humani Corporis Fabrica si concentra sul microscopico per abbracciare l’infinito, rivelando l’orrore e la meraviglia dei mille corpi che ci abitano.
Scritto da Andrea Tiradritti
Tár
di Todd Field
Il film è incentrato su Lydia Tár (Cate Blanchett), talentuosa direttrice d’orchestra, e le cruciali settimane che la separano da quello che sarà il momento più importante della sua carriera: la serata in cui dovrà dirigere la quinta sinfonia di Mahler. Todd Field, lontano dal mondo del cinema per sedici anni, torna dirigendo un’opera magistrale, il complesso character-study di una donna ossessionata dal potere e dalla perfezione, che farebbe di tutto per raggiungere i propri obiettivi e mantenere il suo status. Cate Blanchett porta sullo schermo quella che potrebbe essere la sua interpretazione migliore, in un ruolo che sta già diventando iconico.
Ma Tár non è solo un brillante studio sul personaggio, attraverso il film, infatti, Field cerca di analizzare la figura di un’artista moralmente complicata, evidenziando anche in maniera satirica la cosiddetta cancel culture. Ogni dettaglio del film è minuziosamente curato: dalle straordinarie performance del cast - dove spicca anche la presenza dell’attrice tedesca Nina Hoss in un ruolo secondario - fino al raffinato uso del piano sequenza. Tár uscirà al cinema il prossimo 9 febbraio.
Scritto da Omar Franini
Decision to Leave
di Park Chan-wook
Decision To Leave, il nuovo film di Park Chan-wook, è un noir dalle sfumature melodrammatiche che racconta il complesso rapporto tra Chang Hae-joon, un detective tormentato, e Song Seo-rae, indagata numero uno nell’omicidio del marito. Park sfrutta questo intrigante incipit per creare un’opera affascinante, dove cerca di narrare la storia di un amore impossibile. La nuova pellicola del maestro coreano soddisfa sotto ogni punto di vista, in special modo per le magistrali interpretazioni di Park Hae-il e Tang Wei, capaci di dare vita a personaggi enigmatici e dal fascino irresistibile. La regia di Park è impeccabile, sia per il modo in cui ha saputo gestire il ritmo del film e i suoi repentini cambi di tono, che per la maniera di rappresentare la realtà distorta in cui i suoi due personaggi vivono.
Decision to Leave è un'opera imperdibile, che continua ad affascinare e stupire ad ogni visione, consigliamo di recuperarlo appena uscirà in sala il prossimo 2 febbraio.
Scritto da Omar Franini
RRR
di S. S. Rajamouli
Uno dei film più sorprendenti dell’annata 2022 proviene da Tollywood, industria cinematografica indiana che produce film in lingua Telugu, a differenza delle opere in lingua Hindi della più conosciuta Bollywood. Stiamo parlando di RRR, il nuovo film del visionario regista S. S. Rajamouli, che narra della forte amicizia tra due rivoluzionari e della loro lotta contro il colonialismo britannico. La storia avvincente, le due intense interpretazioni di Ram Charan e N.T. Rama Rao Jr., e soprattutto la regia massimalista di Rajamouli-dove spicca l’uso sproporzionato del CGI o di sequenze musicali indimenticabili - rendono RRR una delle visioni più coinvolgenti dell’anno. Il lungometraggio non ha, di fatto, nulla da invidiare ai grandi blockbuster americani.
Il film, inoltre, contiene una delle sequenze musicali più coinvolgenti e divertenti apparse sul grande schermo nell’ultimo periodo: la scena dove i due protagonisti si ritrovano ad un matrimonio e iniziano a ballare una danza tipica sulle note della canzone Naatu Naatu. Consigliamo di recuperare RRR su Netflix, anche se purtroppo è presente solo con il doppiaggio in lingua Hindi.
Scritto da Omar Franini
Pacifiction
di Albert Serra
Il nuovo lungometraggio di Albert Serra racconta la storia di Monsieur De Roller, un diplomatico francese incaricato di recarsi a Tahiti per controllare degli stabilimenti militari, e verificare se sono vere le voci sull'avvistamento di un sottomarino che potrebbe rappresentare il pericolo di un conflitto nucleare.
Pacifiction è un’opera complessa, che non lascia indifferente chi la guarda. Serra si serve del ritmo lento, delle scene improvvisate, e della mancanza di azione, per creare un film dall’atmosfera ipnotica e contemplativa. Il cineasta trasforma un piccolo paradiso in un inferno paranoico, nel quale Monsier Rolleur, interpretato da un camaleontico Benoît Magimel, si trova a vagare, di luogo in luogo, alla ricerca di una risposta definitiva.
Scritto da Omar Franini
Forever Young - Les Amandiers
di Valeria Bruni Tedeschi
È il 1986 e alla prestigiosa scuola di recitazione del Théâtre des Amandiers di Parigi non può essere ammesso chiunque: tra i numerosi candidati solo dodici aspiranti attori - i più talentuosi - saranno selezionati per frequentare il corso tenuto dal celebre regista Patrice Chéreau, qui interpretato da un formidabile Louis Garrel. Tra i fortunati allievi ammessi c'è Stella, giovane ragazza borghese e aspirante attrice.
Nel film Stella non dice molto, o meglio, non lo fa attraverso le parole: perché Forever Young - Les Amandiers, quinta opera per Valeria Bruni Tedeschi alla regia, parla soprattutto con i corpi dei suoi interpreti. Il film rappresenta una felice quanto ossequiosa celebrazione del lavoro dell'attore, un lavoro dove i confini tra ruolo, persona e personaggio si confondono nel turbinìo della vita dei ventenni della Parigi degli anni Ottanta, in preda all'incombere degli spettri dell'AIDS e dell'eroina. Un film tutto d'un fiato, dove ogni inquadratura trasuda di devozione per l'arte della recitazione sotto ogni suo aspetto, anche in quelli meno glamour.
Scritto da Lorenzo Vitrone
Il corsetto dell'imperatrice
di Marie Kreutzer
Spesso gli spiriti non si trovano in edifici fatiscenti o antiche dimore, ma dentro di noi, e ci perseguitano, incessantemente, giorno dopo giorno. Il corsetto dell’imperatrice parla di una donna vittima della storia, tormentata dal suo stesso mito, incapace di trovare la felicità in un mondo che le è familiare e sconosciuto assieme. La storia della leggendaria Elisabetta di Baviera - l’immortale Sissi - raccontata attraverso un gioco di specchi, un labirinto narrativo dove tutto e sfuggente ma nello stesso tempo tangibile.
La talentuosa Marie Kreutzer dirige una superba Viki Krieps - l’indimenticabile Alma di Phantom Thread (2017) - in un’opera dalla geniale messa in scena, moderna, provocatoria e commoventemente vera. Stupenda la sequenza che accompagna i titoli di coda.
Scritto da Alberto de Carolis Villars
Blonde
di Andrew Dominik
Marylin Monroe non è mai esistita. Andrew Dominik - l’spirato regista di L’assasinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (2007) e Cogan (2012) - frantuma in mille pezzi l’immagine della celeberrima icona per restituisci un pirandelliano gioco delle parti. Agnello sacrificale del patriarcato, vittima dell’incurante, perverso, e famelico desiderio maschile. Dominik si spinge al limite, plasmando un’opera che vive nello spazio della metafora. Un lungo e visionario incubo lynchiano, che sia discosta dal semplice biopic per mutare in un’allucinata, e feroce, parabola sul successo.
Un lungometraggio radicale nella forma e nei contenuti che, attraverso l’astrazione dalla verità storica - che sceglie coscientemente di non seguire per accostarsi alla stupenda «biografia immaginaria» che Joyce Carol Odets scrisse nel 1999 - un’ispirato e brillante uso del colore, e un continuo dirottamente dei formati delle immagini, ci accompagna nell’inferno personale di Norma Jean Baker, il fragile, ed infelice, essere umano intrappolato dietro alla fasulla maschera della peccaminosa diva hollywoodiana.
Scritto da Alberto de Carolis Villars
Il prodigio
di Sebastián Lelio
1862: in un piccolo villaggio rurale dell’Irlanda, l’undicenne Anna O’Donnell sopravvive senza mangiare. La giovane afferma che il suo unico nutrimento proviene dal cielo, miracolo o imbroglio? Grazia divina o cieca superstizione? La verità è molto più complessa di questo.
Conturbante, ancestrale come un cantico che giunge dalle profondità del linguaggio umano, la nuova opera di Sebastián Lelio, prodotta da Netflix, è un accurato e ingegnoso studio sulla forza della convinzione. Un tour de force attoriale che, retto interamente dalla prova di una Florence Pugh in stato di grazia, coinvolge lo spettatore in una dimensione misteriosa e spettrale. Magistralmente cadenzato e convincente sino alla fine.
Scritto da Alberto de Carolis Villars
Bones and All
di Luca Guadagnino
Stati Uniti, un pigiama party e i Duran Duran di sottofondo, siamo negli anni 80 ma non stiamo per vedere un teen drama nostalgico: Maren, la protagonista, stacca di netto con un morso l’indice della sua amica. Con questa immagine Luca Guadagnino torna all’horror abbandonando l’Europa degli anni 70 raccontata da Suspiria ed abbracciando i paesaggi sconfinati dell’America narrata da Jack Kerouac. Bones and All è il coming of age di Maren e Lee, una coppia unita dallo stesso stato da outsider determinato dal loro impulso irrefrenabile di cibarsi di carne umana, è un viaggio tolkieniano alla ricerca di qualcosa da accettare o da distruggere: la propria diversità.
La regia di Guadagnino si dimostra, ancora una volta, di una raffinatezza estrema, capace di rimanere perfettamente in equilibrio tra orrore e incanto. Gli aspetti più raccapriccianti del viaggio sono mediati da un’atmosfera terrena, da una quotidianità che permette all’amore adolescenziale di nascere senza sembrare fuori luogo e la crudezza dei corpi divorati ed insanguinati è contenuta nei paesaggi meravigliosi e deserti. Bones and All è un film che racconta di due anime perse, avendo anch’esso una doppia anima: brutale e poetica.
Scritto da Bianca Susi
Marcel the shell with shoes
di Dean Fleisher-Camp
Era il 2010 quando Dean Fleischer-Camp andò virale su Youtube con il video del piccolo Marcel, una conchiglia con un solo occhio e delle bellissime scarpe che, animata in stop-motion, rispondeva ad una breve intervista. Dodici anni dopo, il video di tre minuti è diventato un film gioiello della tecnica mista senza cambiare nulla della sua struttura iniziale: un mockumentary su una conchiglia animata.
Marcel the shell with shoes on è un film per ragazzi? Assolutamente sì, ma isolarlo in una fascia di pubblico ristretta sarebbe sbagliatissimo. È una storia che parla di solitudine, di famiglia, di crescita e di lutto mantenendo come punto di vista principale quello della piccola conchiglia mentre si confronta con il suo nuovo inquilino Dean, il regista. Per novanta minuti seguiamo Marcel che, con la stessa curiosità di un bambino, scopre il mondo esterno smontando con una semplicità quasi filosofica tutti i costrutti futili ed artificiali della vita umana. Nonostante il richiamo forte all’infanzia e alla favola, il film trova sullo schermo la giusta chiave per essere universale e maturo, risultando un’opera visivamente interessante in cui animazione e mockumentary si intrecciano e si esaltano portando noi spettatori a ridere, piangere e crescere con la piccola conchiglia.
Scritto da Bianca Susi
Nope
di Jordan Peele
Jordan Peele centra di nuovo un punto cruciale del cinema con il suo bad miracle: è ancora possibile fare intrattenimento d’autore. E il comico reinventatosi maestro dell'horror moderno lo fa nella maniera filmica più familiare possibile: ripescando dal passato tropi da blockbuster - molti hanno paragonato questo film ad un Lo Squalo (1975) moderno - per reinserirsi nel futuro del cinema, non tralasciando le critiche sociali ormai suoi segni distintivi.
In Nope, la caccia all’alieno svela le pratiche fallaci di un’industria cinematografica che continua a penalizzare la comunità afroamericana, quando le loro sofferenze vengono trasformate in intrattenimento. E di fronte all’imponente, e spaventosa, crisalide aliena bianca, il discorso metanarrativo si fa maestoso, come nel miglior cinema d’autore.
Scritto da Davide Merola
Top Gun: Maverick
di Joseph Kosinski
Gestire il seguito di un cult è sempre difficile. Pochi ci sono riusciti, ma in questa cerchia possiamo annoverare senza ombra di dubbio Joseph Kosinski, regista del sequel del fortunato film di Tony Scott. Più di trent’anni dopo il primo Top Gun, Tom Cruise torna con una storia di mentori e turbe giovanili - come quella del primo film in fondo - ma stavolta Maverick sta dall’altro lato. E anche se la storia rimane simile e semplice, la maestria con cui è gestito questo secondo capitolo farà scuola.
Top Gun: Maverick punta in alto come i veri piloti di jet, così come lo stesso Cruise, sempre attento e rigido nei confronti della qualità delle sue produzioni. Il sequel si fa così, carico dei «fallimenti» passati di un film precedente rinchiuso nella sua epoca, e apre questa nuova storia a diversi scenari: i personaggi si fanno vulnerabili e il contesto diventa credibile, anche nella stratosfera. Menzione d’onore per il cameo di Val Kilmer.
Scritto da Davide Merola
Saint Omer
di Alice Diop
Medea, il mito, la maternità e la più atroce trasgressione: l’infanticidio. Saint Omer, esordio al lungometraggio di finzione della regista francese di origini senegalesi Alice Diop, ha la forma e l’assetto di un courtroom drama che trae spunto da un reale fatto di cronaca, ma che progressivamente si muove su riflessioni assolute. Rama è una giovane scrittrice di colore incinta, è una donna istruita e ben inserita nell’élite culturale occidentale. Interessata ad un progetto sul mito di Medea, decide di seguire il processo a Laurence Coly, giovane donna di origini senegalesi accusata di aver lasciato annegare sua figlia di soli quindici mesi in mare. Non è un film semplice Saint Omer, Alice Diop affida tutto al linguaggio che assume una forma ambivalente. Ad un largo uso del dialogo corrisponde la scelta di una essenzialità formale e visiva che riduce la messa in scena a pochi elementi.
Le due protagoniste diventano l’una specchio dell’altra, e al contempo emblema della dualità di un’anima divisa tra senso di appartenenza al proprio tessuto culturale d’origine, e adesione ai canoni di modernità occidentali. Ma il cuore pulsante della riflessione verte su interrogativi ben più inquietanti che riguardano il rapporto madre-figlia. Un legame indissolubile tanto quando insondabile, come in ultima istanza rimangono insondabili le ragioni che hanno portato Laurence a compiere il più atroce dei gesti.
Scritto da Diana Incorvaia
As bestas
di Rodrigo Sorogoye
Con As Bestas, il suo sesto ed ultimo film, Rodrigo Sorogoyen, regista spagnolo tra i più interessanti nel panorama europeo contemporaneo, compie ancora una volta una profonda indagine sulla parte più oscura e bestiale dell’animo umano. Emblematica in questo senso la sequenza d’apertura del film: un ralenti che mostra una violenta lotta tra uomo e animale, l’uno nel tentativo di prevalere sull’altro. Pur non mostrando nessuno dei volti dei protagonisti, lo spettatore ha già chiaro quello che accadrà in seguito. La paura dell’altro percepito come diverso apre le porte all’istinto di sopraffazione e dominazione attraverso il solo utilizzo della forza bruta . Ambientato tra i paesaggi di montagna galiziani, il film segue la vicenda di una coppia di coniugi che decide di trasferirsi in un piccolo villaggio di campagna nel tentativo di entrare più a contatto con la natura. La sola presenza dei nuovi arrivati basterà a creare tensione con gli abitanti del luogo. Sorogoyen è magistrale nella gestione di una tensione latente ma sempre percepibile, che conduce lo spettatore in un clima di sospensione man mano più teso. Il progressivo scardinamento dei punti salienti del genere thriller, sfianca lo sguardo che rimane in attesa di una esplosione, del raggiungimento di un vertice emotivo, senza che questo però arrivi mai.
All’improvviso si cambia prospettiva, quasi a simulare un rilascio di energia, uno spiraglio d’aria, introdotto dal punto di vista di un personaggio secondario alla narrazione. Una regia esemplare mista ad una capacità di narrazione stratificata su più livelli confermano Rodrigo Sorogoyen come uno dei registi più validi della sua generazione.
Scritto da Diana Incorvaia
Gigi la legge
di Alessandro Comodin
La comfort zone della scrittura relega il cinema ad una dimensione rassicurante, lontana dal rischio narrativo, lontana dall’intromissione della vita nel film, del caos e dell’imprevedibilità che caratterizzano l’esistenza e che il cinema tenta di imitare. Solo quando la settima arte riesce a farsi carico di raccontare il reale attingendo ad esso - non solo in senso tematico, ma anche pratico, cioè introducendo l’elemento del non-attore - allora si raggiunge quel «vero» a lungo ricercato da moltissimi autori. Un vero unicamente raggiungibile con un atto di fede nei confronti della storia che quest’ultimi vogliono raccontare, lasciandosi trasportare dai soggetti a cui danno il potere di influenzare il proprio prodotto che, nel momento stesso in cui la camera si accende, viene inevitabilmente riscritto.
Gigi la Legge è l’esempio contemporaneo di questa ricerca a lungo professata da teorici del calibro di Cesare Zavattini. È l’esempio che per fare cinema non serva una storia d’impatto o fuori dal comune, ma un personaggio che ci entri nel cuore e del quale vogliamo seguire le vicende, positive o negative che siano, anche là dove si tratti di un singolare vigile urbano di un piccolo paesino del Friuli-Venezia Giulia. Il cinema di oggi, infatti, ha bisogno di storie comuni e meno di grandi eroi.
Scritto da Aureliana Bontempo
Notte fantasma
di Fulvio Risuleo
L’ultimo film di Fulvio Risuleo racconta di una notte fatta di crescita personale, di auto-determinazione del proprio io e comprensione di esso. I due personaggi che animano il film arrivano, tuttavia, a due consapevolezze diverse. Da una parte troviamo il personaggio di Tarek, un ragazzo figlio di seconda generazione, apparentemente ingenuo, ma in realtà alla ricerca di una sua tranquillità quotidiana, che non richiede più di ciò che la vita gli può dare. Finalmente, un personaggio contemporaneo che ci insegna che essere privi di sogni e motivazioni non è una colpa o motivo di inferiorità intellettiva, ma lo specchio dei nostri tempi.Dall’altra parte, in contrapposizione con Tarek, ci viene presentato un poliziotto, un fantasma senza nome che vaga in una Roma, per chi la conosce e la vive, familiare ma allo stesso tempo sconosciuta, il quale alla fine di una lunga notte comprende la propria impossibilità di svincolarsi dalle regole non scritte della società e vivere una vita fatta di libertà e accettazione di sé.
Notte Fantasma, oltre a proporre un interessante ridimensionamento del «maschile» nei rapporti interpersonali e sociali, porta con sé un insegnamento, condivisibile o meno: per essere sereni e in pace con se stessi bisogna accettare la propria condizione senza pretendere forse nulla di più di ciò che la vita ci offre.
Scritto da Aureliana Bontempo
The Whale
di Darren Aronofsky
Le balene, a differenza di quanto si possa immaginare, sono tra gli animali che percorrono le maggiori distanze intorno al globo. Eppure, la balena di The Whale, Charlie, non si muove mai.Charlie è un insegnante universitario di letteratura che, non riuscendo a superare la morte del proprio fidanzato, trova conforto nel cibo, ingrassando fino ad assumere un peso tale da condizionare la propria salute fisica.
Adattamento dell’omonima pièce teatrale, il film di Darren Aronofsky è un'attenta e delicata messa in scena del dolore. The Whale è un’opera fatta di materia tangibile, in cui il corpo di Charlie diventa una superficie sulla quale si accumulano cordoglio e rimpianti di un passato doloroso fatto di perdite e insoddisfazioni. Tale superficie trova il suo diretto corrispettivo sullo schermo, che nel caso specifico di questo film, permette un contatto diretto con i sensi di chi guarda, provando profonda empatia con il protagonista, merito anche di un'incredibile performance di Brendan Fraser. Una casa, una bibba e una balena. The Whale cela il tentativo di accettare i propri fallimenti e tentare, letteralmente fino all’ultimo respiro, di porvi rimedio. L'invito diretto che ci pone Aronofsky è quello di ricercare l’onestà, in una società in cui questo valore sembra aver smarrito il suo significato più autentico.
Scritto da Aureliana Bontempo
After Yang
di Kogonada
Che cosa significa essere cinese oggi? Cosa significa essere figlio della diaspora cinese?
È questo ciò che Kogonada esplora nel suo secondo film After Yang, presentato al Festival di Cannes. Liberamente adattato da un racconto di Alexander Weinstein, il film è ambientato in un futuro fantascientifico, ma piuttosto attendibile rispetto a quello che sarà effettivamente il futuro dell’umanità, in cui è possibile acquistare dei cloni per fare dare dei fratelli ai propri figli. After Yang presenta un interessante punto di vista sul lungo interrogativo “cosa accadrebbe se i robot potessero provare emozioni?”; non prendendo però alcuna posizione etica in merito, ma, al contrario, sfruttando la domanda per riflettere su cosa siano effettivamente le emozioni umane.
Quando Yang, l’androide, dai connotati asiatici, appartenente ad una famiglia americana che ha adottato una bambina cinese alla sua nascita, si spegne per sempre, il padre di famiglia cerca in tutti i modi di farlo aggiustare, scoprendo che il robot che è stato a loro fianco per tutto quel tempo, era in realtà un “essere” sensibile e introspettivo che si chiedeva ogni giorno cosa significasse essere cinese.
È allora chiaro che, per il regista, essere cinesi non significa conoscere gli aneddoti e la Storia della Cina, ma riconnettersi con quella propria cultura fatta di un inevitabile connessione con i defunti, significa tenere vivo il loro ricordo, e soprattutto i loro ricordi.
Scritto da Aureliana Bontempo
Monica
di Andrea Pallaoro
Dopo anni di silenzio, Monica, a causa della malattia della madre, trova il coraggio di riaffacciarsi sul proprio passato e rincontrare i suoi parenti. Per non svegliare il ricordo della persona che è stata, però, decide di presentarsi alla porta della loro casa in punta di piedi. È l’ultima occasione che ha per ottenere quell’antica agnizione che si anela nel rapporto con il materno: essere riconosciuti per quello che si è diventati. Eppure, dormire di fianco ad un genitore, da adulti, assume un valore diverso, dal momento che il proprio corpo non è più quello di una volta ma è cresciuto, mutato e con sé porta tutte le conquiste e le ferite che la vita gli ha procurato. Così, il regista Andrea Pallaoro riflette sull’identità e la memoria, dimostrando come gli sguardi e i gesti in una foto di famiglia possano restituire la distanza dei baci che nel tempo sono stati negati.
Scritto da Alice De Luca
Esterno Notte
di Marco Bellocchio
Fedele alla linea, con Esterno Notte, Marco Bellocchio torna a mostrare l’inquietudine che nel 1978 si è nascosta dietro le porte delle case italiane. Così, camminando per i corridoi del Bel Paese, in 330 minuti restituisce il senso di attesa di quei giorni, facendo aggrappare gli spettatori alle speranze di tutti i personaggi che racconta. Eppure, mentre le macchie sulle mani di Cossiga cominciano a dissolversi insieme alla fede di Paolo VI, la pazienza di Eleonora Chiavarelli, come anche la disponibilità a trattare delle BR, si appresta a terminare. Mano a mano, infatti, portando sulle spalle, come una croce, il peso del periodo di prigionia, il presidente della Democrazia Cristiana diventa ostaggio di ciò che rappresenta. Tanto che, senza più soffocare la narrazione tra le stanze dei brigatisti, dopo diciannove anni, il regista di Buongiorno, notte, trova finalmente il coraggio di uccidere Aldo Moro anche sul grande schermo.
Scritto da Alice De Luca
Rheingold
di Fatih Akin
Rheingold è l'undicesimo film di Fatih Akin, tedesco di origine turca, regista di culto che nell'arco di vent'anni ha raccontato la migrazione, la multiculturalità delle città tedesche, ha toccato i toni dell'horror, del dramma giudiziario, del melodramma. Sempre con una grande forza, credibilità, con lo sguardo improntato ai personaggi, alle comunità di appartenenza, alla loro condizione umana.
Questo suo Rheingold è la storia vera di Xatar, rapper iraniano di etnia curda, che si trova al centro di una una vera e propria odissea personale. Nasce profugo insieme ai genitori, militanti nell'Iran di Khomeyni, impara a fare a botte per farsi rispettare per le strade di Bonn, dove da piccolo migra insieme alla famiglia. Diventa poi spacciatore, trafficante, ladro d'oro, infine artista rapper. È una commedia che raccoglie a sé toni diversi, passando da sequenze strazianti di vita vissuta nella guerra a fight di strada, da scene heist movie all'urban drama. Divertente, impeccabile nella descrizione del dolore e della redenzione di un personaggio, figlio di culture diverse e artista, nella rapina e nelle rime.
Scritto da Cosimo Maj
Margini
di Nicolò Falsetti
Scritto e diretto dall'esordiente Niccolò Falsetti e dallo sceneggiatore e attore Francesco Turbanti, Margini è una commedia «toscana» diversa dalle altre. È un punk movie, dove i protagonisti- uno scalcagnato trio hardcore - convincono una nota band statunitense a suonare nella loro città, Grosseto, un posto «a due ore da tutto».
È un film pregevole in molti aspetti, fa ridere di un'ironia malinconica, delinea con intelligenza il ritratto di una realtà lontana, nel tempo e nello spazio, di una provincia poco esplorata, di una sottocultura in fermento, frenetica, ma sopita. Un rendez-vous condito dal delirio punk-hardcore dei tre protagonisti, che altro non porta se non il ritorno all'ordinarietà, imposta da un luogo da cui si può soltanto andare via. Nel frattempo però, Grosseto diventa l'anticamera di un piccolo Woodstock, una giostra di vibranti passioni e scelte estreme, un luogo dove quello che sembra irrilevante diventa fondamentale, ragione di vita. Anche se ti lascia senza un tetto sopra la testa, con la magra consolazione di un pugno di banconote e un trafiletto nella prima pagina della cronaca locale.
Scritto da Cosimo Maj
Il signore delle formiche
di Gianni Amelio
Si può essere puniti per il solo fatto di esprimere se stessi e i propri sentimenti verso qualcuno? Ebbene sì. Negli anni ’60, in Italia, un intellettuale e mirmetologo italiano Aldo Braibanti divenne oggetto di uno scandaloso processo in cui fu accusato di «plagio della mente» e «sottomissione morale», per il solo fatto di essere omosessuale e provare dei sentimenti per Ettore, un giovane ventitreenne, che verrà rinchiuso in un ospedale psichiatrico e sottoposto a elettroshock.
Gianni Amelio adagia sul tessuto filmico, la travagliata vicenda che colpì Braibanti, partendo dalla conoscenza tra i due nelle campagne emiliane sino all’arresto e al processo del poeta. L'occhio della macchina da presa si amalgama alla fotografia dai colori scuri, per posarsi sullo sguardo e le spalle voltate dei protagonisti che assaporano per poco la libertà di essere. Audaci le interpretazioni di Luigi Lo Cascio, nel ruolo del protagonista, di Leonardo Maltese, che incarna il giovane Ettore, e di Elio Germano, nei panni di un giornalista dell’Unità pronto a scagliarsi contro il suo direttore editoriale pur di difendere il poeta dalle accuse cui era sottoposto.
Il Signore delle formiche è uno dei film più intimi del 2022, in cui si percepisce il grido di libertà del regista che riproduce una doppia funzione, inscenando la storia di un amore negato da una società intessuta di bigottismo e restrizione culturale, frutto di un Bel Paese che non è mai andato veramente avanti e al contempo un film su un singolo individuo che ne rappresenta molti, poiché riflette sull'amore e sulla libertà di amare.
Scritto da Francesca Accurso