TR-72
06.12.2022
In un outtake di No More Parties in LA Kanye West rappava: “I wish dressed as fresh as Shia LaBeouf”. Il verso va perso, l’ammirazione di Ye nei confronti del gusto nel vestirsi di LaBeouf cresce e culmina con una visita del rapper a casa dell’attore, dove chiede a LaBeouf alcuni suoi vestiti per uno store temporaneo. L’attore aveva da poco portato a un concerto di West la madre, sua grande fan, e il rapper si era rivelato dolcissimo con lei, così gli sembra giusto ricambiare la cortesia. “Vai pure, amico mio. Prendi tutto quello che vuoi”. West gli porta via tutto, cappello di Indiana Jones compreso.
Da GQ a Vogue, gli outfit di LaBeouf sono stati scomposti, criticati, osannati: c’è chi ha dedicato pezzi su pezzi alle sue scelte in fatto di scarpe, chi pensa sia l’attore meglio vestito di Hollywood, chi ci ha aperto profili Instagram e ha investito una fortuna per riuscire ad acquistare i suoi leggins sportivi tinti di rosa shock Valentino.
Per Highsnobiety, noto media brand di moda e lifestyle, è “a normcore fashion god”, uno che pare uscire di casa vestito con le prime cose trovate in armadio, senza scadere mai nel cattivo gusto, e anzi capace di crearsi uno stile elettrico e sciatto: irriproducibile. A un passo dal kitsch, lì per sfiorarlo senza toccarlo mai, grazie a un menefreghismo sfrontato, il viso di chi sfida il mondo con una classe che rimane dono di pochi.
Se è vero che l’uomo è ciò che veste, a Shia LaBeouf piace stare comodo in regole tutte sue. E pare l’ultimo della classe, con quel suo sguardo tutto stropicciato laggiù all’angolo. Il pestato, l’impestato. Ma gli basta uno sguardo lanciato di sguincio, una frase impastata in un tono che si muove da basso, per calamitare il resto a sé. Shia LaBeouf aspira all’incendio.
Gennaio 2020. L’Hollywood Reporter organizza una tavola rotonda tra attori. Accanto a LaBeouf Adam Driver, Robert De Niro, Tom Hanks, Jamie Foxx e Adam Sandler. Conduce Stephen Galloway. LaBeouf porta una polo oversized con taschino sul cuore; ha affrontato, mesi prima, un periodo di riabilitazione dopo un arresto per disturbo della quiete pubblica e stato d’ebrezza a Savannah, Georgia, durante le riprese di Peanut Butter Falcon. Nei mesi di ricovero gli è stato riconosciuto un disturbo da stress post-traumatico e ha iniziato a lavorare al soggetto del suo film autobiografico, Honey Boy.
LaBeouf se ne sta zitto. Ascolta attento i colleghi, interviene solo se sollecitato da Galloway che gli chiede come affronta il suo mestiere d’attore (“Preparandomi, preparandomi come per la boxe. Preparandomi sempre, perché per me è vita o morte, ogni volta può essere l’ultima”) e chi tra gli altri gli ha insegnato di più. LaBeouf guarda dritto a lui, mette a fuoco, spara il colpo: “Bob”. E De Niro sornione, con il ghigno di chi sa d’aver fatto quel che doveva fare, sorride, s’allunga, ringrazia e torna a sé, ma tiene ai margini degli occhi una luce che solo i folli sanno donare a chi li ascolta. Galloway passa la palla agli altri, poi torna a LaBeouf, la mina vagante. Gli chiede dei mesi di ricovero, cos’ha imparato da quel periodo di cura e clausura. La telecamera si sposta sul profilo destro dell’attore, inquadrando così in secondo piano Tom Hanks, sempre composto, uomo d’altra leva. LaBeouf vomita tutto, deciso: “L’empatia nei confronti di mio padre che fino ad allora era il cattivo nella mia vita”. Tom Hanks lascia cadere la mascella, allarga le spalle e lo sguardo. LaBeouf scompagina i grandi.
Novembre 2019. La rubrica Actors on Actors di Variety fa incontrare attori e attrici fra loro, mettendoli in un dialogo a due su cinema e tv.
Shia LaBeouf chiacchiera con Kristen Stewart. Lei ha quel suo solito fare nervoso, scalpita, parla veloce, si porta il pollice al lato destro della bocca, quasi se lo mangia. Lui se ne sta composto, in polo blu e sneakers. La lascia sfogare, le pone domande calme e ben studiate. Le chiede se si prepara molto prima di un set e lei quasi ride, si accartoccia tutta, si disordina i capelli e poi senza guardarlo mai dice che non capisce quei suoi colleghi che arrivano con i copioni pieni d’appunti e riprese in matita, passaggi evidenziati, vite unicamente dedite a quel mestiere. Lui sorride senza aprire la bocca, di sé racconta poco, rivela quello che sente possa accomunarlo alla collega. Elogia il suo lavoro in Seberg, le fa notare il tremore della sua mano in una particolare scena. Torna spesso al fisico, dice che è quello a interessargli, perché il corpo non lo tradisce mai, invece la testa, con tutti i suoi pensieri, sì. Si rivela fragile e scomposto: come la Stewart, attore all’improvviso, senza scuole e grandi maestri ad averli formati. Confida che sui set gira con carta e penna e si segna i nomi di chi incontra, stringe le mani a tutti. Vuole dare l’idea di uno che studia. È spaventato dai colleghi che provengono dalle migliori scuole di recitazione. Si sente giudicato. Si sente un outsider. Vorrebbe che i suoi set fossero come una puntata di Nudi e Crudi, come una gita in campeggio, così da essere tutti vulnerabili. Confida che preferisce girare in digitale: “Posso provare e riprovare, e fallire fino a trovare la giusta scarica di adrenalina”.
Poi Stewart gli chiede perché fa l’attore. E lui risponde che non gli piace il gelato. “Non mi piace il gelato, ma se mi viene dato un gelato sul set, amo il gelato. È questo che succede: questo lavoro mi fa amare le cose”.
Agosto 2007, Vanity Fair USA. In copertina Shia LaBeouf vestito da astronauta, sotto la tuta uno smoking. The New Kid, scrivono. E prevedono: il nuovo Tom Hanks. Passano appena quarantotto ore dalla chiusura del set di Disturbia, dove LaBeouf è un adolescente agli arresti domiciliari che si mette a spiare i vicini e pensa che tra questi si nasconda un serial killer, e l’avvio delle riprese del monumentale blockbuster Transformers. Racconta LaBeouf che in quel primo giorno di riprese Michael Bay gli ha liberato contro un cane, uno strano incrocio tra pitbull, amstaff e dobermann, sicuro che fosse addestrato e sarebbe poi andato a mordere il braccio protetto di un addestratore. Il mastino, invece, insegue LaBeouf per tutto il set, e gli operatori si mettono a lanciargli sedie contro per fermarlo. Nel momento in cui cerca di scappare dal morso sicuro di un cane, LaBeouf ha già ricevuto un Emmy per il suo ruolo nella fortunata serie Disney Even Stevens, ha recitato a fianco di Jon Voight in Holes, insieme a Keanu Reeves in Constantine e Robert Downey Jr. in Guida per riconoscere i tuoi santi. Ha festeggiato il ventunesimo compleanno sul set dell’ultimo Indiana Jones. Quando gli chiedono se non è troppo stressante tutto quello che sta affrontando, risponde: “Questo è quel che volevo”.
Shia Labeouf nasce l’undici giugno millenovecentottantasei sotto un sole in gemelli e una luna in leone, la stessa di Clint Eastwood. Per l’oroscopo cinese è l’anno della tigre di fuoco: i nati sotto questo cielo potrebbero rivelarsi coraggiosi e imprevedibili, irrequieti, lunatici. Governati dal cuore, sfidano continuamente i propri limiti e sono soggetti a forti attacchi d’ansia. Lavoratori indisciplinati, disprezzano ogni convenzione. Predisposti al successo: devono però imparare a dosare la giusta quantità di energia nel lavoro, specie se creativo. Tra di loro grandi generali, gangster leggendari, registi e attori. Nascono in quell’anno, oltre LaBeouf: Lady Gaga, Robert Pattinson, Lana Del Rey e Lindsay Lohan.
A scegliere quel suo nome dolce e scivoloso è il nonno. In ebraico Shia significa regalo di Dio, ma l’attore ci ha scherzato più volte su dicendo che mal tradotto per intero dal francese potrebbe voler dire “ringrazia il Signore per questo pezzo di carne”.
La madre è ebrea, ex ballerina, allieva a New York di Martha Graham, poi disegnatrice di gioielli, poi venditrice ambulante. Morirà nell’agosto 2022 per un arresto cardiaco.
Il padre, Jeff, cattolico, è un ex-veterano del Vietnam datosi alla clownerie professionale. Motociclista, poeta, pittore. Tossico e spacciatore.
LaBeouf riceve sia il battesimo che il Bar Mitzvah, continua a festeggiare sia il Natale che l’Hanukkah. Sostiene di aver incontrato Dio diverse volte, sempre sul set: prima con Brad Pitt durante le riprese di Fury, poi con Zachary Gottsagen, attore affetto dalla sindrome di Down che ha conosciuto sul set di Peanut Butter Falcon e che il giorno dopo l’arresto a Savannah si avvicina a Labeouf arrabbiato perché ha rovinato tutto, lui che tutto già ce l’ha. Lo guarda e gli chiede se crede in Dio. LaBeouf dice di no, ma crede di averlo sentito, di averlo visto nello sguardo di Zach. Concluse le riprese decide di andare in riabilitazione, esperienza su cui tornerà rivelando ancora una volta un corso sommerso, libero e vivace, nascosto in un corpo saldo che si fa elastico e uno sguardo imperturbabile che muta in fulmine. Lo sguardo solido e agitato dello stesso bambino che è stato e che a dieci anni, andato a vivere con la madre a Echo Park, dopo il divorzio dei genitori, rubava Tamagotchi e Nintendo di giorno, e batteva i club di quartiere con strepitosi numeri di stand-up la notte. Racconta di battute sporchissime (“La bocca di un cinquantenne sporcaccione attaccata al corpo di un bambino di dieci anni”) e di quella famiglia a pezzi: “Erano hippy, persone strane che comunque mi amavano e che ho amato”.
Poi Malibù. A un picnic per il quattro luglio incontra Shawn Toovey, attore bambino nella serie Dr. Quinn, Medicine Woman. LaBeouf nota che Shawn ha i capi più belli e l’attrezzatura da surf migliore. Gli chiede: “Che lavoro fai?” (non dei genitori, d’eredità o fortuna ma: “Che lavoro fai?”) e quello gli risponde che recita e che così può andare a scuola solo tre ore al giorno.
Shia Labeouf sogna di diventare attore perché odia la scuola e vuole un paio di Fila nuove.
Scrive Joyce Carol Oates in Blonde, biografia falsata di Marylin Monroe: “L’attore nato affiora nella prima infanzia, perché è nella prima infanzia che cominciamo a percepire il mondo come Mistero. Ogni forma di recitazione affonda le proprie radici nell’improvvisazione di fronte al Mistero”.
Shia LaBeouf diventa attore una sera per caso e per fortuna: trovato il numero di un agente sulle Pagine Gialle, si decide a chiamarlo. Finge di essere a sua volta l’agente cinquantenne di un enfant prodige, un tale Shia Labeouf. Il suo pezzo di maggior successo.
Viene chiamato per delle comparse in ER e X Files e poi da Disney. Sarà lui il fratello minore della disastrosa famiglia protagonista della serie Even Stevens. Shia ha quattordici anni, si trasferisce in un motel vicino al set con il padre Jeff. Davanti a loro abitano un pappone e una prostituta. Ogni giorno arriva sul set a cavallo della moto del padre, stringendosi stretto a lui.
Del ruolo che l’ha portato alla fama, anni dopo dirà: “È stata la cosa migliore che mi sia mai accaduta. Ha salvato la mia vita, la mia famiglia”.
J.D. Caruso, che l’ha voluto in Disturbia, dice: “È un’anima antica nel corpo di un diciannovenne. Mi ha convinto alla prima scena, per quel suo sguardo. Ho pensato: piacerà a tutti, ai ragazzi perché è cool è pericoloso, e alle ragazze perché è intelligente e spiritoso e più lo guardo più diventa carino”.
Per Chris Jenkins, che l’ha scelto come doppiatore per il film d’animazione Surf’s Up (sempre nel fortunato anno 2007): “È maturo, ha la capacità unica di calarsi dentro ogni ruolo, guarda l’organicità della storia ed è attento a ogni personaggio, a tutte le dinamiche che vengono a crearsi sul set”.
Conosce Michael Bay a diciassette anni. Al provino per Transformers il regista gli fa recitare un monologo nevrotico, e glielo fa ripetere prima correndo e poi facendo piegamenti. Gli chiede un suo vecchio numero di stand-up e, usciti dagli studios, parlano della famiglia pazza e disperatissima di Shia.
A produrre il blockbuster il re di Hollywood, Steven Spielberg, colpito da quel ragazzaccio scalmanato e geniale. Pronto a fargli sbarcare il lunario. Lo vuole nei sequel di Transformers e nel suo nuovo Indiana Jones. Gli controfirma una lettera di raccomandazione per Yale. Shia vorrebbe tornare a studiare, manda persino un’applicazione alla Cal Arts, si affida a tutor privati. Poi parla con John Turturro, e questo gli dice: “Don’t force the pause”, arriverà la noia, finirà il lavoro, allora avrà il tempo di studiare. Che sia Turturro o il desiderio di avere tutto, Shia continua, e viene diretto da Oliver Stone nella ripresa di Wall Street. Al suo fianco: Michael Douglas.
Prenditi la luna, Shia. In abito da sera e tuta da astronauta. Il nuovo Tom Hanks.
Poi la caduta.
“Lo incontri [Steven Spielberg] e capisci che non è l’uomo con cui hai sempre sognato di lavorare. Che ora è in un momento diverso della sua carriera, non è più un regista, ma un’azienda. Tutto è pianificato in modo meticoloso. In trentasette secondi devi dare una battuta. E fai la stessa cosa per cinque anni, fino a pensare di non sapere più che stai facendo”.
La critica si divide davanti alle sue ultime performance, in molti lo stroncano e LaBeouf comincia a bere. Dice di non sentirsi artisticamente soddisfatto. Continua a bere. Viene arrestato. Poi è coinvolto in una rissa, e in un’altra ancora. Rifiuta i ruoli che gli vengono offerti in 127 ore, The Social Network e The Bourne Legacy. Vuole interpretare personaggi sinceri, giovani uomini in crisi come lui, e come prima di lui hanno fatto i suoi antesignani: Gary Oldman, Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix.
2012. Appare nudo nel videoclip di Fjögur Píanó del gruppo post-rock islandese Sigur Rós. Sul set di Lawless beve moonshine a litri, incide un messaggio sulla porta della stanza della collega Mia Wasikowska e fa a botte con Tom Hardy. Dirige il suo primo cortometraggio, Howard Cantour.com, e viene accusato di plagio in quanto la sceneggiatura si rifarebbe per intero al Justin M. Damiano (2007) di Daniel Clowes. LaBeouf si scusa pubblicamente su Twitter con messaggi a loro volta copiati e incollati da una pagina di Yahoo Answer. Farà poi volare una scritta sopra i cieli di Los Angeles: “I am sorry Daniel Cloews”; gesto nobile, ma l’autore non abita in città. LaBeuf realizzerà anche due graphic novel, a loro volta sotto processo per la similarità con opere di Duteurtre e Bukowski.
2013. Abbandona il suo primo progetto a Broadway, Orphans, che l’avrebbe visto in scena con Alec Baldwin, accusando il collega di poca serietà sul palco. Il New York Times e lo stesso Baldwin diranno che in realtà LaBeouf è stato licenziato. Arriveranno le scuse dell’interessato, plagio del testo What is a man? di Tom Chiarella.
Partecipa poi alle riprese del film erotico Nymphomaniac, diretto da Las Von Trier. Per accaparrarsi il ruolo, leggenda vuole che LaBeouf abbia inviato al regista una foto dei propri genitali e un sextape. Sul set conosce Mia Goth, attrice britannica, negli ultimi anni volto delle più interessanti pellicole horror. Si sposeranno nel 2016 a Las Vegas in una cerimonia officiata da un sosia di Elvis; due anni più tardi divorzieranno, quattro anni dopo ancora la Goth resterà incinta della loro prima bambina.
2014. Al Festival di Berlino, per la première di Nymphomaniac, si presenta in smoking con la faccia nascosta dentro una busta in cartone con scritto sopra: “I am not famous anymore”. È la prima di molte performance artistiche che l’attore realizzerà con il duo Luke Turner-Nastja Sâde Rönkkö. Una riflessione sul senso di fama e vulnerabilità. Racconta LaBeouf: “Non mi piace apparire in pubblico, ogni volta devo venire faccia a faccia con i miei fallimenti”. Negli anni a venire reciterà discorsi motivazionali su green screen, diventando un meme più che virale; si chiuderà per tre giorni all’Angelica Film Center per riguardare interamente la sua filmografia e piangere e urlare e ridere e dimenticare; resterà per ventiquattr’ore all’interno di un ascensore, a Oxford, incontrando sconosciuti.
Nel frattempo, la critica lo riscopre nel ruolo di un artigliere in un gruppo di soldati in Fury, ambientato negli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale. Per prepararsi al ruolo LaBeouf si arruola nella Guardia Nazionale, si fa limare l’incisivo inferiore sotto il bordo gengivale da un dentista della Valley per simulare al meglio la botta da rinculo di cannone e si provoca due tagli paralleli sul volto che riaprirà di giorno in giorno sul set lasciandoli sanguinare durante le riprese.
2015. “Voglio diventare grande. Se finisco a interpretare sempre il solito tipo di personaggio la mia carriera è finita. Voglio intimidire. Voglio essere un… killer”.
Dicono che il clown migliore sia quello capace di strapparti, tra le risa, una lacrima di commozione. Ecco allora il pagliaccio farsi prima lupo vessato, ingabbiato, nel video Elastic Heart di Sia, e poi rivenditore ambulante in American Honey di Andrea Arnold. Arnold lo incontra il giorno dopo un arresto, lei è abituata a lavorare con soli esordienti ma davanti al viso spaccato di LaBeouf capisce che non può dare il ruolo a nessun altro al mondo. Non consegnerà nessun copione all’attore ma soltanto una foto in bianco e nero di una foresta. Shia racconta che per entrare al meglio nel personaggio ha trascorso due settimane con un vero venditore di riviste porta a porta. Le riprese si svolgono per sette settimane in un road trip tutto americano, a partire dall’Oklahoma: in ogni paese toccato LaBeouf si fa fare un tatuaggio.
Vestirà poi i panni di John McEnroe nel biopic Borg vs McEnroe. Dice che odia il tennis ma che McEnroe era come Mozart. Per prepararsi interroga tutti gli ex allenatori del campione.
Riprenditi tutto, Shia. Ma tutto non è abbastanza.
LaBeouf continua a fare a botte con la fortuna: per ogni ruolo guadagnato, un’accusa, un arresto, un bicchiere in più, fino alla riabilitazione.
Allora quella scena, sul finale di Honey Boy, in cui James Loft (aka Jeff LaBeouf, interpretato dallo stesso Shia LaBeouf in un triplo salto carpiato freudiano) porta il figlio Otis (aka il più piccolo Shia LaBeouf al tempo del successo di Even Stevens) in uno spiazzo vicino a un’autostrada dove coltiva della marijuana. Si mettono a fumare cannabis assieme. Stacco. Otis ritorna nella camera di motel dove stava col padre al tempo delle riprese della serie tv, immagina di ritrovarselo davanti, nel suo costume da clown di rodeo. Gli dice che vuol fare un film su di lui, l’altro gli dice di farlo bello.
Il clown si fa Pierrot, il mimo malinconico innamorato della luna. Si macchia una guancia con una lacrima, il pubblico pagante lo guarda e piange per lui, con lui. LaBeouf richiama tutto a sé: famiglia, successi, inciampi, paure, santi e pagliacci. Dà fuoco alla miccia. Divampa l’incendio.
Negli anni successivi prende parte a Pieces of a Woman, dove interpreta un padre sofferto e scacciato, e viene diretto da Abel Ferrara in Padre Pio, nel quale veste i panni del santo. Un film che l’ha portato alla conversione definitiva al solo cattolicesimo, la religione paterna.
Il padre ancora, il padre sempre.
Quel Jeff LaBeouf che veste total denim, ha lunghi capelli bianchi, un barbone da hipster, e sta ancora in sella alla sua due ruote. Padre che coltivava davvero marijuana nei pressi di un’autostrada, tra la 405 e la 10, prima di Cloverfield.
Padre scovato e interrogato.
“Siete venuti da me per mio figlio” dice, “e le sue storie disperate. Ma questa è una storia di riparazione. Quella della fenice che rinasce dalle ceneri. Ogni religione ne ha una sua versione. Tutti amano questa storia. E, fortunatamente, anche Shia la ama. Per questo continua ad andare avanti”.
TR-72
06.12.2022
In un outtake di No More Parties in LA Kanye West rappava: “I wish dressed as fresh as Shia LaBeouf”. Il verso va perso, l’ammirazione di Ye nei confronti del gusto nel vestirsi di LaBeouf cresce e culmina con una visita del rapper a casa dell’attore, dove chiede a LaBeouf alcuni suoi vestiti per uno store temporaneo. L’attore aveva da poco portato a un concerto di West la madre, sua grande fan, e il rapper si era rivelato dolcissimo con lei, così gli sembra giusto ricambiare la cortesia. “Vai pure, amico mio. Prendi tutto quello che vuoi”. West gli porta via tutto, cappello di Indiana Jones compreso.
Da GQ a Vogue, gli outfit di LaBeouf sono stati scomposti, criticati, osannati: c’è chi ha dedicato pezzi su pezzi alle sue scelte in fatto di scarpe, chi pensa sia l’attore meglio vestito di Hollywood, chi ci ha aperto profili Instagram e ha investito una fortuna per riuscire ad acquistare i suoi leggins sportivi tinti di rosa shock Valentino.
Per Highsnobiety, noto media brand di moda e lifestyle, è “a normcore fashion god”, uno che pare uscire di casa vestito con le prime cose trovate in armadio, senza scadere mai nel cattivo gusto, e anzi capace di crearsi uno stile elettrico e sciatto: irriproducibile. A un passo dal kitsch, lì per sfiorarlo senza toccarlo mai, grazie a un menefreghismo sfrontato, il viso di chi sfida il mondo con una classe che rimane dono di pochi.
Se è vero che l’uomo è ciò che veste, a Shia LaBeouf piace stare comodo in regole tutte sue. E pare l’ultimo della classe, con quel suo sguardo tutto stropicciato laggiù all’angolo. Il pestato, l’impestato. Ma gli basta uno sguardo lanciato di sguincio, una frase impastata in un tono che si muove da basso, per calamitare il resto a sé. Shia LaBeouf aspira all’incendio.
Gennaio 2020. L’Hollywood Reporter organizza una tavola rotonda tra attori. Accanto a LaBeouf Adam Driver, Robert De Niro, Tom Hanks, Jamie Foxx e Adam Sandler. Conduce Stephen Galloway. LaBeouf porta una polo oversized con taschino sul cuore; ha affrontato, mesi prima, un periodo di riabilitazione dopo un arresto per disturbo della quiete pubblica e stato d’ebrezza a Savannah, Georgia, durante le riprese di Peanut Butter Falcon. Nei mesi di ricovero gli è stato riconosciuto un disturbo da stress post-traumatico e ha iniziato a lavorare al soggetto del suo film autobiografico, Honey Boy.
LaBeouf se ne sta zitto. Ascolta attento i colleghi, interviene solo se sollecitato da Galloway che gli chiede come affronta il suo mestiere d’attore (“Preparandomi, preparandomi come per la boxe. Preparandomi sempre, perché per me è vita o morte, ogni volta può essere l’ultima”) e chi tra gli altri gli ha insegnato di più. LaBeouf guarda dritto a lui, mette a fuoco, spara il colpo: “Bob”. E De Niro sornione, con il ghigno di chi sa d’aver fatto quel che doveva fare, sorride, s’allunga, ringrazia e torna a sé, ma tiene ai margini degli occhi una luce che solo i folli sanno donare a chi li ascolta. Galloway passa la palla agli altri, poi torna a LaBeouf, la mina vagante. Gli chiede dei mesi di ricovero, cos’ha imparato da quel periodo di cura e clausura. La telecamera si sposta sul profilo destro dell’attore, inquadrando così in secondo piano Tom Hanks, sempre composto, uomo d’altra leva. LaBeouf vomita tutto, deciso: “L’empatia nei confronti di mio padre che fino ad allora era il cattivo nella mia vita”. Tom Hanks lascia cadere la mascella, allarga le spalle e lo sguardo. LaBeouf scompagina i grandi.
Novembre 2019. La rubrica Actors on Actors di Variety fa incontrare attori e attrici fra loro, mettendoli in un dialogo a due su cinema e tv.
Shia LaBeouf chiacchiera con Kristen Stewart. Lei ha quel suo solito fare nervoso, scalpita, parla veloce, si porta il pollice al lato destro della bocca, quasi se lo mangia. Lui se ne sta composto, in polo blu e sneakers. La lascia sfogare, le pone domande calme e ben studiate. Le chiede se si prepara molto prima di un set e lei quasi ride, si accartoccia tutta, si disordina i capelli e poi senza guardarlo mai dice che non capisce quei suoi colleghi che arrivano con i copioni pieni d’appunti e riprese in matita, passaggi evidenziati, vite unicamente dedite a quel mestiere. Lui sorride senza aprire la bocca, di sé racconta poco, rivela quello che sente possa accomunarlo alla collega. Elogia il suo lavoro in Seberg, le fa notare il tremore della sua mano in una particolare scena. Torna spesso al fisico, dice che è quello a interessargli, perché il corpo non lo tradisce mai, invece la testa, con tutti i suoi pensieri, sì. Si rivela fragile e scomposto: come la Stewart, attore all’improvviso, senza scuole e grandi maestri ad averli formati. Confida che sui set gira con carta e penna e si segna i nomi di chi incontra, stringe le mani a tutti. Vuole dare l’idea di uno che studia. È spaventato dai colleghi che provengono dalle migliori scuole di recitazione. Si sente giudicato. Si sente un outsider. Vorrebbe che i suoi set fossero come una puntata di Nudi e Crudi, come una gita in campeggio, così da essere tutti vulnerabili. Confida che preferisce girare in digitale: “Posso provare e riprovare, e fallire fino a trovare la giusta scarica di adrenalina”.
Poi Stewart gli chiede perché fa l’attore. E lui risponde che non gli piace il gelato. “Non mi piace il gelato, ma se mi viene dato un gelato sul set, amo il gelato. È questo che succede: questo lavoro mi fa amare le cose”.
Agosto 2007, Vanity Fair USA. In copertina Shia LaBeouf vestito da astronauta, sotto la tuta uno smoking. The New Kid, scrivono. E prevedono: il nuovo Tom Hanks. Passano appena quarantotto ore dalla chiusura del set di Disturbia, dove LaBeouf è un adolescente agli arresti domiciliari che si mette a spiare i vicini e pensa che tra questi si nasconda un serial killer, e l’avvio delle riprese del monumentale blockbuster Transformers. Racconta LaBeouf che in quel primo giorno di riprese Michael Bay gli ha liberato contro un cane, uno strano incrocio tra pitbull, amstaff e dobermann, sicuro che fosse addestrato e sarebbe poi andato a mordere il braccio protetto di un addestratore. Il mastino, invece, insegue LaBeouf per tutto il set, e gli operatori si mettono a lanciargli sedie contro per fermarlo. Nel momento in cui cerca di scappare dal morso sicuro di un cane, LaBeouf ha già ricevuto un Emmy per il suo ruolo nella fortunata serie Disney Even Stevens, ha recitato a fianco di Jon Voight in Holes, insieme a Keanu Reeves in Constantine e Robert Downey Jr. in Guida per riconoscere i tuoi santi. Ha festeggiato il ventunesimo compleanno sul set dell’ultimo Indiana Jones. Quando gli chiedono se non è troppo stressante tutto quello che sta affrontando, risponde: “Questo è quel che volevo”.
Shia Labeouf nasce l’undici giugno millenovecentottantasei sotto un sole in gemelli e una luna in leone, la stessa di Clint Eastwood. Per l’oroscopo cinese è l’anno della tigre di fuoco: i nati sotto questo cielo potrebbero rivelarsi coraggiosi e imprevedibili, irrequieti, lunatici. Governati dal cuore, sfidano continuamente i propri limiti e sono soggetti a forti attacchi d’ansia. Lavoratori indisciplinati, disprezzano ogni convenzione. Predisposti al successo: devono però imparare a dosare la giusta quantità di energia nel lavoro, specie se creativo. Tra di loro grandi generali, gangster leggendari, registi e attori. Nascono in quell’anno, oltre LaBeouf: Lady Gaga, Robert Pattinson, Lana Del Rey e Lindsay Lohan.
A scegliere quel suo nome dolce e scivoloso è il nonno. In ebraico Shia significa regalo di Dio, ma l’attore ci ha scherzato più volte su dicendo che mal tradotto per intero dal francese potrebbe voler dire “ringrazia il Signore per questo pezzo di carne”.
La madre è ebrea, ex ballerina, allieva a New York di Martha Graham, poi disegnatrice di gioielli, poi venditrice ambulante. Morirà nell’agosto 2022 per un arresto cardiaco.
Il padre, Jeff, cattolico, è un ex-veterano del Vietnam datosi alla clownerie professionale. Motociclista, poeta, pittore. Tossico e spacciatore.
LaBeouf riceve sia il battesimo che il Bar Mitzvah, continua a festeggiare sia il Natale che l’Hanukkah. Sostiene di aver incontrato Dio diverse volte, sempre sul set: prima con Brad Pitt durante le riprese di Fury, poi con Zachary Gottsagen, attore affetto dalla sindrome di Down che ha conosciuto sul set di Peanut Butter Falcon e che il giorno dopo l’arresto a Savannah si avvicina a Labeouf arrabbiato perché ha rovinato tutto, lui che tutto già ce l’ha. Lo guarda e gli chiede se crede in Dio. LaBeouf dice di no, ma crede di averlo sentito, di averlo visto nello sguardo di Zach. Concluse le riprese decide di andare in riabilitazione, esperienza su cui tornerà rivelando ancora una volta un corso sommerso, libero e vivace, nascosto in un corpo saldo che si fa elastico e uno sguardo imperturbabile che muta in fulmine. Lo sguardo solido e agitato dello stesso bambino che è stato e che a dieci anni, andato a vivere con la madre a Echo Park, dopo il divorzio dei genitori, rubava Tamagotchi e Nintendo di giorno, e batteva i club di quartiere con strepitosi numeri di stand-up la notte. Racconta di battute sporchissime (“La bocca di un cinquantenne sporcaccione attaccata al corpo di un bambino di dieci anni”) e di quella famiglia a pezzi: “Erano hippy, persone strane che comunque mi amavano e che ho amato”.
Poi Malibù. A un picnic per il quattro luglio incontra Shawn Toovey, attore bambino nella serie Dr. Quinn, Medicine Woman. LaBeouf nota che Shawn ha i capi più belli e l’attrezzatura da surf migliore. Gli chiede: “Che lavoro fai?” (non dei genitori, d’eredità o fortuna ma: “Che lavoro fai?”) e quello gli risponde che recita e che così può andare a scuola solo tre ore al giorno.
Shia Labeouf sogna di diventare attore perché odia la scuola e vuole un paio di Fila nuove.
Scrive Joyce Carol Oates in Blonde, biografia falsata di Marylin Monroe: “L’attore nato affiora nella prima infanzia, perché è nella prima infanzia che cominciamo a percepire il mondo come Mistero. Ogni forma di recitazione affonda le proprie radici nell’improvvisazione di fronte al Mistero”.
Shia LaBeouf diventa attore una sera per caso e per fortuna: trovato il numero di un agente sulle Pagine Gialle, si decide a chiamarlo. Finge di essere a sua volta l’agente cinquantenne di un enfant prodige, un tale Shia Labeouf. Il suo pezzo di maggior successo.
Viene chiamato per delle comparse in ER e X Files e poi da Disney. Sarà lui il fratello minore della disastrosa famiglia protagonista della serie Even Stevens. Shia ha quattordici anni, si trasferisce in un motel vicino al set con il padre Jeff. Davanti a loro abitano un pappone e una prostituta. Ogni giorno arriva sul set a cavallo della moto del padre, stringendosi stretto a lui.
Del ruolo che l’ha portato alla fama, anni dopo dirà: “È stata la cosa migliore che mi sia mai accaduta. Ha salvato la mia vita, la mia famiglia”.
J.D. Caruso, che l’ha voluto in Disturbia, dice: “È un’anima antica nel corpo di un diciannovenne. Mi ha convinto alla prima scena, per quel suo sguardo. Ho pensato: piacerà a tutti, ai ragazzi perché è cool è pericoloso, e alle ragazze perché è intelligente e spiritoso e più lo guardo più diventa carino”.
Per Chris Jenkins, che l’ha scelto come doppiatore per il film d’animazione Surf’s Up (sempre nel fortunato anno 2007): “È maturo, ha la capacità unica di calarsi dentro ogni ruolo, guarda l’organicità della storia ed è attento a ogni personaggio, a tutte le dinamiche che vengono a crearsi sul set”.
Conosce Michael Bay a diciassette anni. Al provino per Transformers il regista gli fa recitare un monologo nevrotico, e glielo fa ripetere prima correndo e poi facendo piegamenti. Gli chiede un suo vecchio numero di stand-up e, usciti dagli studios, parlano della famiglia pazza e disperatissima di Shia.
A produrre il blockbuster il re di Hollywood, Steven Spielberg, colpito da quel ragazzaccio scalmanato e geniale. Pronto a fargli sbarcare il lunario. Lo vuole nei sequel di Transformers e nel suo nuovo Indiana Jones. Gli controfirma una lettera di raccomandazione per Yale. Shia vorrebbe tornare a studiare, manda persino un’applicazione alla Cal Arts, si affida a tutor privati. Poi parla con John Turturro, e questo gli dice: “Don’t force the pause”, arriverà la noia, finirà il lavoro, allora avrà il tempo di studiare. Che sia Turturro o il desiderio di avere tutto, Shia continua, e viene diretto da Oliver Stone nella ripresa di Wall Street. Al suo fianco: Michael Douglas.
Prenditi la luna, Shia. In abito da sera e tuta da astronauta. Il nuovo Tom Hanks.
Poi la caduta.
“Lo incontri [Steven Spielberg] e capisci che non è l’uomo con cui hai sempre sognato di lavorare. Che ora è in un momento diverso della sua carriera, non è più un regista, ma un’azienda. Tutto è pianificato in modo meticoloso. In trentasette secondi devi dare una battuta. E fai la stessa cosa per cinque anni, fino a pensare di non sapere più che stai facendo”.
La critica si divide davanti alle sue ultime performance, in molti lo stroncano e LaBeouf comincia a bere. Dice di non sentirsi artisticamente soddisfatto. Continua a bere. Viene arrestato. Poi è coinvolto in una rissa, e in un’altra ancora. Rifiuta i ruoli che gli vengono offerti in 127 ore, The Social Network e The Bourne Legacy. Vuole interpretare personaggi sinceri, giovani uomini in crisi come lui, e come prima di lui hanno fatto i suoi antesignani: Gary Oldman, Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix.
2012. Appare nudo nel videoclip di Fjögur Píanó del gruppo post-rock islandese Sigur Rós. Sul set di Lawless beve moonshine a litri, incide un messaggio sulla porta della stanza della collega Mia Wasikowska e fa a botte con Tom Hardy. Dirige il suo primo cortometraggio, Howard Cantour.com, e viene accusato di plagio in quanto la sceneggiatura si rifarebbe per intero al Justin M. Damiano (2007) di Daniel Clowes. LaBeouf si scusa pubblicamente su Twitter con messaggi a loro volta copiati e incollati da una pagina di Yahoo Answer. Farà poi volare una scritta sopra i cieli di Los Angeles: “I am sorry Daniel Cloews”; gesto nobile, ma l’autore non abita in città. LaBeuf realizzerà anche due graphic novel, a loro volta sotto processo per la similarità con opere di Duteurtre e Bukowski.
2013. Abbandona il suo primo progetto a Broadway, Orphans, che l’avrebbe visto in scena con Alec Baldwin, accusando il collega di poca serietà sul palco. Il New York Times e lo stesso Baldwin diranno che in realtà LaBeouf è stato licenziato. Arriveranno le scuse dell’interessato, plagio del testo What is a man? di Tom Chiarella.
Partecipa poi alle riprese del film erotico Nymphomaniac, diretto da Las Von Trier. Per accaparrarsi il ruolo, leggenda vuole che LaBeouf abbia inviato al regista una foto dei propri genitali e un sextape. Sul set conosce Mia Goth, attrice britannica, negli ultimi anni volto delle più interessanti pellicole horror. Si sposeranno nel 2016 a Las Vegas in una cerimonia officiata da un sosia di Elvis; due anni più tardi divorzieranno, quattro anni dopo ancora la Goth resterà incinta della loro prima bambina.
2014. Al Festival di Berlino, per la première di Nymphomaniac, si presenta in smoking con la faccia nascosta dentro una busta in cartone con scritto sopra: “I am not famous anymore”. È la prima di molte performance artistiche che l’attore realizzerà con il duo Luke Turner-Nastja Sâde Rönkkö. Una riflessione sul senso di fama e vulnerabilità. Racconta LaBeouf: “Non mi piace apparire in pubblico, ogni volta devo venire faccia a faccia con i miei fallimenti”. Negli anni a venire reciterà discorsi motivazionali su green screen, diventando un meme più che virale; si chiuderà per tre giorni all’Angelica Film Center per riguardare interamente la sua filmografia e piangere e urlare e ridere e dimenticare; resterà per ventiquattr’ore all’interno di un ascensore, a Oxford, incontrando sconosciuti.
Nel frattempo, la critica lo riscopre nel ruolo di un artigliere in un gruppo di soldati in Fury, ambientato negli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale. Per prepararsi al ruolo LaBeouf si arruola nella Guardia Nazionale, si fa limare l’incisivo inferiore sotto il bordo gengivale da un dentista della Valley per simulare al meglio la botta da rinculo di cannone e si provoca due tagli paralleli sul volto che riaprirà di giorno in giorno sul set lasciandoli sanguinare durante le riprese.
2015. “Voglio diventare grande. Se finisco a interpretare sempre il solito tipo di personaggio la mia carriera è finita. Voglio intimidire. Voglio essere un… killer”.
Dicono che il clown migliore sia quello capace di strapparti, tra le risa, una lacrima di commozione. Ecco allora il pagliaccio farsi prima lupo vessato, ingabbiato, nel video Elastic Heart di Sia, e poi rivenditore ambulante in American Honey di Andrea Arnold. Arnold lo incontra il giorno dopo un arresto, lei è abituata a lavorare con soli esordienti ma davanti al viso spaccato di LaBeouf capisce che non può dare il ruolo a nessun altro al mondo. Non consegnerà nessun copione all’attore ma soltanto una foto in bianco e nero di una foresta. Shia racconta che per entrare al meglio nel personaggio ha trascorso due settimane con un vero venditore di riviste porta a porta. Le riprese si svolgono per sette settimane in un road trip tutto americano, a partire dall’Oklahoma: in ogni paese toccato LaBeouf si fa fare un tatuaggio.
Vestirà poi i panni di John McEnroe nel biopic Borg vs McEnroe. Dice che odia il tennis ma che McEnroe era come Mozart. Per prepararsi interroga tutti gli ex allenatori del campione.
Riprenditi tutto, Shia. Ma tutto non è abbastanza.
LaBeouf continua a fare a botte con la fortuna: per ogni ruolo guadagnato, un’accusa, un arresto, un bicchiere in più, fino alla riabilitazione.
Allora quella scena, sul finale di Honey Boy, in cui James Loft (aka Jeff LaBeouf, interpretato dallo stesso Shia LaBeouf in un triplo salto carpiato freudiano) porta il figlio Otis (aka il più piccolo Shia LaBeouf al tempo del successo di Even Stevens) in uno spiazzo vicino a un’autostrada dove coltiva della marijuana. Si mettono a fumare cannabis assieme. Stacco. Otis ritorna nella camera di motel dove stava col padre al tempo delle riprese della serie tv, immagina di ritrovarselo davanti, nel suo costume da clown di rodeo. Gli dice che vuol fare un film su di lui, l’altro gli dice di farlo bello.
Il clown si fa Pierrot, il mimo malinconico innamorato della luna. Si macchia una guancia con una lacrima, il pubblico pagante lo guarda e piange per lui, con lui. LaBeouf richiama tutto a sé: famiglia, successi, inciampi, paure, santi e pagliacci. Dà fuoco alla miccia. Divampa l’incendio.
Negli anni successivi prende parte a Pieces of a Woman, dove interpreta un padre sofferto e scacciato, e viene diretto da Abel Ferrara in Padre Pio, nel quale veste i panni del santo. Un film che l’ha portato alla conversione definitiva al solo cattolicesimo, la religione paterna.
Il padre ancora, il padre sempre.
Quel Jeff LaBeouf che veste total denim, ha lunghi capelli bianchi, un barbone da hipster, e sta ancora in sella alla sua due ruote. Padre che coltivava davvero marijuana nei pressi di un’autostrada, tra la 405 e la 10, prima di Cloverfield.
Padre scovato e interrogato.
“Siete venuti da me per mio figlio” dice, “e le sue storie disperate. Ma questa è una storia di riparazione. Quella della fenice che rinasce dalle ceneri. Ogni religione ne ha una sua versione. Tutti amano questa storia. E, fortunatamente, anche Shia la ama. Per questo continua ad andare avanti”.