NC-126
14.09.2022
Nulla è per sempre e, come tutte le cose belle, anche la Mostra del Cinema di Venezia numero 79 ormai è solo un ricordo. I film - scomposti, chiacchierati, analizzati per dieci lunghi giorni - lasciano spazio ai bilanci generali, le somme espressive del festival nel suo insieme. La giuria presieduta da Julianne Moore ha conferito il Leone D’Oro ad All The Beauty and The Bloodshed, documentario di Laura Poitras sulla vita, l’arte e l’attivismo della fotografa contemporanea Nan Goldin. Leoni d’argento a Luca Guadagnino, al suo primo grande premio, per la miglior Regia per Bones and All e alla rivelazione Alice Diop, Gran Premio della Giuria per il suo Saint Omer. A Jafar Panahi e Martin McDonagh il Premio Speciale della Giuria e il Premio Osella per la miglior sceneggiatura, mentre le Coppe Volpi per le migliori interpretazioni sono andate a Cate Blanchett e Colin Farrell. Diana Incorvaia e Matteo Bonfiglioli, nostri collaboratori presenti al Lido, commentano i premi e conversano sull’edizione appena conclusa.
MB: Allora, cosa pensi di questo palmarès?
DI: Credo sia ormai evidente quanto il Festival del Cinema di Venezia stia continuando a seguire un percorso di apertura sempre maggiore verso un cinema più popolare, mainstream ma non per questo di qualità inferiore o meno godibile. Il coming of age sanguinolento di Guadagnino, Bones and All, che viene premiato con il Leone D’Argento per la migliore regia, ne è forse la testimonianza più concreta. Vero è che si potrebbe considerare questo premio alla stregua di un riconoscimento dovuto, vista la scarsa considerazione del regista italiano durante la sua carriera. La cosa certa è che Luca Guadagnino si dimostra sempre più in grado di entrare in contatto con l’immaginario americano.
MB: Verissimo. In generale poi, questo è stato un concorso di prevalenza anglofona. Due dei cinque italiani in concorso “parlano” inglese, ad esempio.
DI: Sarebbe stata una scelta più coraggiosa quella di premiare con il Leone D’Argento alla miglior regia un film come Monica. Ho trovato Bones and All più convenzionale. La regia di Andrea Pallaoro è frutto di scelte precise, non mostra mai dei totali, si rincorrono con insistenza una serie di campi stretti che vanno a sottolineare la condizione di reclusione ed isolamento che la protagonista si trova a vivere.
MB: Ho trovato Monica il più convincente dei suoi tre ritratti femminili. In ogni caso, due icone come Cate Blanchett e Colin Farrell premiate con le Coppe Volpi, attestano lo sguardo che Venezia continua a mantenere saldo verso Hollywood. In questi premi però c’è tutto lo sguardo biunivoco di questa edizione. Da una parte il pop appunto - che non necessariamente combacia coi titoli statunitensi - dall’altra una ricerca più autoriale, obliqua, militante.
DI: Infatti hanno comunque saputo dare spazio al coraggiosissimo Saint Omer, esordio al lungometraggio di finzione della regista francese di origine senegalese Alice Diop, e Gli orsi non esistono, ultimo dolorosissimo film del regista iraniano Jafar Panahi. Scelte forse non troppo variegate, ma di tutto rispetto. Tu sei d’accordo con il Leone d’oro?
MB: Il Leone d’oro a Laura Poitras risponde alla volontà di premiare un tipo di racconto dalla materia palpitante, avvicinante, dialettica con la realtà in cui viene prodotta e fruita. Quel cinema militante di cui parlavo prima. Non a caso, All The Beauty And The Bloodshed parla di un’artista che ha avuto un legame indissolubile tra arte e pensiero civile. Vedendolo ho provato indignazione, commozione e mi sono sentito totalmente immerso nella storia che stavo fruendo. Tutto questo non perché fosse un documentario. Anche titoli come Athena, Tàr, Argentina, 1985 e Saint Omer, forse più virtuosi nel modo di costruire la narrazione e l’immagine, alludono e richiamano a questioni calde o care ai dibattiti attuali. Ma il coinvolgimento che ho provato guardando All The Beauty And The Bloodshed è stato favorito proprio da quell’uso del mezzo trasparente, che ha saputo calibrare materiale d’archivio e ripresa del reale. Un Leone D’Oro non è mai meritocratico. Il merito, quando si parla di film ha una misura emotiva, quindi illogica, non indicizzabile. Al massimo si può discutere di prevedibilità e quello di quest’anno era nell’aria, proprio per come ha saputo emozionare il pubblico che l’ha visto.
DI: Uno dei più grandi dimenticati a mio parere è stato proprio Athena, anche se posso intuire almeno una delle motivazioni che l’hanno portato all’esclusione. In fondo, è un action-movie abbastanza dritto e inquadrato, aspetto per alcuni preponderante, che non riesce a traghettare lo spettatore tanto più in là della sfera dell’intrattenimento fine a sé stesso - ammesso che poi ci sia qualcosa di negativo in questo -.
MB: Infatti l’ho trovato un punto a suo favore. Attingere a scenari tragicamente attuali, iperbolizzarli, renderli sontuosi a livello visivo e non cercare necessariamente una morale.
DI: Athena sfrutta l’idea di una battaglia all’ultimo sangue tra forze di polizia e una comunità di residenti islamici, per raccontare una storia estrema di amore, rabbia e desiderio di vendetta come unica risorsa per rimanere vivi. È un film muscolare, adrenalinico, dove desideri e ossessioni sono portati all’estremo. Io l’ho amato. Un’altro colpo di fulmine, meritatamente premiato, è stato The Banshees of Inisherin di Martin Mcdonagh, che riesce ad alternare il registro più comico ed ironico a quello più tragico e assolutamente drammatico. È un viaggio intenso che scava in profondità nelle dinamiche su cui si fondano i rapporti interpersonali tra gli esseri umani.
MB: Va specificato che il livello di originalità espressiva di quest’anno, nonostante la poca diversificazione tematica e di genere, era tendenzialmente alto. The Benshees of Inisherin è un’opera grottescamente attuale, bambinesca e violenta, impalpabilmente teatrale e classica, e sa commuovere. Poi c’è Saint Omer che rapisce e soggioga chi guarda perché è giusto sia così. Instaura una riflessione sulla visione del dolore oltre che sulla maternità. Per me è stata una vera folgorazione.
DI: Anche per me. È un’opera la cui potenza risiede nella parola, negli sguardi, nei gesti ridotti al minimo delle attrici. È il mio terzo innamoramento cinematografico di quest’anno insieme a The Benshees of Inisherin e Athena.
MB: Direi che siamo d’accordo, ma sostituisco Athena, che ho comunque gradito, con Gli Orsi Non Esistono di Jafar Panahi. È un’opera che merita un plauso al di là dell’urgente pregnanza politica che significa la sua visione in sala oggi. È poetico ed essenziale e soprattutto riflette con lucidità sul mezzo cinematografico come fisiologica ossessione di un autore.
DI: Oltre ad Athena e Monica, l’esclusione più dolorosa di quest’anno penso sia quella The Whale, ultimo film di Darren Aronofsky, questa volta targato A24. Film divisivo che vede Brandon Fraser nei panni del protagonista obeso. Diversità, solitudine e rimpianto sono i nuclei tematici attorno a cui Aronofsky costruisce una storia di decomposizione emotiva di un’anima intrappolata in un corpo-prigione.
MB: Il mio premio mancato di quest’anno è la Coppa Volpi a Ricardo Darin per Argentina,1985. Nonostante abbia saputo estorcermi delle lacrime, The Whale è stata una delle mie delusioni di quest’anno. Non ho amato la gestione dello spazio di Aronofsky, che poteva giocare con una resa espressiva più anarchica e alienante. È un film che si delega totalmente alla grande prova di Fraser.
DI: Io ho amato lo slancio speranzoso che Aronofsky ha dato a questa storia così tragica.
MB: Su questo sono d’accordo, è forse l’Aronofsky più speranzoso di sempre. E ha comunque il merito di attuare una nuova indagine sul dolore, una scomposizione del rapporto corpo-individuo come erano Requiem For a Dream, The Wrestler e il Cigno Nero. In generale, penso che quest’anno, ci siano stati alcuni passi falsi, prove timide che però appaiono più come fasi transizionali di carriere prolifiche e creativamente brillanti. Vedi Wiseman con Un Couple o Zeller con The Son.
DI: Ho letto commenti tiepidi di White Noise di Noah Baumbach
MB: Penso si sia stati troppo severi con questo titolo. White Noise è stato dimenticato da tutti, come spesso accade per le aperture, ma credo, nonostante possa risultare cervellotico per eccesso di devozione al testo di Don DeLillo, restituisca comunque il talento di Baumbach e del cast. Tu hai avuto altre delusioni?
DI: Più che di una delusione rispetto ad un film, non condivido troppo la scelta di presentare Pearl di Ti West come un Fuori Concorso. Prequel di X, Pearl è un horror dall’impianto abbastanza tradizionale ma forte di una visionarietà fuori dall’ordinario (insieme alla straordinaria performance di Mia Goth), avrebbe portato al concorso quella quota di film di “genere” che Bones and All da solo, proprio non è riuscito a garantire.
MB: Mi sembra che quest’anno si sia scelto di relegare i generi fuori concorso. L’adorabile Pearl, vero horror citazionista, ma anche Dead For A Dollar, western di Walter Hill. Ho perso Vera di Tizza Covi e Rainer Frimmel, che ha vinto Miglior Regia e il Premio Orizzonti per la miglior attrice. Come è stato?
DI: È un’operazione interessante. Non c’è una linea netta a dividere finzione e documentario. Vera è una donna dalla fisicità prorompente, indossa spesso un cappello da cowboy e vaga senza meta nell’alta società romana. È un ritratto intimo di una donna per anni schiava di un ideale irraggiungibile di bellezza che vive nell’ombra del ricordo del padre.
MB: La descrizione che ne hai fatto me lo fa associare a uno dei titoli più divisivi di questa edizione: una donna schiava della sua immagine, che idealizza il padre. Vera è il Blonde della sezione orizzonti?
DI: Blonde è un film forse eccessivo, strabordante, ma è tutto funzionale ad una riflessione sul mezzo. È un viaggio angosciante e claustrofobico verso la disgregazione di Norma Jean. L’omonimo libro di Joyce Carol Oates pubblicato nel 2000 non è affatto una biografia, ma un dialogo aperto tra la scrittrice e le notizie di cronaca reale riguardanti la triste vita della star e icona Marylin Monroe. Tra cinema arthouse e le ampie narrazioni che caratterizzano i biopic più convenzionali, il film di Andrew Dominik apre una voragine negli abissi di abusi e sofferenza vissuti Da norma Jeane, divisa tra persona e personaggio, vita reale e cinema.
MB: In ogni caso, è stato uno degli eventi più attesi di questa edizione, scomparso da Vivaticket nel giro di dieci minuti.
DI: Credo che a rimanere più impressi nella memoria di ogni categoria di accreditato, siano i giorni immediatamente a ridosso dell’inizio della mostra. Non per la fibrillazione dell’inizio di uno dei periodi più belli dell’anno, ma per l’ansia delle prenotazioni da parte dei sistemi di biglietteria della Mostra. Va detto però che i sistemi sono stati prontamente ripristinati permettendo la massima facilità di prenotazione e di conseguenza di godibilità del festival.
MB: Sì, alla fine tutto liscio. Devo dire che questa è stata la più affollata che abbia fatto fino ad ora, complice anche il decadimento delle norme covid. Si poteva percepire l’accalcarsi di pubblico, giornalisti, artisti e maestranze per le poche strade in cui si svolge la mostra. I fan sono tornati ad affacciarsi sul red carpet, attendere per ore e ore i propri idoli, in balia di qualsivoglia situazione metereologica. Nonostante un Festival si decida sempre e solo in sala, nella relazione tra un prodotto culturale e lo spettatore, è bello sentire il rumore elettrizzante di centinaia di persone con la tua stessa passione. Tutto in un Festival come Venezia contribuisce alla magia della settima arte, persino la mondanità.
DI: Anche attendere una star al Lido rimane un’occasione di condivisione. Prima del covid e delle prenotazioni online c’erano le file. Capitava non di rado di fare nuove amicizie e soprattutto di scambiarsi pareri e confronti su film appena visti o da vedere. L’aria di questa 79esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, è stata quanto di più vicino alla normalità si possa ricordare. Tappeto rosso a vista e orde di avventori pronti ad accamparsi e a trascorrere le notti che precedono l’avvento delle loro star del cuore, hanno contribuito a restituire quella sana spensieratezza mista a frizzante adrenalina da festival che tanto ci era mancata nelle due scorse edizioni.
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14.09.2022
Nulla è per sempre e, come tutte le cose belle, anche la Mostra del Cinema di Venezia numero 79 ormai è solo un ricordo. I film - scomposti, chiacchierati, analizzati per dieci lunghi giorni - lasciano spazio ai bilanci generali, le somme espressive del festival nel suo insieme. La giuria presieduta da Julianne Moore ha conferito il Leone D’Oro ad All The Beauty and The Bloodshed, documentario di Laura Poitras sulla vita, l’arte e l’attivismo della fotografa contemporanea Nan Goldin. Leoni d’argento a Luca Guadagnino, al suo primo grande premio, per la miglior Regia per Bones and All e alla rivelazione Alice Diop, Gran Premio della Giuria per il suo Saint Omer. A Jafar Panahi e Martin McDonagh il Premio Speciale della Giuria e il Premio Osella per la miglior sceneggiatura, mentre le Coppe Volpi per le migliori interpretazioni sono andate a Cate Blanchett e Colin Farrell. Diana Incorvaia e Matteo Bonfiglioli, nostri collaboratori presenti al Lido, commentano i premi e conversano sull’edizione appena conclusa.
MB: Allora, cosa pensi di questo palmarès?
DI: Credo sia ormai evidente quanto il Festival del Cinema di Venezia stia continuando a seguire un percorso di apertura sempre maggiore verso un cinema più popolare, mainstream ma non per questo di qualità inferiore o meno godibile. Il coming of age sanguinolento di Guadagnino, Bones and All, che viene premiato con il Leone D’Argento per la migliore regia, ne è forse la testimonianza più concreta. Vero è che si potrebbe considerare questo premio alla stregua di un riconoscimento dovuto, vista la scarsa considerazione del regista italiano durante la sua carriera. La cosa certa è che Luca Guadagnino si dimostra sempre più in grado di entrare in contatto con l’immaginario americano.
MB: Verissimo. In generale poi, questo è stato un concorso di prevalenza anglofona. Due dei cinque italiani in concorso “parlano” inglese, ad esempio.
DI: Sarebbe stata una scelta più coraggiosa quella di premiare con il Leone D’Argento alla miglior regia un film come Monica. Ho trovato Bones and All più convenzionale. La regia di Andrea Pallaoro è frutto di scelte precise, non mostra mai dei totali, si rincorrono con insistenza una serie di campi stretti che vanno a sottolineare la condizione di reclusione ed isolamento che la protagonista si trova a vivere.
MB: Ho trovato Monica il più convincente dei suoi tre ritratti femminili. In ogni caso, due icone come Cate Blanchett e Colin Farrell premiate con le Coppe Volpi, attestano lo sguardo che Venezia continua a mantenere saldo verso Hollywood. In questi premi però c’è tutto lo sguardo biunivoco di questa edizione. Da una parte il pop appunto - che non necessariamente combacia coi titoli statunitensi - dall’altra una ricerca più autoriale, obliqua, militante.
DI: Infatti hanno comunque saputo dare spazio al coraggiosissimo Saint Omer, esordio al lungometraggio di finzione della regista francese di origine senegalese Alice Diop, e Gli orsi non esistono, ultimo dolorosissimo film del regista iraniano Jafar Panahi. Scelte forse non troppo variegate, ma di tutto rispetto. Tu sei d’accordo con il Leone d’oro?
MB: Il Leone d’oro a Laura Poitras risponde alla volontà di premiare un tipo di racconto dalla materia palpitante, avvicinante, dialettica con la realtà in cui viene prodotta e fruita. Quel cinema militante di cui parlavo prima. Non a caso, All The Beauty And The Bloodshed parla di un’artista che ha avuto un legame indissolubile tra arte e pensiero civile. Vedendolo ho provato indignazione, commozione e mi sono sentito totalmente immerso nella storia che stavo fruendo. Tutto questo non perché fosse un documentario. Anche titoli come Athena, Tàr, Argentina, 1985 e Saint Omer, forse più virtuosi nel modo di costruire la narrazione e l’immagine, alludono e richiamano a questioni calde o care ai dibattiti attuali. Ma il coinvolgimento che ho provato guardando All The Beauty And The Bloodshed è stato favorito proprio da quell’uso del mezzo trasparente, che ha saputo calibrare materiale d’archivio e ripresa del reale. Un Leone D’Oro non è mai meritocratico. Il merito, quando si parla di film ha una misura emotiva, quindi illogica, non indicizzabile. Al massimo si può discutere di prevedibilità e quello di quest’anno era nell’aria, proprio per come ha saputo emozionare il pubblico che l’ha visto.
DI: Uno dei più grandi dimenticati a mio parere è stato proprio Athena, anche se posso intuire almeno una delle motivazioni che l’hanno portato all’esclusione. In fondo, è un action-movie abbastanza dritto e inquadrato, aspetto per alcuni preponderante, che non riesce a traghettare lo spettatore tanto più in là della sfera dell’intrattenimento fine a sé stesso - ammesso che poi ci sia qualcosa di negativo in questo -.
MB: Infatti l’ho trovato un punto a suo favore. Attingere a scenari tragicamente attuali, iperbolizzarli, renderli sontuosi a livello visivo e non cercare necessariamente una morale.
DI: Athena sfrutta l’idea di una battaglia all’ultimo sangue tra forze di polizia e una comunità di residenti islamici, per raccontare una storia estrema di amore, rabbia e desiderio di vendetta come unica risorsa per rimanere vivi. È un film muscolare, adrenalinico, dove desideri e ossessioni sono portati all’estremo. Io l’ho amato. Un’altro colpo di fulmine, meritatamente premiato, è stato The Banshees of Inisherin di Martin Mcdonagh, che riesce ad alternare il registro più comico ed ironico a quello più tragico e assolutamente drammatico. È un viaggio intenso che scava in profondità nelle dinamiche su cui si fondano i rapporti interpersonali tra gli esseri umani.
MB: Va specificato che il livello di originalità espressiva di quest’anno, nonostante la poca diversificazione tematica e di genere, era tendenzialmente alto. The Benshees of Inisherin è un’opera grottescamente attuale, bambinesca e violenta, impalpabilmente teatrale e classica, e sa commuovere. Poi c’è Saint Omer che rapisce e soggioga chi guarda perché è giusto sia così. Instaura una riflessione sulla visione del dolore oltre che sulla maternità. Per me è stata una vera folgorazione.
DI: Anche per me. È un’opera la cui potenza risiede nella parola, negli sguardi, nei gesti ridotti al minimo delle attrici. È il mio terzo innamoramento cinematografico di quest’anno insieme a The Benshees of Inisherin e Athena.
MB: Direi che siamo d’accordo, ma sostituisco Athena, che ho comunque gradito, con Gli Orsi Non Esistono di Jafar Panahi. È un’opera che merita un plauso al di là dell’urgente pregnanza politica che significa la sua visione in sala oggi. È poetico ed essenziale e soprattutto riflette con lucidità sul mezzo cinematografico come fisiologica ossessione di un autore.
DI: Oltre ad Athena e Monica, l’esclusione più dolorosa di quest’anno penso sia quella The Whale, ultimo film di Darren Aronofsky, questa volta targato A24. Film divisivo che vede Brandon Fraser nei panni del protagonista obeso. Diversità, solitudine e rimpianto sono i nuclei tematici attorno a cui Aronofsky costruisce una storia di decomposizione emotiva di un’anima intrappolata in un corpo-prigione.
MB: Il mio premio mancato di quest’anno è la Coppa Volpi a Ricardo Darin per Argentina,1985. Nonostante abbia saputo estorcermi delle lacrime, The Whale è stata una delle mie delusioni di quest’anno. Non ho amato la gestione dello spazio di Aronofsky, che poteva giocare con una resa espressiva più anarchica e alienante. È un film che si delega totalmente alla grande prova di Fraser.
DI: Io ho amato lo slancio speranzoso che Aronofsky ha dato a questa storia così tragica.
MB: Su questo sono d’accordo, è forse l’Aronofsky più speranzoso di sempre. E ha comunque il merito di attuare una nuova indagine sul dolore, una scomposizione del rapporto corpo-individuo come erano Requiem For a Dream, The Wrestler e il Cigno Nero. In generale, penso che quest’anno, ci siano stati alcuni passi falsi, prove timide che però appaiono più come fasi transizionali di carriere prolifiche e creativamente brillanti. Vedi Wiseman con Un Couple o Zeller con The Son.
DI: Ho letto commenti tiepidi di White Noise di Noah Baumbach
MB: Penso si sia stati troppo severi con questo titolo. White Noise è stato dimenticato da tutti, come spesso accade per le aperture, ma credo, nonostante possa risultare cervellotico per eccesso di devozione al testo di Don DeLillo, restituisca comunque il talento di Baumbach e del cast. Tu hai avuto altre delusioni?
DI: Più che di una delusione rispetto ad un film, non condivido troppo la scelta di presentare Pearl di Ti West come un Fuori Concorso. Prequel di X, Pearl è un horror dall’impianto abbastanza tradizionale ma forte di una visionarietà fuori dall’ordinario (insieme alla straordinaria performance di Mia Goth), avrebbe portato al concorso quella quota di film di “genere” che Bones and All da solo, proprio non è riuscito a garantire.
MB: Mi sembra che quest’anno si sia scelto di relegare i generi fuori concorso. L’adorabile Pearl, vero horror citazionista, ma anche Dead For A Dollar, western di Walter Hill. Ho perso Vera di Tizza Covi e Rainer Frimmel, che ha vinto Miglior Regia e il Premio Orizzonti per la miglior attrice. Come è stato?
DI: È un’operazione interessante. Non c’è una linea netta a dividere finzione e documentario. Vera è una donna dalla fisicità prorompente, indossa spesso un cappello da cowboy e vaga senza meta nell’alta società romana. È un ritratto intimo di una donna per anni schiava di un ideale irraggiungibile di bellezza che vive nell’ombra del ricordo del padre.
MB: La descrizione che ne hai fatto me lo fa associare a uno dei titoli più divisivi di questa edizione: una donna schiava della sua immagine, che idealizza il padre. Vera è il Blonde della sezione orizzonti?
DI: Blonde è un film forse eccessivo, strabordante, ma è tutto funzionale ad una riflessione sul mezzo. È un viaggio angosciante e claustrofobico verso la disgregazione di Norma Jean. L’omonimo libro di Joyce Carol Oates pubblicato nel 2000 non è affatto una biografia, ma un dialogo aperto tra la scrittrice e le notizie di cronaca reale riguardanti la triste vita della star e icona Marylin Monroe. Tra cinema arthouse e le ampie narrazioni che caratterizzano i biopic più convenzionali, il film di Andrew Dominik apre una voragine negli abissi di abusi e sofferenza vissuti Da norma Jeane, divisa tra persona e personaggio, vita reale e cinema.
MB: In ogni caso, è stato uno degli eventi più attesi di questa edizione, scomparso da Vivaticket nel giro di dieci minuti.
DI: Credo che a rimanere più impressi nella memoria di ogni categoria di accreditato, siano i giorni immediatamente a ridosso dell’inizio della mostra. Non per la fibrillazione dell’inizio di uno dei periodi più belli dell’anno, ma per l’ansia delle prenotazioni da parte dei sistemi di biglietteria della Mostra. Va detto però che i sistemi sono stati prontamente ripristinati permettendo la massima facilità di prenotazione e di conseguenza di godibilità del festival.
MB: Sì, alla fine tutto liscio. Devo dire che questa è stata la più affollata che abbia fatto fino ad ora, complice anche il decadimento delle norme covid. Si poteva percepire l’accalcarsi di pubblico, giornalisti, artisti e maestranze per le poche strade in cui si svolge la mostra. I fan sono tornati ad affacciarsi sul red carpet, attendere per ore e ore i propri idoli, in balia di qualsivoglia situazione metereologica. Nonostante un Festival si decida sempre e solo in sala, nella relazione tra un prodotto culturale e lo spettatore, è bello sentire il rumore elettrizzante di centinaia di persone con la tua stessa passione. Tutto in un Festival come Venezia contribuisce alla magia della settima arte, persino la mondanità.
DI: Anche attendere una star al Lido rimane un’occasione di condivisione. Prima del covid e delle prenotazioni online c’erano le file. Capitava non di rado di fare nuove amicizie e soprattutto di scambiarsi pareri e confronti su film appena visti o da vedere. L’aria di questa 79esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, è stata quanto di più vicino alla normalità si possa ricordare. Tappeto rosso a vista e orde di avventori pronti ad accamparsi e a trascorrere le notti che precedono l’avvento delle loro star del cuore, hanno contribuito a restituire quella sana spensieratezza mista a frizzante adrenalina da festival che tanto ci era mancata nelle due scorse edizioni.