NC-121
22.07.2022
Una donna (Joan Crawford) e un cowboy (Sterling Hayden) si allontanano da un funereo gruppo di rancheri vestiti di nero. Lei ha appena partecipato a uno scontro a fuoco, sferrando un mortale colpo di pistola alla sua acerrima nemica, la perfida Emma Small (Mercedes McCambridge). Lui la cinge, insieme oltrepassano una cascata, si guardano negli occhi, e mentre il celebre ritornello di Peggy Lee – There was never a man like my Johnny, like the one they call Johnny Guitar – pervade lo schermo, si baciano con coreografica intensità. L’anno era il 1954 e il film Johnny Guitar, diretto dal dispotico, egocentrico, megalomane, geniale, Nicholas Ray. Un autore essenziale, che, grazie alla sua stratificata messa in scena, al suo simbolico uso della luce e del colore e al suo particolare sviluppo del personaggio, infranse i canoni della classicità hollywoodiana ascendendo nell’alveo dei padri fondatori del cinema moderno.
Raymond Nicholas Kienzle Jr. nacque il 7 agosto del 1911 a Galesville, un comune del Wisconsin immerso nel verde e popolato per lo più da nativi americani e agricoltori di origine europea. Quarto figlio, dopo tre femmine, di Raymond Nicholas Kienzle Sr., un costruttore edile figlio di immigrati tedeschi, e Lena Toppen, una casalinga dai natali norvegesi. Nicholas mostrò fin da subito una spiccata creatività, espressa attraverso le sue passioni per la pittura, il teatro, l’architettura, il cinema e la radio. Verso la fine del primo conflitto mondiale la famiglia Kienzle si trasferì nella vicina LaCrosse, cittadina natia di un altro grande del cinema, il regista Joseph Losey. Durante le superiori Nick iniziò a collaborare con una radio locale realizzando svariati programmi che gli permisero di vincere un concorso statale. Grazie a questi promettenti risultati, che a suo dire gli aprirono le porte di «qualsiasi università», poté recarsi alla prestigiosa Chicago University. Insoddisfatto però dell’asfissiante ambiente accademico, che ben poco si adattava al suo temperamento irrequieto, interruppe gli studi e si trasferì a New York dove convolò a nozze con Jean Evans, una scrittrice della California. I coniugi Ray – già da questo periodo il futuro regista iniziò ad adottare il nome che lo avrebbe reso celebre – vivevano una vita da bohémien, tanto che poco dopo il matrimonio Nicholas decise di spostarsi in Arizona. Questa volta il giovane era stato invitato da Frank Lloyd Wright, architetto visionario, come partecipante e allievo della Taliesin West, una neonata comunità-studio gestita e fortemente voluta dal celebre progettista. Questa esperienza influenzerà prepotentemente lo stile cinematografico di Ray che ereditò da Wright il senso della composizione e quella sua peculiare predilezione per l’immagine orizzontale, che gli permetterà in seguito di adoperare, in modo completo e magistrale, il formato del CinemaScope. Come osserva lo studioso James Quandt, «il potenziale espressivo delle scenografie fa di Ray, insieme a Sirk, il massimo formalista d’interni degli anni Cinquanta. Come Sirk, Ray sa dare alle tende o alla grata di una finestra uno splendore semiotico».
La permanenza a Taliesin fu improvvisamente interrotta da una lite tra Wright e Ray, il quale abbandonò la comunità e si ricongiunse con la moglie. Fu verso la seconda metà degli anni Trenta che iniziò a dedicarsi al teatro progressista lavorando come attore, co-regista e sviluppatore di testi teatrali, mentre durante la Seconda guerra mondiale tornò alla radio, per cui creò un programma di musica folk e uno di propaganda commissionato dalle agenzie di stato. In questo modo venne a contatto con artisti e intellettuali del tempo, come il drammaturgo Clifford Odets, il giovane regista Elia Kazan, l’attore John Garfield. Proprio grazie a Kazan, di cui Ray fu aiuto regista per A Tree Grows in Brooklyn (Un albero cresce a Brooklyn, 1945), e al produttore John Houseman, fu messo sotto contratto dalla RKO per cui realizzò il suo primo film, They Live by Night (La donna del bandito). Girato nel 1947 ma distribuito solo due anni dopo a causa delle agitazioni tra i quadri dirigenti della major, They Live by Night è stato spesso frainteso ed etichettato come un noir, definizione usata a posteriori dalla critica francese per circoscrivere una tipologia di lungometraggi che offrivano un ritratto oscuro, violento ed ambiguo dell’America del dopoguerra.
La pellicola, come in fondo tutta l’opera di Ray, si astrae in realtà da un vero e proprio genere per trasformarsi nella tragica ballata di due giovani innamorati in fuga. Identificando già nel 1947 le sue caratteristiche dominanti Ray decise di ispirarsi alle atmosfere del cinema noir, distaccandosene però nel messaggio e nei toni narrativi, così da anticipare quella decostruzione del genere che verrà compiuta vent’anni dopo dai registi della New Hollywood. L’autore usava infatti le categorie cinematografiche solo per «offrire una serie di punti di riferimento capaci di mettere il pubblico a proprio agio nelle prime scene» per poi «potersi allontanare da quel mondo familiare verso quelle che erano vere e proprie odissee emotive».
Nel 1948 il magante Howard Hughes passò alla direzione della RKO. Hughes sarà una figura di primaria importanza nella carriera di Ray, che diresse sotto i suoi finanziamenti A Woman’s Secret (Hai sempre mentito, 1949), Born to Be Bad (La seduttrice, 1950), Flying Leathernecks (I diavoli alati, 1951), On Dangerous Ground (Neve rossa, 1951) e The Lusty Men (Il temerario, 1952). The Lusty Men, ambientato nel mondo dei rodei, è il ritratto malinconico di una società costretta ad abbandonare i suoi vecchi valori per adattarsi alla modernità, una messa al bando dei miti americani su cui cineasti come Robert Altman (McCabe & Mrs. Miller, 1971, Nashville, 1975), Peter Bogdanovich (The Last Picture Show, 1971, Paper Moon, 1973), Sam Peckinaph (The Wild Bunch, 1969, Junior Bonner, 1971) baseranno in seguito la loro poetica. Durante gli anni del contratto con la RKO il regista girò anche Knock On Any Door (I bassifondi di Chicago, 1949) e In a Lonely Place (Il diritto di uccidere, 1950), due opere realizzate per la casa di produzione indipendente di Humphrey Bogart, presente in entrambi i film. Nel lungometraggio In a Lonely Place, a detta di molti autoreferenziale, il regista lanciò una stoccata neanche troppo velata al mondo del cinema e, tramite la storia di uno sceneggiatore sociopatico stritolato da un’industria sordida e corrotta, continuò la sua angosciosa indagine sulla drammatica condizione dell’uomo contemporaneo. Nel frattempo, la sua vita privata si complicava sempre più: divorziato dalla moglie Jean e risposatosi nel 1948 con la celebre attrice Gloria Grahame, da cui divorzierà nel 1952, cominciò a essere adocchiato dalla HUAC, il comitato di indagine per attività antiamericane, durante la “caccia ai comunisti” del sentore Joseph McCarthy. Nonostante il suo passato chiaramente di sinistra Ray riuscì a salvarsi dalla famigerata “lista nera” grazie alla protezione del suo benefattore Hughes, uomo dall’enorme potere economico e politico.
Da questo generale clima di terrore trasse l’ispirazione per Johnny Guitar (1954), una delle vette più sublimi della sua filmografia. Film venerato dalla celebre rivista Cahiers du Cinéma, Johnny Guitar è una complessa allegoria del moralismo repressivo di quegli anni, un finto western scevro da ogni retorica di genere, «sognato, spinto ai limiti dell’irreale e del delirio». Con la storia dello scontro fra la padrona di una sala da gioco e la figlia di un proprietario terriero che aizza contro la prima una folla inferocita di puritani, la pellicola sovverte ogni dinamica di genere incoronando due figure femminili come protagoniste assolute della narrazione. Come disse Paola Malanga, «Johnny Guitar è l’America che brucia il proprio mito della frontiera in un autodafé quasi apocalittico, ma è anche, non a caso, un melodramma matriarcale e ipnotico. La Vienna di Joan Crawford e la Emma di Mercedes McCambridge, donne ad altissimo tasso di testosterone, paiono figure della mitologia greca ripescate da Freud nei suoi sogni più riusciti. Ray è un maestro nell’uso psicoanalitico del colore e l’improvvisa e violenta irruzione nel saloon di Emma, furiosa come la quarta Erinni con i suoi scherani al seguito, pare un metaforico stupro collettivo nei confronti di Vienna, che si fa trovare al pianoforte, elegantissima, e assorta nel brano che sta suonando, simile ad una nobildonna di gran classe che dà un concerto privato. Per un attimo il ritorno all’innocenza perduta ha quasi preso il sopravvento ma Ray, di colpo, ci riporta alla realtà allucinata del vecchio West».
Con il successivo Rebel Without a Cause (Gioventù bruciata, 1955), opera ambiziosa, cruda, sofferta, il regista fece epoca. La parabola di una gioventù che affacciandosi alla vita adulta scopre un mondo bieco e ipocrita rispecchia pienamente la descrizione che Ray fa, per tutto il suo percorso autoriale, degli Stati Uniti: un paese dal fragile tessuto sociale dove gli alienanti legami familiari celano, sotto il loro superficiale ottimismo, la depravazione dell’ideologia trionfalistica dei governi di Truman ed Eisenhower. Di fatto la visione del regista fu, in quegli anni, maggiormente colta dalla critica europea, che riconobbe in lui una sorta di profeta della modernità. I tre protagonisti, Jim Stark (James Dean), Judy (Natalie Wood) e John “Plato” Crawford (Sal Mineo), sono degli outsider, dei reietti patologici, incarnazioni perfette degli anti-eroi che popolano il cinema di Ray. La schiettezza con cui l’autore apre Rebel Without a Cause è di una modernità destabilizzante – le sirene della polizia che rimbombano per i vicoli deserti mentre James Dean ubriaco e prono sulla strada si trova nel pieno di una crisi emotiva – collegandosi, in maniera superba, alla brutale sparatoria del finale.
Nel 1956, dopo il musical antropologico Hot Blood (La donna venduta, 1955) e il western psicologico Ron for Cover (All’ombra del patibolo, 1955), il cineasta firmò Bigger Than Life (Dietro lo specchio), definito come «una delle più crudeli immersioni nell’american life degli anni Cinquanta». Ispirato a un reale fatto di cronaca, il lungometraggio ripercorre il calvario di un insegnante di provincia (James Mason) che per accontentare i consumistici bisogni della moglie e del figlioletto arrotonda il suo stipendio lavorando anche come operatore per una centrale di taxi, fino a quando, ammalatosi di una forma d’artrite, si sottopone a delle cure sperimentali a base di cortisone. Per la perfetta suburban family sarà l’inizio di un incubo a occhi aperti poiché l’uomo, perdendo a poco a poco il lume della ragione, si trasformerà in un tossicodipendente tirannico e maniacale. Allucinatoria e a tratti perversa, la pellicola è una discesa negli inferi della megalomania umana in cui, come disse Bernard Eisenschitz, «ogni inquadratura mette in presenza la normalità e lo squilibrio che essa secerne». Iconica è la sequenza in cui il protagonista, in preda al delirio psicotropo, tenta di uccidere il suo stesso figlio come Abramo del vecchio testamento, dichiarando che Dio ebbe torto a fermare la mano del patriarca. D’altronde il personaggio di James Mason è un’altra vittima. David Thomson disse in proposito: «Molti dei personaggi di Ray sono dei poeti sconfitti, colti, sensibili, altruisti che, incapaci di esprimersi e di ottenere il rispetto della società in cui vivono, si dibattono in un vicolo cieco. I suoi film descrivono l’umanesimo romantico che sta impazzendo dentro una gabbia di plastica». Seguirono Bitter Victory (Vittoria amara, 1957), prodotto in Europa dalla Columbia e girato tra i teatri di posa francesi e la Libia, The True Story of Jesse James (La vera storia di Jess il bandito,1957) e Wind Across the Everglades (Il paradiso dei barbari,1958) definito da Gilles Deleuze come un «capolavoro del naturalismo».
Party Girl (Il dominatore di Chicago, 1958) è un film dagli improvvisi scatti di violenza dove ancora una volta il colore è adoperato in funzione espressiva e puramente simbolica. Prodotto dalla MGM, rappresenta l’ultimo lavoro del regista ad Hollywood. Il difficile carattere di Ray unito alla voglia sempre più pressante di libertà creativa, lo portarono a emigrare in Europa in compagnia della sua nuova moglie, la coreografa Betty Utey. Tra Inghilterra e Italia diresse, da una sua sceneggiatura, The Savage Innocents (Ombre bianche, 1960), prima di fare la conoscenza di Samuel Bronston, produttore cinematografico che stava cercando di costruire, utopicamente, una «mecca del cinema» spagnola. Grazie alla collaborazione con Bronston, Philip Yordan – autore della sceneggiatura di Johnny Guitar – e Mikhail Wazsynski – regista con una grande esperienza nelle produzioni euro-americane – diresse in Spagna il kolossal King of Kings (Il re dei re, 1961). Il tono più politico-sociale che religioso e l’approccio più storico che sacrale al soggetto biblico fecero storcere il naso alla MGM, che aveva rilevato l’opera per la distribuzione d’oltreoceano e rimontò in seguito, senza l’approvazione di Ray, l’intera pellicola. Fu con 55 Days in Peking (55 giorni a Pechino, 1963) che la sua carriera ebbe una brusca frenata; sul set nei pressi di Madrid il regista ebbe un infarto che lo costrinse a ritirarsi dalla direzione del film, continuato poi da Guy Green e Andrew Marton. Il resto della sua esperienza europea fu segnato da un vagabondare perpetuo – Roma, Zagabria, Parigi, Monaco di Baviera, l’isola di Sylt – e da una serie di progetti che andarono alla deriva.
Tornò in America solo nel 1969 dove riprese, con l'aiuto economico di un gruppo di filmmaker, una manifestazione contro la guerra da cui deriva il cortometraggio March on Washington, Nov. 15, 1969. All’inizio degli anni Settanta filmò il celebre processo dei Chicago Seven e anche se i piccoli finanziatori del progetto si ritirarono, si impegnò a montare in solitaria, e con ogni mezzo, il materiale a sua disposizione. Il grande stress, dovuto al parziale fallimento dell’impresa, gli procurò una quasi totale cecità all’occhio destro, che coprì con l’iconica benda nera. Nel 1971 fu assunto come insegnante all’Harpur College della State University of New York e le sue lezioni, registrate dall’ultima moglie Susan Schwartz, divennero materiale per un celebre libro sul suo metodo lavorativo. Insieme ai suoi studenti di corso girò We Can’t Go Home Again, un saggio cinematografico sperimentale presentato alla chiusura del Festival di Cannes 1973.
La traiettoria underground che aveva preso la sua carriera lo portò a dirigere un episodio di Wet Dreams (Sogni bagnati, 1974), film erotico collettivo di produzione olandese/tedesca a cui parteciparono autori come Dušan Makavejev, Jens Jørgen Thorsen, Lasse Braun, e a rimontare una nuova versione di We Can’t Go Home Again, divenuto per lui una sorta di work in progress perenne. Apparve in I’m Stranger Here Myself (1975), un documentario in cui si confidava sulla sua vita e la sua carriera, recitò in Der Amerikanische Freund (L’amico americano,1977) di Wim Wenders e in Hair (1979) di Miloš Forman. Malato di tumore si occupò di un progetto a quattro mani con l’amico Wenders intitolato Nick’s Movie (Lampi sull’acqua - Nick’s Movie, 1980), una cronaca dei suoi ultimi giorni di vita catturati dall’occhio impietoso della sua amata macchina da presa. Morì a New York il 16 giugno del 1979. François Truffaut affermò: «Hawks e Ray si oppongono un po’ alla maniera di Castellani e Rossellini. Con Hawks assistiamo al trionfo dello spirito, con Nick Ray a quello del cuore. Si può rifiutare Hawks in nome di Ray (o viceversa), rifiutare anche Big Sky (Il grande cielo, 1952) in nome di Johnny Guitar o accettarli tutti e due, ma a chi rifiuta l’uno e l’altro arrivo a dire: non andare più al cinema, non vedere più film, perché non saprai mai cosa sono l’ispirazione, l’intuizione poetica, un’inquadratura, un piano, un’idea, un buon film, il cinema».
NC-121
22.07.2022
Una donna (Joan Crawford) e un cowboy (Sterling Hayden) si allontanano da un funereo gruppo di rancheri vestiti di nero. Lei ha appena partecipato a uno scontro a fuoco, sferrando un mortale colpo di pistola alla sua acerrima nemica, la perfida Emma Small (Mercedes McCambridge). Lui la cinge, insieme oltrepassano una cascata, si guardano negli occhi, e mentre il celebre ritornello di Peggy Lee – There was never a man like my Johnny, like the one they call Johnny Guitar – pervade lo schermo, si baciano con coreografica intensità. L’anno era il 1954 e il film Johnny Guitar, diretto dal dispotico, egocentrico, megalomane, geniale, Nicholas Ray. Un autore essenziale, che, grazie alla sua stratificata messa in scena, al suo simbolico uso della luce e del colore e al suo particolare sviluppo del personaggio, infranse i canoni della classicità hollywoodiana ascendendo nell’alveo dei padri fondatori del cinema moderno.
Raymond Nicholas Kienzle Jr. nacque il 7 agosto del 1911 a Galesville, un comune del Wisconsin immerso nel verde e popolato per lo più da nativi americani e agricoltori di origine europea. Quarto figlio, dopo tre femmine, di Raymond Nicholas Kienzle Sr., un costruttore edile figlio di immigrati tedeschi, e Lena Toppen, una casalinga dai natali norvegesi. Nicholas mostrò fin da subito una spiccata creatività, espressa attraverso le sue passioni per la pittura, il teatro, l’architettura, il cinema e la radio. Verso la fine del primo conflitto mondiale la famiglia Kienzle si trasferì nella vicina LaCrosse, cittadina natia di un altro grande del cinema, il regista Joseph Losey. Durante le superiori Nick iniziò a collaborare con una radio locale realizzando svariati programmi che gli permisero di vincere un concorso statale. Grazie a questi promettenti risultati, che a suo dire gli aprirono le porte di «qualsiasi università», poté recarsi alla prestigiosa Chicago University. Insoddisfatto però dell’asfissiante ambiente accademico, che ben poco si adattava al suo temperamento irrequieto, interruppe gli studi e si trasferì a New York dove convolò a nozze con Jean Evans, una scrittrice della California. I coniugi Ray – già da questo periodo il futuro regista iniziò ad adottare il nome che lo avrebbe reso celebre – vivevano una vita da bohémien, tanto che poco dopo il matrimonio Nicholas decise di spostarsi in Arizona. Questa volta il giovane era stato invitato da Frank Lloyd Wright, architetto visionario, come partecipante e allievo della Taliesin West, una neonata comunità-studio gestita e fortemente voluta dal celebre progettista. Questa esperienza influenzerà prepotentemente lo stile cinematografico di Ray che ereditò da Wright il senso della composizione e quella sua peculiare predilezione per l’immagine orizzontale, che gli permetterà in seguito di adoperare, in modo completo e magistrale, il formato del CinemaScope. Come osserva lo studioso James Quandt, «il potenziale espressivo delle scenografie fa di Ray, insieme a Sirk, il massimo formalista d’interni degli anni Cinquanta. Come Sirk, Ray sa dare alle tende o alla grata di una finestra uno splendore semiotico».
La permanenza a Taliesin fu improvvisamente interrotta da una lite tra Wright e Ray, il quale abbandonò la comunità e si ricongiunse con la moglie. Fu verso la seconda metà degli anni Trenta che iniziò a dedicarsi al teatro progressista lavorando come attore, co-regista e sviluppatore di testi teatrali, mentre durante la Seconda guerra mondiale tornò alla radio, per cui creò un programma di musica folk e uno di propaganda commissionato dalle agenzie di stato. In questo modo venne a contatto con artisti e intellettuali del tempo, come il drammaturgo Clifford Odets, il giovane regista Elia Kazan, l’attore John Garfield. Proprio grazie a Kazan, di cui Ray fu aiuto regista per A Tree Grows in Brooklyn (Un albero cresce a Brooklyn, 1945), e al produttore John Houseman, fu messo sotto contratto dalla RKO per cui realizzò il suo primo film, They Live by Night (La donna del bandito). Girato nel 1947 ma distribuito solo due anni dopo a causa delle agitazioni tra i quadri dirigenti della major, They Live by Night è stato spesso frainteso ed etichettato come un noir, definizione usata a posteriori dalla critica francese per circoscrivere una tipologia di lungometraggi che offrivano un ritratto oscuro, violento ed ambiguo dell’America del dopoguerra.
La pellicola, come in fondo tutta l’opera di Ray, si astrae in realtà da un vero e proprio genere per trasformarsi nella tragica ballata di due giovani innamorati in fuga. Identificando già nel 1947 le sue caratteristiche dominanti Ray decise di ispirarsi alle atmosfere del cinema noir, distaccandosene però nel messaggio e nei toni narrativi, così da anticipare quella decostruzione del genere che verrà compiuta vent’anni dopo dai registi della New Hollywood. L’autore usava infatti le categorie cinematografiche solo per «offrire una serie di punti di riferimento capaci di mettere il pubblico a proprio agio nelle prime scene» per poi «potersi allontanare da quel mondo familiare verso quelle che erano vere e proprie odissee emotive».
Nel 1948 il magante Howard Hughes passò alla direzione della RKO. Hughes sarà una figura di primaria importanza nella carriera di Ray, che diresse sotto i suoi finanziamenti A Woman’s Secret (Hai sempre mentito, 1949), Born to Be Bad (La seduttrice, 1950), Flying Leathernecks (I diavoli alati, 1951), On Dangerous Ground (Neve rossa, 1951) e The Lusty Men (Il temerario, 1952). The Lusty Men, ambientato nel mondo dei rodei, è il ritratto malinconico di una società costretta ad abbandonare i suoi vecchi valori per adattarsi alla modernità, una messa al bando dei miti americani su cui cineasti come Robert Altman (McCabe & Mrs. Miller, 1971, Nashville, 1975), Peter Bogdanovich (The Last Picture Show, 1971, Paper Moon, 1973), Sam Peckinaph (The Wild Bunch, 1969, Junior Bonner, 1971) baseranno in seguito la loro poetica. Durante gli anni del contratto con la RKO il regista girò anche Knock On Any Door (I bassifondi di Chicago, 1949) e In a Lonely Place (Il diritto di uccidere, 1950), due opere realizzate per la casa di produzione indipendente di Humphrey Bogart, presente in entrambi i film. Nel lungometraggio In a Lonely Place, a detta di molti autoreferenziale, il regista lanciò una stoccata neanche troppo velata al mondo del cinema e, tramite la storia di uno sceneggiatore sociopatico stritolato da un’industria sordida e corrotta, continuò la sua angosciosa indagine sulla drammatica condizione dell’uomo contemporaneo. Nel frattempo, la sua vita privata si complicava sempre più: divorziato dalla moglie Jean e risposatosi nel 1948 con la celebre attrice Gloria Grahame, da cui divorzierà nel 1952, cominciò a essere adocchiato dalla HUAC, il comitato di indagine per attività antiamericane, durante la “caccia ai comunisti” del sentore Joseph McCarthy. Nonostante il suo passato chiaramente di sinistra Ray riuscì a salvarsi dalla famigerata “lista nera” grazie alla protezione del suo benefattore Hughes, uomo dall’enorme potere economico e politico.
Da questo generale clima di terrore trasse l’ispirazione per Johnny Guitar (1954), una delle vette più sublimi della sua filmografia. Film venerato dalla celebre rivista Cahiers du Cinéma, Johnny Guitar è una complessa allegoria del moralismo repressivo di quegli anni, un finto western scevro da ogni retorica di genere, «sognato, spinto ai limiti dell’irreale e del delirio». Con la storia dello scontro fra la padrona di una sala da gioco e la figlia di un proprietario terriero che aizza contro la prima una folla inferocita di puritani, la pellicola sovverte ogni dinamica di genere incoronando due figure femminili come protagoniste assolute della narrazione. Come disse Paola Malanga, «Johnny Guitar è l’America che brucia il proprio mito della frontiera in un autodafé quasi apocalittico, ma è anche, non a caso, un melodramma matriarcale e ipnotico. La Vienna di Joan Crawford e la Emma di Mercedes McCambridge, donne ad altissimo tasso di testosterone, paiono figure della mitologia greca ripescate da Freud nei suoi sogni più riusciti. Ray è un maestro nell’uso psicoanalitico del colore e l’improvvisa e violenta irruzione nel saloon di Emma, furiosa come la quarta Erinni con i suoi scherani al seguito, pare un metaforico stupro collettivo nei confronti di Vienna, che si fa trovare al pianoforte, elegantissima, e assorta nel brano che sta suonando, simile ad una nobildonna di gran classe che dà un concerto privato. Per un attimo il ritorno all’innocenza perduta ha quasi preso il sopravvento ma Ray, di colpo, ci riporta alla realtà allucinata del vecchio West».
Con il successivo Rebel Without a Cause (Gioventù bruciata, 1955), opera ambiziosa, cruda, sofferta, il regista fece epoca. La parabola di una gioventù che affacciandosi alla vita adulta scopre un mondo bieco e ipocrita rispecchia pienamente la descrizione che Ray fa, per tutto il suo percorso autoriale, degli Stati Uniti: un paese dal fragile tessuto sociale dove gli alienanti legami familiari celano, sotto il loro superficiale ottimismo, la depravazione dell’ideologia trionfalistica dei governi di Truman ed Eisenhower. Di fatto la visione del regista fu, in quegli anni, maggiormente colta dalla critica europea, che riconobbe in lui una sorta di profeta della modernità. I tre protagonisti, Jim Stark (James Dean), Judy (Natalie Wood) e John “Plato” Crawford (Sal Mineo), sono degli outsider, dei reietti patologici, incarnazioni perfette degli anti-eroi che popolano il cinema di Ray. La schiettezza con cui l’autore apre Rebel Without a Cause è di una modernità destabilizzante – le sirene della polizia che rimbombano per i vicoli deserti mentre James Dean ubriaco e prono sulla strada si trova nel pieno di una crisi emotiva – collegandosi, in maniera superba, alla brutale sparatoria del finale.
Nel 1956, dopo il musical antropologico Hot Blood (La donna venduta, 1955) e il western psicologico Ron for Cover (All’ombra del patibolo, 1955), il cineasta firmò Bigger Than Life (Dietro lo specchio), definito come «una delle più crudeli immersioni nell’american life degli anni Cinquanta». Ispirato a un reale fatto di cronaca, il lungometraggio ripercorre il calvario di un insegnante di provincia (James Mason) che per accontentare i consumistici bisogni della moglie e del figlioletto arrotonda il suo stipendio lavorando anche come operatore per una centrale di taxi, fino a quando, ammalatosi di una forma d’artrite, si sottopone a delle cure sperimentali a base di cortisone. Per la perfetta suburban family sarà l’inizio di un incubo a occhi aperti poiché l’uomo, perdendo a poco a poco il lume della ragione, si trasformerà in un tossicodipendente tirannico e maniacale. Allucinatoria e a tratti perversa, la pellicola è una discesa negli inferi della megalomania umana in cui, come disse Bernard Eisenschitz, «ogni inquadratura mette in presenza la normalità e lo squilibrio che essa secerne». Iconica è la sequenza in cui il protagonista, in preda al delirio psicotropo, tenta di uccidere il suo stesso figlio come Abramo del vecchio testamento, dichiarando che Dio ebbe torto a fermare la mano del patriarca. D’altronde il personaggio di James Mason è un’altra vittima. David Thomson disse in proposito: «Molti dei personaggi di Ray sono dei poeti sconfitti, colti, sensibili, altruisti che, incapaci di esprimersi e di ottenere il rispetto della società in cui vivono, si dibattono in un vicolo cieco. I suoi film descrivono l’umanesimo romantico che sta impazzendo dentro una gabbia di plastica». Seguirono Bitter Victory (Vittoria amara, 1957), prodotto in Europa dalla Columbia e girato tra i teatri di posa francesi e la Libia, The True Story of Jesse James (La vera storia di Jess il bandito,1957) e Wind Across the Everglades (Il paradiso dei barbari,1958) definito da Gilles Deleuze come un «capolavoro del naturalismo».
Party Girl (Il dominatore di Chicago, 1958) è un film dagli improvvisi scatti di violenza dove ancora una volta il colore è adoperato in funzione espressiva e puramente simbolica. Prodotto dalla MGM, rappresenta l’ultimo lavoro del regista ad Hollywood. Il difficile carattere di Ray unito alla voglia sempre più pressante di libertà creativa, lo portarono a emigrare in Europa in compagnia della sua nuova moglie, la coreografa Betty Utey. Tra Inghilterra e Italia diresse, da una sua sceneggiatura, The Savage Innocents (Ombre bianche, 1960), prima di fare la conoscenza di Samuel Bronston, produttore cinematografico che stava cercando di costruire, utopicamente, una «mecca del cinema» spagnola. Grazie alla collaborazione con Bronston, Philip Yordan – autore della sceneggiatura di Johnny Guitar – e Mikhail Wazsynski – regista con una grande esperienza nelle produzioni euro-americane – diresse in Spagna il kolossal King of Kings (Il re dei re, 1961). Il tono più politico-sociale che religioso e l’approccio più storico che sacrale al soggetto biblico fecero storcere il naso alla MGM, che aveva rilevato l’opera per la distribuzione d’oltreoceano e rimontò in seguito, senza l’approvazione di Ray, l’intera pellicola. Fu con 55 Days in Peking (55 giorni a Pechino, 1963) che la sua carriera ebbe una brusca frenata; sul set nei pressi di Madrid il regista ebbe un infarto che lo costrinse a ritirarsi dalla direzione del film, continuato poi da Guy Green e Andrew Marton. Il resto della sua esperienza europea fu segnato da un vagabondare perpetuo – Roma, Zagabria, Parigi, Monaco di Baviera, l’isola di Sylt – e da una serie di progetti che andarono alla deriva.
Tornò in America solo nel 1969 dove riprese, con l'aiuto economico di un gruppo di filmmaker, una manifestazione contro la guerra da cui deriva il cortometraggio March on Washington, Nov. 15, 1969. All’inizio degli anni Settanta filmò il celebre processo dei Chicago Seven e anche se i piccoli finanziatori del progetto si ritirarono, si impegnò a montare in solitaria, e con ogni mezzo, il materiale a sua disposizione. Il grande stress, dovuto al parziale fallimento dell’impresa, gli procurò una quasi totale cecità all’occhio destro, che coprì con l’iconica benda nera. Nel 1971 fu assunto come insegnante all’Harpur College della State University of New York e le sue lezioni, registrate dall’ultima moglie Susan Schwartz, divennero materiale per un celebre libro sul suo metodo lavorativo. Insieme ai suoi studenti di corso girò We Can’t Go Home Again, un saggio cinematografico sperimentale presentato alla chiusura del Festival di Cannes 1973.
La traiettoria underground che aveva preso la sua carriera lo portò a dirigere un episodio di Wet Dreams (Sogni bagnati, 1974), film erotico collettivo di produzione olandese/tedesca a cui parteciparono autori come Dušan Makavejev, Jens Jørgen Thorsen, Lasse Braun, e a rimontare una nuova versione di We Can’t Go Home Again, divenuto per lui una sorta di work in progress perenne. Apparve in I’m Stranger Here Myself (1975), un documentario in cui si confidava sulla sua vita e la sua carriera, recitò in Der Amerikanische Freund (L’amico americano,1977) di Wim Wenders e in Hair (1979) di Miloš Forman. Malato di tumore si occupò di un progetto a quattro mani con l’amico Wenders intitolato Nick’s Movie (Lampi sull’acqua - Nick’s Movie, 1980), una cronaca dei suoi ultimi giorni di vita catturati dall’occhio impietoso della sua amata macchina da presa. Morì a New York il 16 giugno del 1979. François Truffaut affermò: «Hawks e Ray si oppongono un po’ alla maniera di Castellani e Rossellini. Con Hawks assistiamo al trionfo dello spirito, con Nick Ray a quello del cuore. Si può rifiutare Hawks in nome di Ray (o viceversa), rifiutare anche Big Sky (Il grande cielo, 1952) in nome di Johnny Guitar o accettarli tutti e due, ma a chi rifiuta l’uno e l’altro arrivo a dire: non andare più al cinema, non vedere più film, perché non saprai mai cosa sono l’ispirazione, l’intuizione poetica, un’inquadratura, un piano, un’idea, un buon film, il cinema».