NC-120
08.07.2022
Pleasure, il primo lungometraggio della trentasettenne regista svedese Ninja Thyberg, è in questi giorni sulla bocca di molti. Selezionato nel 2020 per il concorso ufficiale di Cannes – poi annullato a causa della pandemia – rivelazione al Sundance dell’anno seguente e dallo scorso 17 giugno distribuito in streaming su MUBI, il film è stato da più parti lodato per l’audacia con cui critica l’industria pornografica mainstream e la sua ideologia sessista. Attraverso gli occhi e il corpo di Linnéa (una bravissima debuttante Sofia Kappel), diciannovenne trasferita dalla Svezia a Los Angeles per intraprendere la carriera di pornoattrice, Pleasure esplora il dietro le quinte di un mondo tanto sfarzoso quanto problematico, dominato da uomini e da logiche patriarcali; un mondo nel quale specifiche dinamiche di potere si intrecciano a processi di oggettificazione del femminile, comportamenti maschilisti e pericolose sopraffazioni del consenso individuale. Raccontando una classica storia di formazione e ambizione professionale – cosa si è disposti a fare pur di ottenere il successo? – Pleasure sostiene con efficacia una tesi semplice e inequivocabile: il porno così com’è non va bene, la sua industria sfrutta e mette in pericolo le donne, non si preoccupa del loro piacere e ne contrasta le possibilità di acquisire maggiore indipendenza.
Assodata la validità di questa posizione, di certo non innovativa ma supportata da tendenze oggettive, viene da chiedersi come si collochi il film rispetto al sempre più centrale discorso degli ultimi anni inerente al sex work e al crescente spazio conquistato dalle lavoratrici del settore su social e piattaforme, dalle quali, seppur tra mille ostacoli, promuovono lotte di emancipazione, sia economica che sociale, per chi fa il loro mestiere. Le reazioni pressoché unanimi e benevole all’opera, salutata come una potente decostruzione femminista di un sistema da abbattere, dicono molto sul tabù che ancora rappresenta il porno nella nostra società e sull’ipocrita superficialità con la quale se ne discute. Forse stiamo sbagliando qualcosa, scambiando per arguta critica progressista un racconto in realtà antiquato e venato di conservatorismo.
Non si fa affatto fatica a credere che le situazioni narrate nel film siano accadute e continuino ad accadere a migliaia di ragazze intente a sfondare nel porno. Grazie a uno stile crudo e ironico, esplicito nel rappresentare la macchinosa trafila burocratica che prelude alla performance sessuale – spogliata qui di qualsiasi erotismo per divenire semplice atto atletico, transazione lavorativa, con tutti i goffi imprevisti e gli imbarazzi del caso – Pleasure ben mostra infatti l’opacità dell’industria pornografica, i suoi labili confini etici, le gerarchie, gli scarti e i non visti di un mondo illusoriamente dorato. Se è vero che già più volte in passato il cinema ha raccontato questa grande e contraddittoria industria svelandone alcune ombre grottesche, il film di Thyberg ha senz’altro il pregio di assumere con coerenza e sensibilità il punto di vista femminile come protagonista, ribaltando proprio le convenzioni di quel male gaze tramite cui la pornografia tradizionale ha potuto erigere le sue regole e assecondare il desiderio dei suoi spettatori. Per quanto credibile e impietoso sia il ritratto che il film delinea – d’altronde Pleasure è solo l’ultimo tassello di una riflessione che su questi temi l’autrice elabora e studia da quasi dieci anni – siamo sicuri che basti? Nel 2022 arricchisce o impoverisce il dibattito schematizzare in modo tanto rigido un universo dalle molteplici costellazioni e in continuo cambiamento come quello del lavoro sessuale? Per rispondere si dovrebbe forse tornare al titolo, indagare i contorni del piacere di Bella Cherry, questo il nome d’arte scelto da Linnéa, così da farci i conti senza pregiudizi.
Pleasure sembra suggerire che Bella provi reale piacere una sola volta, durante una scena di sesso hardcore in cui interpreta il ruolo della sottomessa. Confermando la tesi di fondo del film, ovvero che il porno pensato e girato dagli uomini sia essenzialmente svilente e inautentico, la regista della scena in questione è donna, così come donne sono le persone della produzione che si premurano delle condizioni di Bella durante le riprese. «È stato fantastico», confiderà poi con entusiasmo alle amiche e colleghe dopo la scena, evidenziando il diverso trattamento ricevuto rispetto agli altri lavori. Anche qui l’ineccepibilità del messaggio – se proprio non possiamo liberarci del porno necessitiamo quantomeno di un porno femminista, in grado di trattare la sessualità secondo desideri e sguardi inusuali! – appiattisce la complessità evocata dalle azioni di Bella. È chiaro del resto come il suo obiettivo non sia quello di girare film eticamente irreprensibili, ma diventare la nuova star dell’industria, raggiungere la fama grazie alle sue esibizioni, tramite qualsiasi mezzo o compromesso. Per di più, e qui pulsa il cuore scandaloso della vicenda, fin dalla prima sequenza del film afferma di volerlo fare per puro piacere: non dunque perché traviata da un passato di violenze famigliari o in disperato bisogno di soldi, ma perché, semplicemente, «le piace scopare». Bella non è né una vittima inconsapevole, né una cattiva ragazza. Appartiene a una famiglia normale e ha un buon rapporto con la madre, che la crede negli Stati Uniti per svolgere un tirocinio. Non si accontenta però di rimanere una delle tante, vuole essere una “Spiegler’s girl”, la più ammirata, brava e pagata di tutte. Per farlo non si pone limiti, accetta di girare scene sempre più "perverse", cambia agente e rovina amicizie. Condivisibile o meno, questo suo desiderio ha il potere di mettere in crisi narrazioni retrograde, divisioni manichee e vecchi stereotipi, eppure la sua sfrontata legittimità sembra per paradosso infastidire più di ogni altro proprio Thyberg.
In alcune dichiarazioni promozionali la regista ha spiegato come la protagonista di Pleasure dovesse essere svedese, così che lei potesse immedesimarsi nella storia che avrebbe filmato. Questo fatto, insieme alla constatazione che Sofia Kappel è tra le poche persone del cast a non lavorare realmente nell’industria (molti interpreti del film recitano la parte di se stessi e alcuni di loro non sono stati contenti di come la pellicola ha dipinto il loro settore), potrebbe far pensare che la regista, invece di approfondire il problema delle modalità con cui il porno riflette e influenza la società che lo produce, abbia preferito proiettare personali recriminazioni anti-porno sulla pelle della protagonista del suo film.
Il decisivo limite di quest’opera, che denota ancora una volta la convinzione tassativa di partenza dell’autrice, consiste nel giudizio morale e sanzionatorio che riserva infine al comportamento e quindi al piacere di Bella. L’intero percorso lavorativo della ragazza viene privato della sua dignità e considerato un progressivo cammino verso la perdizione, un degradante susseguirsi di errori che l’hanno allontanata da valori sani quali l’amicizia, la morigeratezza e la famiglia. Abbandonando l’auto che condivide con Ava, la bellissima e ovviamente antipaticissima attrice che per tutto il film ha ammirato con invidia quale modello e parametro del suo sogno, Bella non sembra ripudiare solo una mentalità maschilista e prevaricante, ma anche il successo, l’autonomia e perché no, il piacere che quel lavoro le ha permesso di ottenere. In altre parole, la sua improvvisa presa di coscienza si configura come un ravvedimento provvidenziale, la doverosa espiazione di un peccato, l’ammissione di una colpa evidentemente imperdonabile: non solo avercela fatta, ma esserci riuscita godendo, giocando per sua scelta alle regole degli uomini, senza soffrire o venire costretta.
Nonostante una patina irriverente e l’azzeccata messa a fuoco del controverso rapporto tra finzione e realtà come base delle fantasie sessuali esorcizzate dall’industria pornografica, Pleasure appare un’opera già fuori tempo, arretrata rispetto alla contemporaneità che vorrebbe raffigurare. L’industria del porno – siamo sicuri poi sia giusto intenderla come un blocco compatto e privo di differenze al suo interno? – non è molto diversa da qualunque altra struttura capitalistica, nella quale il lavoro di molti rischia di essere sfruttato per il profitto dei pochi che detengono il capitale. Una contestazione seria a questa disparità dovrebbe ormai basarsi su considerazioni politiche e non, come accade in Pleasure, su condanne morali. Thyberg opera una precisa scelta di campo, comprensibile ma tutt’altro che moderna, punendo il piacere e il talento della sua protagonista senza scandagliarne a dovere la natura. In un’epoca come la nostra, nella quale sempre più sex workers rivendicano il piacere dei loro corpi come strumento di battaglia culturale e riconoscimento sociale, le luccicanti lenti femministe con cui Pleasure racconta la sua storia nascondono solo in parte la sostanza di uno sguardo intimamente cattolico, che ripropone fin nelle musiche lo stigmatizzante mito della puttana e dell’anima redenta da riportare sulla retta via.
NC-120
08.07.2022
Pleasure, il primo lungometraggio della trentasettenne regista svedese Ninja Thyberg, è in questi giorni sulla bocca di molti. Selezionato nel 2020 per il concorso ufficiale di Cannes – poi annullato a causa della pandemia – rivelazione al Sundance dell’anno seguente e dallo scorso 17 giugno distribuito in streaming su MUBI, il film è stato da più parti lodato per l’audacia con cui critica l’industria pornografica mainstream e la sua ideologia sessista. Attraverso gli occhi e il corpo di Linnéa (una bravissima debuttante Sofia Kappel), diciannovenne trasferita dalla Svezia a Los Angeles per intraprendere la carriera di pornoattrice, Pleasure esplora il dietro le quinte di un mondo tanto sfarzoso quanto problematico, dominato da uomini e da logiche patriarcali; un mondo nel quale specifiche dinamiche di potere si intrecciano a processi di oggettificazione del femminile, comportamenti maschilisti e pericolose sopraffazioni del consenso individuale. Raccontando una classica storia di formazione e ambizione professionale – cosa si è disposti a fare pur di ottenere il successo? – Pleasure sostiene con efficacia una tesi semplice e inequivocabile: il porno così com’è non va bene, la sua industria sfrutta e mette in pericolo le donne, non si preoccupa del loro piacere e ne contrasta le possibilità di acquisire maggiore indipendenza.
Assodata la validità di questa posizione, di certo non innovativa ma supportata da tendenze oggettive, viene da chiedersi come si collochi il film rispetto al sempre più centrale discorso degli ultimi anni inerente al sex work e al crescente spazio conquistato dalle lavoratrici del settore su social e piattaforme, dalle quali, seppur tra mille ostacoli, promuovono lotte di emancipazione, sia economica che sociale, per chi fa il loro mestiere. Le reazioni pressoché unanimi e benevole all’opera, salutata come una potente decostruzione femminista di un sistema da abbattere, dicono molto sul tabù che ancora rappresenta il porno nella nostra società e sull’ipocrita superficialità con la quale se ne discute. Forse stiamo sbagliando qualcosa, scambiando per arguta critica progressista un racconto in realtà antiquato e venato di conservatorismo.
Non si fa affatto fatica a credere che le situazioni narrate nel film siano accadute e continuino ad accadere a migliaia di ragazze intente a sfondare nel porno. Grazie a uno stile crudo e ironico, esplicito nel rappresentare la macchinosa trafila burocratica che prelude alla performance sessuale – spogliata qui di qualsiasi erotismo per divenire semplice atto atletico, transazione lavorativa, con tutti i goffi imprevisti e gli imbarazzi del caso – Pleasure ben mostra infatti l’opacità dell’industria pornografica, i suoi labili confini etici, le gerarchie, gli scarti e i non visti di un mondo illusoriamente dorato. Se è vero che già più volte in passato il cinema ha raccontato questa grande e contraddittoria industria svelandone alcune ombre grottesche, il film di Thyberg ha senz’altro il pregio di assumere con coerenza e sensibilità il punto di vista femminile come protagonista, ribaltando proprio le convenzioni di quel male gaze tramite cui la pornografia tradizionale ha potuto erigere le sue regole e assecondare il desiderio dei suoi spettatori. Per quanto credibile e impietoso sia il ritratto che il film delinea – d’altronde Pleasure è solo l’ultimo tassello di una riflessione che su questi temi l’autrice elabora e studia da quasi dieci anni – siamo sicuri che basti? Nel 2022 arricchisce o impoverisce il dibattito schematizzare in modo tanto rigido un universo dalle molteplici costellazioni e in continuo cambiamento come quello del lavoro sessuale? Per rispondere si dovrebbe forse tornare al titolo, indagare i contorni del piacere di Bella Cherry, questo il nome d’arte scelto da Linnéa, così da farci i conti senza pregiudizi.
Pleasure sembra suggerire che Bella provi reale piacere una sola volta, durante una scena di sesso hardcore in cui interpreta il ruolo della sottomessa. Confermando la tesi di fondo del film, ovvero che il porno pensato e girato dagli uomini sia essenzialmente svilente e inautentico, la regista della scena in questione è donna, così come donne sono le persone della produzione che si premurano delle condizioni di Bella durante le riprese. «È stato fantastico», confiderà poi con entusiasmo alle amiche e colleghe dopo la scena, evidenziando il diverso trattamento ricevuto rispetto agli altri lavori. Anche qui l’ineccepibilità del messaggio – se proprio non possiamo liberarci del porno necessitiamo quantomeno di un porno femminista, in grado di trattare la sessualità secondo desideri e sguardi inusuali! – appiattisce la complessità evocata dalle azioni di Bella. È chiaro del resto come il suo obiettivo non sia quello di girare film eticamente irreprensibili, ma diventare la nuova star dell’industria, raggiungere la fama grazie alle sue esibizioni, tramite qualsiasi mezzo o compromesso. Per di più, e qui pulsa il cuore scandaloso della vicenda, fin dalla prima sequenza del film afferma di volerlo fare per puro piacere: non dunque perché traviata da un passato di violenze famigliari o in disperato bisogno di soldi, ma perché, semplicemente, «le piace scopare». Bella non è né una vittima inconsapevole, né una cattiva ragazza. Appartiene a una famiglia normale e ha un buon rapporto con la madre, che la crede negli Stati Uniti per svolgere un tirocinio. Non si accontenta però di rimanere una delle tante, vuole essere una “Spiegler’s girl”, la più ammirata, brava e pagata di tutte. Per farlo non si pone limiti, accetta di girare scene sempre più "perverse", cambia agente e rovina amicizie. Condivisibile o meno, questo suo desiderio ha il potere di mettere in crisi narrazioni retrograde, divisioni manichee e vecchi stereotipi, eppure la sua sfrontata legittimità sembra per paradosso infastidire più di ogni altro proprio Thyberg.
In alcune dichiarazioni promozionali la regista ha spiegato come la protagonista di Pleasure dovesse essere svedese, così che lei potesse immedesimarsi nella storia che avrebbe filmato. Questo fatto, insieme alla constatazione che Sofia Kappel è tra le poche persone del cast a non lavorare realmente nell’industria (molti interpreti del film recitano la parte di se stessi e alcuni di loro non sono stati contenti di come la pellicola ha dipinto il loro settore), potrebbe far pensare che la regista, invece di approfondire il problema delle modalità con cui il porno riflette e influenza la società che lo produce, abbia preferito proiettare personali recriminazioni anti-porno sulla pelle della protagonista del suo film.
Il decisivo limite di quest’opera, che denota ancora una volta la convinzione tassativa di partenza dell’autrice, consiste nel giudizio morale e sanzionatorio che riserva infine al comportamento e quindi al piacere di Bella. L’intero percorso lavorativo della ragazza viene privato della sua dignità e considerato un progressivo cammino verso la perdizione, un degradante susseguirsi di errori che l’hanno allontanata da valori sani quali l’amicizia, la morigeratezza e la famiglia. Abbandonando l’auto che condivide con Ava, la bellissima e ovviamente antipaticissima attrice che per tutto il film ha ammirato con invidia quale modello e parametro del suo sogno, Bella non sembra ripudiare solo una mentalità maschilista e prevaricante, ma anche il successo, l’autonomia e perché no, il piacere che quel lavoro le ha permesso di ottenere. In altre parole, la sua improvvisa presa di coscienza si configura come un ravvedimento provvidenziale, la doverosa espiazione di un peccato, l’ammissione di una colpa evidentemente imperdonabile: non solo avercela fatta, ma esserci riuscita godendo, giocando per sua scelta alle regole degli uomini, senza soffrire o venire costretta.
Nonostante una patina irriverente e l’azzeccata messa a fuoco del controverso rapporto tra finzione e realtà come base delle fantasie sessuali esorcizzate dall’industria pornografica, Pleasure appare un’opera già fuori tempo, arretrata rispetto alla contemporaneità che vorrebbe raffigurare. L’industria del porno – siamo sicuri poi sia giusto intenderla come un blocco compatto e privo di differenze al suo interno? – non è molto diversa da qualunque altra struttura capitalistica, nella quale il lavoro di molti rischia di essere sfruttato per il profitto dei pochi che detengono il capitale. Una contestazione seria a questa disparità dovrebbe ormai basarsi su considerazioni politiche e non, come accade in Pleasure, su condanne morali. Thyberg opera una precisa scelta di campo, comprensibile ma tutt’altro che moderna, punendo il piacere e il talento della sua protagonista senza scandagliarne a dovere la natura. In un’epoca come la nostra, nella quale sempre più sex workers rivendicano il piacere dei loro corpi come strumento di battaglia culturale e riconoscimento sociale, le luccicanti lenti femministe con cui Pleasure racconta la sua storia nascondono solo in parte la sostanza di uno sguardo intimamente cattolico, che ripropone fin nelle musiche lo stigmatizzante mito della puttana e dell’anima redenta da riportare sulla retta via.