Breve storia dell’ultimo movimento cinematografico
indie americano: il mumblecore,
di Rodrigo Mella
TR-59
24.04.2022
Marzo, 2005. Bush Jr. ha appena iniziato il suo secondo mandato consecutivo da Presidente degli Stati Uniti; Chad Hurley, Steve Chen e Jawed Karim lanciano una piattaforma online di condivisione di materiale audiovisivo chiamata ‘Youtube’; nella sua nuova sede di Palo Alto, Mark Zuckerberg elimina il the da Facebook; e Michael Burry della Scion Capital scommette sull'imminente scoppio della bolla immobiliare e la conseguente recessione economica. Nel bel mezzo di un mondo che a guardarsi indietro suscita lo stesso misto di imbarazzo e compassione che si prova nel riesumare i propri incubi adolescenziali in forma di selfie allo specchio, un gruppo di ventenni americani si ritrova una sera in un bar di Austin, Texas, a discutere dei film appena presentati al South by Southwest.
Ce ne sono tre in particolare – The Puffy Chair dei Fratelli Duplass, Kissing on the Mouth di Joe Swanberg e Mutual Appreciation di Andrew Bujalski – che sembrano involontariamente racchiudere un'intenzione nuova e condivisa. Sono tutte storie difficili da riassumere, con al centro dei ventenni senza prospettive che camminano sulla sottile linea tra l’arguzia e l’insopportabile, che lasciano ampio margine all’improvvisazione e che sono state girate con un budget paragonabile al salario mensile di un commesso di McDonald’s. Tra le chiacchiere al bar – che se fossero state filmate probabilmente sarebbero finite in uno di questi film – il desiderio di dare un nome a ciò che stava accadendo alla fine portano Eric Masunaga, il fonico di Mutual Appreciation, a trovarne uno abbastanza pretenziosamente autoironico da racchiuderne perfettamente l’anima: mumblecore.
Come il genere stesso, rimasto per lo più circoscritto a una parentesi temporale e nazionale ben specifica, il termine mumblecore risulta difficilmente traducibile. La parola è composta dal verbo mumble-, che in italiano sarebbe una via di mezzo tra borbottare e sussurrare, un modo di comunicare che risulta difficile da intendere non tanto per il basso volume a cui viene pronunciato, ma per l’intenzione passivo-aggressiva di chi lo emette; e il suffisso -core, usato per definire una versione estrema o particolarmente aggressiva di un certo stile (e.g. hardcore, metalcore). Ne esce fuori dunque una sorta di ossimoro, in grado di racchiudere sia le contraddizioni che l’intenzione di questi registi. Sono film che se hanno qualcosa da dire (e questo rimane tuttora elemento di discussione), invece di urlarlo al mondo preferiscono sussurrare in un megafono.
Anche se è solo dal 2005 in poi che si inizierà a parlare di qualcosa di simile a un movimento, la genesi risale a due eventi di qualche anno prima. Il primo – in realtà diviso in diversi capitoli – è prettamente tecnologico. All’inizio degli anni duemila la Apple era alla ricerca di un modo per competere con gli altri software di montaggio video quali Adobe Premiere e Avid, e decise di acquistare e investire nello sviluppo di un nuovo sistema chiamato Final Cut. Come vuole il vangelo secondo Steve Jobs, l’ambizione era quella di diffondere un programma di montaggio video che fosse pratico, intuitivo e accessibile a tutti (tanto che nel 2003 venne lanciata la versione Express di Final Cut pensata appositamente per i montatori non professionisti). Tutto ciò succedeva parallelamente alla messa sul mercato di nuove ed economiche cineprese digitali, tipo la Panasonic AG-DVX100, che avrebbero virtualmente eliminato la distanza tra tutti quelli che volevano fare un film e i pochi che potevano permetterselo. Un po’ come la politica neoliberale di IKEA stava demolendo l’industria dell'arredamento relegandolo al do-it-yourself, una simile rivoluzione sembrava essere all'orizzonte per tutti gli aspiranti registi del pianeta. Per la prima volta nella storia del cinema, volere era effettivamente potere.
Il secondo evento invece è l’uscita nel 2002 del primo film di Bujalski, Funny Ha Ha.
Il film segue la storia di Marnie (Kate Dollenmayer), appena laureata e alla ricerca di un lavoro part-time che le consenta di ritardare il più possibile l’inizio della sua vita adulta. Non c’è una vera trama, visto che per Marnie ogni scusa è buona per continuare a vivere in questo limbo semi-vegetativo, nella tacita speranza che finisca tutto prima di dover prendere alcuna decisione. Tant’è che i suoi sforzi di far colpo sull’amico già impegnato Alex (Christian Rudder) Marnie sembra viverli con la stessa (non) intensità dei tentativi di ridurre il proprio consumo di birra settimanale.
Finito il periodo d’incubazione universitaria, la vita piomba addosso alla povera Marnie come un qualunque venerdì sera: monotona, soffocante ed estremamente deludente. L’intenzione di Bujalski è quella di catturare quell’intorpidimento, di creare dramma dall’assenza di dramma, e di riportarlo sullo schermo al suo stato grezzo in modo anche ridondante e ripetitivo. In questo sta il problema centrale del film e del mumblecore per estensione: a vederlo, spesso e volentieri, ci si annoia. Il punto è che per Bujalski la noia rappresenta l’ultima via d’uscita rimasta, e in questo sta la decisione di girare il film – a differenza di chi poi lo succederà – in 16mm. La pellicola, dice Bujalski, ci costringe a prestare attenzione a ciò che sta accadendo, ci mette di fronte a tutto quello che risulterebbe altrimenti trascurabile e ci urla: “Questa non è una stronzata, questo è cinema.”
In una società che cerca di espiare la noia come fosse l’ultimo demone rimasto sulla terra, quella del mumblecore, per quanto irritabilmente postmoderna possa sembrare, rimane un’intenzione artistica reazionaria. Vale a questo proposito, rinvenuta tra le pagine dell’ultimo e incompiuto romanzo di David Foster Wallace The Pale King, una nota che ne riassumeva così l’idea di fondo: “La felicità – intesa come gioia e gratitudine verso il dono di essere coscienti e in vita ogni secondo – si ritrova fianco a fianco alla noia che ci devasta. Se prestiamo attenzione alle cose più noiose del mondo (la dichiarazione dei redditi, il golf in televisione), onda dopo onda, una noia incredibile ci sommergerà fino ad ucciderci. Cavalca le onde, e sarà come passare da un mondo in bianco e nero a uno a colori. Come l’acqua dopo giorni nel deserto. Felicità istantanea in ogni atomo.” Ecco, il mumblecore queste onde non le cavalca, ci fa surfing.
Più che una vera ribellione, quella del mumblecore è una presa di coscienza. Nei primi anni di questo giovane millennio lo spettro emotivo si è appiattito fino a diventare una lastra di ghiaccio, e l’unica arma contro la desensibilizzazione sembrerebbe essere una forsennata ricerca dell’estremo, che a sua volta continua ad allontanarsi come la soglia di tolleranza di un tossico. Il cinema mumblecore è estremo nella sua estetica, ma anche nella consapevolezza che ha di sé stesso e della crisi esistenziale della propria generazione. Le loro storie barcollano in una rete di relazioni amorose ambigue e totalmente instabili, e che riescono a manifestarsi nel mondo reale solo attraverso il sesso. Il rapporto fisico diventa l’unico modo di dimostrare a sé stessi che si è ancora in grado di sentire qualcosa, ma anche questo, svuotato dalla ripetizione e dal sentimento, sfocia con il tempo prima in una delusione senza eguali, e poi in frustrazione autocommiserativa.
In Kissing on the Mouth, la scena in cui il personaggio interpretato da Swanberg si masturba in doccia ci viene presentata con lo stesso voyeurismo e intimità di un video su Youtube. In Dance Party, USA due adolescenti creano un legame affettivo dopo che a una festa lui le confessa di aver stuprato una quattordicenne. In Green, la protagonista viene perseguitata da visioni della amica che pratica sesso orale sul compagno. E in Humpday, due amici intenti a dimostrare di aver preso le scelte giuste nella vita si ritrovano in una stanza d’albergo a girare un porno insieme per difendere il proprio orgoglio. Il sesso ha un ruolo destabilizzante non per il pubblico che lo osserva ma per i personaggi rinchiusi nei film, il cui processo di crescita è legato alla disillusione, alla presa di coscienza che non esiste un ordine e che, anche redendocene conto, non smetteremo mai di cercarlo.
A differenza del Dogme 95, che in quanto a credo si avvicinerebbe anche al mumblecore, la proliferazione di quest’ultimo rispetto al primo si deve probabilmente all’organicità da cui è nato. Più che una presa di posizione, la scelta di girare tutto in digitale era una necessità, come lo era anche la rotazione dei ruoli dietro e davanti l'obiettivo. Praticamente tutti hanno recitato nei propri film e nei film degli altri, oltre che a coprire ruoli d’assistente alla regia e al montaggio, fino a occuparsi persino della distribuzione (di solito limitata allo spaccio di DVD fatti in casa). Gli attori spesso venivano riconosciuti anche come sceneggiatori e alla fine, nonostante ci sia sempre una chiara intenzione autoriale dietro i film, quella che emerge più chiaramente è la visione di una generazione.
Dopo qualche anno passato a fare film con una continuità realizzativa bergmaniana, la fine del mumblecore sopraggiunge con altrettanta naturalità nel 2012, con l’uscita di un film dal titolo stranamente simile al primo di Bujalski: Frances Ha. Nonostante alcune affinità tematiche, Noah Baumbach non viene solitamente accostato al genere mumblecore, ed è proprio questo che lo rende in grado di tagliare la testa all’idra. Frances Ha rappresenta un punto sia d’incontro che di non ritorno, in cui il mumblecore finisce per essere assorbito nel vasto e sconfinato universo del cinema indie non-meglio-specificato. Il film presenta quasi tutti gli elementi del genere – da una protagonista abbandonata a sé stessa e al mondo, al ruolo di attrice-sceneggiatrice di Greta Gerwig, fino alla fotografia affidata a una camera commerciale e lenti non cinematografiche. Il punto è che il film, che è costato 3 milioni di dollari, aveva il budget per andare ben oltre questa dimensione del cinema bricolage. E anche se in un certo senso Frances Ha è il miglior film mumblecore di sempre, arrivati a quel punto era chiaro a tutti che continuare a fare i film in quel modo non avrebbe avuto alcun senso se non quello di una sterile autocelebrazione. Il fatto che non sia successo sostiene l'onestà intellettuale del movimento, la cui sopravvivenza alla fine è stata determinata più dalle strutture economiche del sistema che da quelle artistiche.
L’estinzione del mumblecore negli Stati Uniti non avrebbe dovuto precludere una sua seconda vita al di fuori dei confini nazionali, che però non ha mai veramente preso piede. Oltre a qualche esempio danese (Dark Horse, 2005) e una corrente tedesca (Berlin Mumblecore, che a sua difesa ha stilato persino un manifesto), la fiamma del cinema fai-da-te si è spenta come un mozzicone di sigaretta sotto i piedi di Frances Ha. Con la stessa tecnologia a disposizione e altrettante storie, altrove non ci si è sentiti in grado di raccontare qualcosa d’interessante senza passare dai canali convenzionali di produzione.
In un’intervista a Broken Record, Brian Eno disse che l’arte che lo ha segnato di più nella vita è stata quella che in un primo momento lo ha spinto a dire: “L’avrei potuto fare io.” Perché se qualcosa riesce a emozionarci nonostante la sua apparente semplicità, il velo di mistero che separa l’arte dallo spettatore rimane inviolato, e questo ci obbliga a continuare a cercare delle risposte. Il mumblecore ci lascia in uno stato confusionale simile, in cui l’irriconoscibilità di questo cinema è in grado di ridefinirne i parametri, e con una domanda che a vent’anni di distanza è ancora necessario porci: “L’avrei potuto fare io. E allora perchè non l’ho fatto?”
Mumblecore watchlist: Funny Ha Ha (2002); Mutual Appreciation (2005); The Puffy Chair (2005); Dance Party, USA (2006); Hannah Takes the Stairs (2007); Medicine for Melancholy (2008); The Pleasure of Being Robbed (2008); Baghead (2008); Humpday (2009); Guy and Madeline on a Park Bench (2010); Cold Weather (2010); Gabi on the Roof in July (2010); Bad Fever (2011); Green (2011); The Color Wheel (2010); All the Light in the Sky (2012); Frances Ha (2012).
La trasformazione di una terra e di un genere che sta cambiando con essa,
di Rodrigo Mella
TR-59
24.04.2022
Marzo, 2005. Bush Jr. ha appena iniziato il suo secondo mandato consecutivo da Presidente degli Stati Uniti; Chad Hurley, Steve Chen e Jawed Karim lanciano una piattaforma online di condivisione di materiale audiovisivo chiamata ‘Youtube’; nella sua nuova sede di Palo Alto, Mark Zuckerberg elimina il the da Facebook; e Michael Burry della Scion Capital scommette sull'imminente scoppio della bolla immobiliare e la conseguente recessione economica. Nel bel mezzo di un mondo che a guardarsi indietro suscita lo stesso misto di imbarazzo e compassione che si prova nel riesumare i propri incubi adolescenziali in forma di selfie allo specchio, un gruppo di ventenni americani si ritrova una sera in un bar di Austin, Texas, a discutere dei film appena presentati al South by Southwest.
Ce ne sono tre in particolare – The Puffy Chair dei Fratelli Duplass, Kissing on the Mouth di Joe Swanberg e Mutual Appreciation di Andrew Bujalski – che sembrano involontariamente racchiudere un'intenzione nuova e condivisa. Sono tutte storie difficili da riassumere, con al centro dei ventenni senza prospettive che camminano sulla sottile linea tra l’arguzia e l’insopportabile, che lasciano ampio margine all’improvvisazione e che sono state girate con un budget paragonabile al salario mensile di un commesso di McDonald’s. Tra le chiacchiere al bar – che se fossero state filmate probabilmente sarebbero finite in uno di questi film – il desiderio di dare un nome a ciò che stava accadendo alla fine portano Eric Masunaga, il fonico di Mutual Appreciation, a trovarne uno abbastanza pretenziosamente autoironico da racchiuderne perfettamente l’anima: mumblecore.
Come il genere stesso, rimasto per lo più circoscritto a una parentesi temporale e nazionale ben specifica, il termine mumblecore risulta difficilmente traducibile. La parola è composta dal verbo mumble-, che in italiano sarebbe una via di mezzo tra borbottare e sussurrare, un modo di comunicare che risulta difficile da intendere non tanto per il basso volume a cui viene pronunciato, ma per l’intenzione passivo-aggressiva di chi lo emette; e il suffisso -core, usato per definire una versione estrema o particolarmente aggressiva di un certo stile (e.g. hardcore, metalcore). Ne esce fuori dunque una sorta di ossimoro, in grado di racchiudere sia le contraddizioni che l’intenzione di questi registi. Sono film che se hanno qualcosa da dire (e questo rimane tuttora elemento di discussione), invece di urlarlo al mondo preferiscono sussurrare in un megafono.
Anche se è solo dal 2005 in poi che si inizierà a parlare di qualcosa di simile a un movimento, la genesi risale a due eventi di qualche anno prima. Il primo – in realtà diviso in diversi capitoli – è prettamente tecnologico. All’inizio degli anni duemila la Apple era alla ricerca di un modo per competere con gli altri software di montaggio video quali Adobe Premiere e Avid, e decise di acquistare e investire nello sviluppo di un nuovo sistema chiamato Final Cut. Come vuole il vangelo secondo Steve Jobs, l’ambizione era quella di diffondere un programma di montaggio video che fosse pratico, intuitivo e accessibile a tutti (tanto che nel 2003 venne lanciata la versione Express di Final Cut pensata appositamente per i montatori non professionisti). Tutto ciò succedeva parallelamente alla messa sul mercato di nuove ed economiche cineprese digitali, tipo la Panasonic AG-DVX100, che avrebbero virtualmente eliminato la distanza tra tutti quelli che volevano fare un film e i pochi che potevano permetterselo. Un po’ come la politica neoliberale di IKEA stava demolendo l’industria dell'arredamento relegandolo al do-it-yourself, una simile rivoluzione sembrava essere all'orizzonte per tutti gli aspiranti registi del pianeta. Per la prima volta nella storia del cinema, volere era effettivamente potere.
Il secondo evento invece è l’uscita nel 2002 del primo film di Bujalski, Funny Ha Ha.
Il film segue la storia di Marnie (Kate Dollenmayer), appena laureata e alla ricerca di un lavoro part-time che le consenta di ritardare il più possibile l’inizio della sua vita adulta. Non c’è una vera trama, visto che per Marnie ogni scusa è buona per continuare a vivere in questo limbo semi-vegetativo, nella tacita speranza che finisca tutto prima di dover prendere alcuna decisione. Tant’è che i suoi sforzi di far colpo sull’amico già impegnato Alex (Christian Rudder) Marnie sembra viverli con la stessa (non) intensità dei tentativi di ridurre il proprio consumo di birra settimanale.
Finito il periodo d’incubazione universitaria, la vita piomba addosso alla povera Marnie come un qualunque venerdì sera: monotona, soffocante ed estremamente deludente. L’intenzione di Bujalski è quella di catturare quell’intorpidimento, di creare dramma dall’assenza di dramma, e di riportarlo sullo schermo al suo stato grezzo in modo anche ridondante e ripetitivo. In questo sta il problema centrale del film e del mumblecore per estensione: a vederlo, spesso e volentieri, ci si annoia. Il punto è che per Bujalski la noia rappresenta l’ultima via d’uscita rimasta, e in questo sta la decisione di girare il film – a differenza di chi poi lo succederà – in 16mm. La pellicola, dice Bujalski, ci costringe a prestare attenzione a ciò che sta accadendo, ci mette di fronte a tutto quello che risulterebbe altrimenti trascurabile e ci urla: “Questa non è una stronzata, questo è cinema.”
In una società che cerca di espiare la noia come fosse l’ultimo demone rimasto sulla terra, quella del mumblecore, per quanto irritabilmente postmoderna possa sembrare, rimane un’intenzione artistica reazionaria. Vale a questo proposito, rinvenuta tra le pagine dell’ultimo e incompiuto romanzo di David Foster Wallace The Pale King, una nota che ne riassumeva così l’idea di fondo: “La felicità – intesa come gioia e gratitudine verso il dono di essere coscienti e in vita ogni secondo – si ritrova fianco a fianco alla noia che ci devasta. Se prestiamo attenzione alle cose più noiose del mondo (la dichiarazione dei redditi, il golf in televisione), onda dopo onda, una noia incredibile ci sommergerà fino ad ucciderci. Cavalca le onde, e sarà come passare da un mondo in bianco e nero a uno a colori. Come l’acqua dopo giorni nel deserto. Felicità istantanea in ogni atomo.” Ecco, il mumblecore queste onde non le cavalca, ci fa surfing.
Più che una vera ribellione, quella del mumblecore è una presa di coscienza. Nei primi anni di questo giovane millennio lo spettro emotivo si è appiattito fino a diventare una lastra di ghiaccio, e l’unica arma contro la desensibilizzazione sembrerebbe essere una forsennata ricerca dell’estremo, che a sua volta continua ad allontanarsi come la soglia di tolleranza di un tossico. Il cinema mumblecore è estremo nella sua estetica, ma anche nella consapevolezza che ha di sé stesso e della crisi esistenziale della propria generazione. Le loro storie barcollano in una rete di relazioni amorose ambigue e totalmente instabili, e che riescono a manifestarsi nel mondo reale solo attraverso il sesso. Il rapporto fisico diventa l’unico modo di dimostrare a sé stessi che si è ancora in grado di sentire qualcosa, ma anche questo, svuotato dalla ripetizione e dal sentimento, sfocia con il tempo prima in una delusione senza eguali, e poi in frustrazione autocommiserativa.
In Kissing on the Mouth, la scena in cui il personaggio interpretato da Swanberg si masturba in doccia ci viene presentata con lo stesso voyeurismo e intimità di un video su Youtube. In Dance Party, USA due adolescenti creano un legame affettivo dopo che a una festa lui le confessa di aver stuprato una quattordicenne. In Green, la protagonista viene perseguitata da visioni della amica che pratica sesso orale sul compagno. E in Humpday, due amici intenti a dimostrare di aver preso le scelte giuste nella vita si ritrovano in una stanza d’albergo a girare un porno insieme per difendere il proprio orgoglio. Il sesso ha un ruolo destabilizzante non per il pubblico che lo osserva ma per i personaggi rinchiusi nei film, il cui processo di crescita è legato alla disillusione, alla presa di coscienza che non esiste un ordine e che, anche redendocene conto, non smetteremo mai di cercarlo.
A differenza del Dogme 95, che in quanto a credo si avvicinerebbe anche al mumblecore, la proliferazione di quest’ultimo rispetto al primo si deve probabilmente all’organicità da cui è nato. Più che una presa di posizione, la scelta di girare tutto in digitale era una necessità, come lo era anche la rotazione dei ruoli dietro e davanti l'obiettivo. Praticamente tutti hanno recitato nei propri film e nei film degli altri, oltre che a coprire ruoli d’assistente alla regia e al montaggio, fino a occuparsi persino della distribuzione (di solito limitata allo spaccio di DVD fatti in casa). Gli attori spesso venivano riconosciuti anche come sceneggiatori e alla fine, nonostante ci sia sempre una chiara intenzione autoriale dietro i film, quella che emerge più chiaramente è la visione di una generazione.
Dopo qualche anno passato a fare film con una continuità realizzativa bergmaniana, la fine del mumblecore sopraggiunge con altrettanta naturalità nel 2012, con l’uscita di un film dal titolo stranamente simile al primo di Bujalski: Frances Ha. Nonostante alcune affinità tematiche, Noah Baumbach non viene solitamente accostato al genere mumblecore, ed è proprio questo che lo rende in grado di tagliare la testa all’idra. Frances Ha rappresenta un punto sia d’incontro che di non ritorno, in cui il mumblecore finisce per essere assorbito nel vasto e sconfinato universo del cinema indie non-meglio-specificato. Il film presenta quasi tutti gli elementi del genere – da una protagonista abbandonata a sé stessa e al mondo, al ruolo di attrice-sceneggiatrice di Greta Gerwig, fino alla fotografia affidata a una camera commerciale e lenti non cinematografiche. Il punto è che il film, che è costato 3 milioni di dollari, aveva il budget per andare ben oltre questa dimensione del cinema bricolage. E anche se in un certo senso Frances Ha è il miglior film mumblecore di sempre, arrivati a quel punto era chiaro a tutti che continuare a fare i film in quel modo non avrebbe avuto alcun senso se non quello di una sterile autocelebrazione. Il fatto che non sia successo sostiene l'onestà intellettuale del movimento, la cui sopravvivenza alla fine è stata determinata più dalle strutture economiche del sistema che da quelle artistiche.
L’estinzione del mumblecore negli Stati Uniti non avrebbe dovuto precludere una sua seconda vita al di fuori dei confini nazionali, che però non ha mai veramente preso piede. Oltre a qualche esempio danese (Dark Horse, 2005) e una corrente tedesca (Berlin Mumblecore, che a sua difesa ha stilato persino un manifesto), la fiamma del cinema fai-da-te si è spenta come un mozzicone di sigaretta sotto i piedi di Frances Ha. Con la stessa tecnologia a disposizione e altrettante storie, altrove non ci si è sentiti in grado di raccontare qualcosa d’interessante senza passare dai canali convenzionali di produzione.
In un’intervista a Broken Record, Brian Eno disse che l’arte che lo ha segnato di più nella vita è stata quella che in un primo momento lo ha spinto a dire: “L’avrei potuto fare io.” Perché se qualcosa riesce a emozionarci nonostante la sua apparente semplicità, il velo di mistero che separa l’arte dallo spettatore rimane inviolato, e questo ci obbliga a continuare a cercare delle risposte. Il mumblecore ci lascia in uno stato confusionale simile, in cui l’irriconoscibilità di questo cinema è in grado di ridefinirne i parametri, e con una domanda che a vent’anni di distanza è ancora necessario porci: “L’avrei potuto fare io. E allora perchè non l’ho fatto?”
Mumblecore watchlist: Funny Ha Ha (2002); Mutual Appreciation (2005); The Puffy Chair (2005); Dance Party, USA (2006); Hannah Takes the Stairs (2007); Medicine for Melancholy (2008); The Pleasure of Being Robbed (2008); Baghead (2008); Humpday (2009); Guy and Madeline on a Park Bench (2010); Cold Weather (2010); Gabi on the Roof in July (2010); Bad Fever (2011); Green (2011); The Color Wheel (2010); All the Light in the Sky (2012); Frances Ha (2012).