a cura di Tobia Cimini e Ludovico Cantisani
NC-101
24.03.2022
Leonora Addio, il primo film di Paolo Taviani dopo la morte del fratello Vittorio, è stato presentato lo scorso febbraio in concomitanza con l’uscita nelle sale italiane al Festival del Cinema di Berlino, dove ha vinto il premio FIPRESCI.. Interpretato da Fabrizio Ferracane, dopo Kaos e Tu ridi questo nuovo Leonora Addio rappresenta una terza incursione dei Taviani nell’immaginario di Luigi Pirandello. La prima parte del film, in bianco e nero, racconta la grottesca vicenda delle sue ceneri, mentre l’ultimo atto mette in scena, con colori quasi pastellati, Il chiodo, una delle ultime novelle pirandelliane. Per problematiche legate al Coronavirus, Leonora Addio è stato co-firmato da due direttori della fotografia di generazioni diverse: Simone Zampagni, collaboratore ormai storico dei Taviani, ha fotografato Il chiodo, mentre Paolo Carnera, noto internazionalmente per la serie tv Gomorra e più recentemente acclamato per la sua collaborazione con i fratelli D’Innocenzo, ha girato il primo atto in bianco e nero.
Simone, la tua collaborazione con i Taviani è ormai piuttosto lunga. Com’è cominciata?
Zampagni: Leonora addio è il quarto film che giro con i fratelli Taviani in qualità di direttore della fotografia, ma sui loro set avevo lavorato già da prima. Sono stato a lungo al fianco di Franco Di Giacomo, che ha fotografato diversi loro film, tra cui La notte di San Lorenzo. Ho fatto da assistente operatore in Luisa Sanfelice e sono passato a fare l’operatore di macchina ne La masseria delle allodole. Infine è arrivato Cesare deve morire, che ha rappresentato il mio primo film con loro come direttore della fotografia.
Cesare deve morire fu un film straordinario, che non a caso vinse anche l’Orso d’oro alla Berlinale. Che ricordi hai a dieci anni di distanza?
Zampagni: Ho dei ricordi eccezionali della lavorazione. Al di là dell’onore di firmare la fotografia di un film di quei due signori, anche l’esperienza a livello umano, di contatto con i carcerati, è stata molto forte. Il film è nato da un’idea che è venuta a Paolo e Vittorio dopo aver assistito a uno di questi spettacoli teatrali fatti in carcere, con attori detenuti. All’inizio doveva essere un documentario, poi in corso d’opera è diventato prima un docufilm e poi un film vero e proprio. Non c’era neppure una sceneggiatura, abbiamo girato basandoci su poco più di un soggetto. I soldi erano molto pochi, la produttrice Grazia Volpi impiegò molto tempo a trovare i fondi. Di conseguenza i mezzi erano pochi, così come il materiale tecnico e anche la troupe era ridotta. Essere a contatto con i carcerati dieci ore al giorno è stata un’esperienza molto forte, mangiavamo insieme, ci raccontavano il loro passato, parlavano di rapine come di una cosa normale. È stato impressionante.
Cosa ricordi della premiazione a Berlino?
Zampagni: Vi racconto una vicenda carina. Loro neppure volevano andarci a Berlino, non gli interessava, l’importante era aver fatto il film. Invece siamo stati presi in concorso. Siamo andati tutti lì, abbiamo assistito a una proiezione splendida sullo schermo della Sala Grande del festival. Tornati a Roma, è arrivata la telefonata che li riconvocava a Berlino perché avevano vinto qualcosa, senza però dire cosa. Per loro, che comunque erano anziani, riaffrontare il viaggio non era una cosa semplice. Carlo Chatrian, il direttore della Berlinale, che è un loro grandissimo estimatore, per convincerli si è dovuto inventare un premio alla carriera che non è mai esistito. Credo non gli abbiano detto nulla fino a pochi minuti prima dell’annuncio. Noi seguivamo la premiazione da casa con uno streaming che andava e veniva. Bisogna premettere che quell’anno il grande favorito era La scelta di Barbara di Christian Petzold, un film davvero bello. A sorpresa, invece, gli hanno dato l’Orso d’argento. Ci chiedevamo tutti chi avesse vinto, ma poco prima della proclamazione è saltata la connessione. Quando il video è tornato, ci siamo ritrovati i due fratellini sul palco che si litigavano l’Orso. A quel punto la felicità ha preso il sopravvento. Vincere con un film così sofferto è stata una soddisfazione enorme. Dopo la fatica che hanno fatto per trovare i soldi e il tempo che ci è voluto, è stato davvero un momento bellissimo.
Leonora addio si apre, in calce, con una dedica a Vittorio Taviani, scomparso nel 2018. Tu hai lavorato con loro in coppia e, ora, con il solo Paolo. Come l’hai visto in questa veste di regista unico? Come si relazionavano invece sui set in cui erano ancora presenti entrambi?
Zampagni: La dedica a inizio film è bellissima. Paolo, inaspettatamente, si è comportato da regista forte anche senza il suo compare. Il loro metodo di lavoro era molto preciso: giravano un’inquadratura a testa. La mattina tiravano a sorte con una monetina per decidere chi cominciava. La regola era che chi non girava doveva mettersi al monitor e non aveva diritto a intervenire, mentre chi girava si metteva affianco alla macchina. Capitava spesso che venissi chiamato al monitor per fare da messaggero in incognito. Mi dicevano consigli da proporre all’altro raccomandandosi: “Non dire che te l’ho detto io, fai finta che è un’idea tua!”. Questa dinamica mi ha fatto ricevere sia dei grandi complimenti che dei rimproveri, era molto divertente, anche se mi imbarazzava un poco. Mi ha sempre colpito la simbiosi in cui vivevano. Quando c’era la buona, l’annunciavano insieme, esultando, anche se erano distanti l’uno dall’altro. Vedere Paolo senza Vittorio è stato strano, essendo abituati a vederli sempre in coppia. Lui ha senza dubbio sentito molto la mancanza di suo fratello; dall’altro lato, secondo me, per lui come per Vittorio, girare un film da solo è sempre stato un sogno nel cassetto.
Il Covid è stato un ostacolo per le riprese, tanto che tu non hai più potuto finire il film, giusto?
Zampagni: Sì, la lavorazione è stata molto lunga per molti motivi, il Covid soprattutto, è durata circa due anni. Io purtroppo quando si è ricominciato a girare ero già impegnato in un altro lavoro e non ho potuto continuare. Mi sono perso un grande bianco e nero. Per fortuna mi ha sostituito Paolo Carnera, che ha fatto un lavoro a dir poco eccezionale.
Per quale motivo hai scelto di coinvolgere Paolo Carnera per sostituirti?
Zampagni: La scelta di chiamare Paolo è stata dettata semplicemente dalla sua bravura. Sono un estimatore di Paolo da moltissimo tempo, il suo lavoro mi piace da morire. In più, l’ho reputato caratterialmente una persona adatta a stare vicino a Paolo Taviani, che nella sua semplicità rimane pur sempre un regista non facile.
Paolo, tu come ricordi il coinvolgimento in Leonora addio?
Carnera: A fine agosto 2020, il primo anno di Covid, ci fu un momento in cui eravamo tutti un po’ disoccupati e alla ricerca di progetti. Io avevo da poco finito The White Tiger, un film dalla lavorazione lunga e svoltasi tutta all’estero, quando ho ricevuto una telefonata da Simone. Leonora addio si era interrotto e adesso che riprendevano le riprese lui non lo poteva continuare, mi ha chiesto se potessi sostituirlo. In quel momento ero libero e sono stato ben felice di incontrare Paolo Taviani.
Cosa ha rappresentato per te collaborare con Paolo Taviani?
Carnera: Paolo è uno dei maestri del nostro cinema, e conoscerlo è stata una gioia. Ho avuto la grande fortuna di incontrare non solo un maestro del cinema, ma anche una personalità freschissima. Dall’alto dei suoi ormai novant’anni ogni giorno dimostrava la lucidità, la velocità, il coraggio di un giovane, con allo stesso tempo la cultura e la maturità di un uomo che ha fatto una lunga e bella vita. Ho studiato i film fatti da lui e da Vittorio mentre ero al Centro Sperimentale, tanto più che uno dei miei insegnanti era Roberto Perpignani, montatore di tutti i film dei Taviani e anche di questo. Così mi sono trovato sorprendentemente e meravigliosamente a dover girare la prima parte di Leonora addio in bianco e nero, una scelta che era già stata presa prima del mio arrivo. Ho girato tutto quello che c’era da girare in bianco e nero e anche l’inquadratura della transizione al colore. La parte finale del film, ispirata alla novella Il chiodo, invece, è interamente di Simone, ed è a colori.
La collaborazione con Simone come si è svolta?
Carnera: Prima che iniziassi a girare io e Simone ci siamo sentiti, abbiamo parlato molto, soprattutto di Paolo, di come collaborare con lui, del giusto atteggiamento da avere nei confronti di una produzione che non era ricchissima e che aveva bisogno di una certa elasticità. Durante la lavorazione della mia parte del film non ci siamo sentiti, ma il grosso del lavoro a due c’è stato dopo, nella post-produzione: io ho fatto la mia parte di color, lui la sua, abbiamo rivisto assieme il film, lo abbiamo rivisto anche con Paolo e poi abbiamo lavorato assieme ai VFX. Siccome il film si era interrotto l’episodio di Simone era stato pre-montato e ho avuto modo di vederlo. Nella transizione però ho seguito soprattutto un flusso. Il colore, almeno inizialmente, che ho utilizzato nella transizione era meno saturo rispetto a quello che Simone aveva usato nel suo episodio; ma lui a sua volta in color correction ha un po’ depotenziato la colorimetria de Il chiodo, non per imitarmi ma perché ha trovato un bell’equilibrio in post-produzione. È stata una totale collaborazione, nell’autonomia di due episodi che fortunatamente erano separati: sarebbe stato più difficile dover integrare un film a blocco unico, per dire. Collaborare con Simone è stato molto bello.
Con quale macchina da presa e con quale o quali set di lenti è stato girato il film? Ci sono state differenze, dal punto di vista tecnico e tecnologico, tra il primo atto in bianco e nero fotografato da Carnera e il secondo atto a colori di Simone?
Zampagni: La mia parte l’abbiamo girata in Alexa, utilizzando per alcune scene due macchine da presa contemporaneamente, e con un set di lenti Ultraprime.
Carnera: Io ho continuato con il pacchetto tecnico che aveva scelto Simone: un’Alexa, due in alcune scene, e un set di lenti Ultraprime. Per alcune sequenze ho aggiunto un gruppo di lenti Zeiss Uncoated, prive del trattamento antiriflesso, il che conferisce all’inquadratura un aspetto più “vecchiotto” perchè hanno un’estetica un po’ più vintage. Le ho utilizzate soprattutto per la scena del capezzale di Pirandello, e anche in alcune sequenze e inquadrature nei luoghi del potere, come il Palazzo Venezia di Mussolini. La scena con Pirandello moribondo richiedeva secondo me un tono un po’ “bergmaniano”, se vogliamo, come atmosfera, e quelle lenti si prestavano bene a ricordare la straordinaria bellezza delle immagini di Sven Nyviskt.
Seguiamo l’ordine del montaggio del film, e partiamo dalla vicenda delle ceneri di Pirandello fotografata da Carnera, con Ferracane protagonista. Il bianco e nero in digitale che sfida è?
Carnera: Non lo so, so solo che adesso vorrei fare un altro film in bianco e nero! Credo che il bianco e nero sia molto difficile: l’aspetto più complesso, che dovrebbe essere fatto in preparazione, sta nel coordinare costumi, fotografia e scenografia. Essendosi ormai da decenni impostosi il cinema a colori, non sappiamo più che cosa dobbiamo fare con i colori dei vestiti e degli oggetti di scena quando si torna a girare in bianco e nero. In alcuni momenti delle riprese, mi sono accorto che era difficile per gli altri collaboratori concepire a monte un film per essere girato in bianco e nero. Potendo, sarebbe stato interessante pensare prima a che tipo di grigio risulta scegliendo di volta in volta un nero, un verde, un blu, un giallo. Le scenografie e il rapporto tra scenografie e costumi è sempre molto importante per la fotografia, ma è doppiamente importante in un film così. Poi la bellezza del bianco e nero risolve ogni cosa: è difficile fare un film brutto in bianco e nero.
Il tuo metodo di lavoro si basa molto poco sulla LUT, il bianco e nero però in qualche modo la imponeva. È stata una limitazione?
Carnera: Giravo con una macchina a colori, con una LUT che trasformava in bianco e nero. La LUT è stata lavorata da Andrea Baracca, detto “Red”, il mio colorist di fiducia, anche se la color correction del film nel suo complesso è stata fatta con Daniele Cipriani, che già aveva iniziato il film con Simone. Non ho potuto, come anche mi avrebbe fatto piacere, girare con una macchina monochrome, che avrebbe reso l’immagine subito in bianco e nero, perché l’episodio era ricco di effetti speciali, e avevamo tanti green. I VFX erano complessi: c’erano tante variabili in gioco: tutti i contributi dei finestrini del treno, ad esempio, dovevano essere aggiunti in post-produzione, la stanza di Pirandello nel vuoto, la transizione dei figli da giovani a vecchi.
Simone, tu hai fotografato la seconda parte del film, Il chiodo, tratta da uno degli ultimi racconti di Pirandello e ambientata negli Stati Uniti dei primi decenni del ‘900. A cosa avete scelto di ispirarvi per ricostruire l’epoca e come ti sei coordinato con il reparto scenografia e quello degli effetti speciali?
Zampagni: Io e Paolo ne abbiamo iniziato a discutere molto tempo prima dell’inizio della lavorazione. Abbiamo fatto una ricerca fotografica sulla New York degli anni ’30 e ’40, sapendo di poter contare su una grandissima scenografa, Emita Frigato, una delle più brave in assoluto. I primi input sono arrivati quindi dalle foto dell’epoca e il passo successivo è stato la scelta delle location. Alla fine abbiamo optato per il Backlot di Cinecittà. È stato una sorta di lavoro a tre mani. Una volta individuata l’inquadratura con la giusta luce e i giusti elementi, con Emita e Mario Zanot, che si è occupato dei VFX, abbiamo costruito lo scenario per il momento della lotta delle bambine. A livello di immagine, anche dopo le riprese, ci sono stati molti cambiamenti. I piani di costruzione sono stati tre: le costruzioni fisiche della scenografia, le aggiunte in digitale e ovviamente tutto ciò che è inerente alla fotografia, come ad esempio il look quasi infernale. C’è però voluto del tempo, inizialmente l’immagine era anche più tenebrosa di quello che è stato il risultato finale.
Il film rimane ancorato ai capisaldi del cinema dei fratelli Taviani, dall’amore per Pirandello alla regia asciutta. Da collaboratore di lungo corso, tu, Simone, che sguardo hai sul loro cinema?
Zampagni: Sì, Leonora addio è pienamente un film dei Taviani, nonostante Paolo l’abbia girato da solo. Ovviamente anche per via di Pirandello, tanto che Il chiodo era già stato sceneggiato molti anni fa per inserirlo in Kaos, ma poi hanno dovuto tagliarlo. È rimasto nel cassetto per tanti anni e Paolo, per dei motivi che posso immaginare, ha voluto tirarlo fuori. Credo che girare questo racconto che avevano scritto insieme e non erano riusciti a fare è come un’ulteriore dedica, un omaggio.
Ancora una volta, siamo davanti a una dichiarazione d’amore per Pirandello da parte del cinema dei Taviani. Che rapporto tu, Paolo, hai con questo autore e perché credi si sia sposato così bene con la poetica di questa coppia di registi?
Carnera: Pirandello è sicuramente una delle pietre fondanti della cultura. Sinceramente non avevo letto Il chiodo, conoscevo altri racconti e soprattutto le sue opere teatrali, di cui avevo visto qualcosa a teatro. Ancor prima, avevo visto i film dei Taviani tratti da Pirandello, ricordo soprattutto Kaos. Mi interessa molto il modo con cui i Taviani affrontano Pirandello, soffermandosi su quell’idea che la vita sia una sorta di teatro dell’assurdo, che al tempo stesso illustra anche la bellezza del teatro. Di fondo, in questo film, anche se forse meno di altri film dei Taviani, avverto la presenza dell’opera lirica. Qualcosa, della forza dell’opera, c’è sempre, nei loro film, soprattutto a livello della musica, ma anche della libertà. La mescolanza tra attori e non-attori, che i fratelli Taviani hanno sempre realizzato con grande semplicità, ne è un esempio lampante.
Con Paolo Taviani che rapporto si è venuto a creare? Che regista hai trovato e conosciuto?
Carnera: Paolo è uno di quei registi che fa poche inquadrature, solo quelle che gli servono, e pochissimi movimenti di macchina. Con me scherzava a riguardo, gli ho proposto diverse volte dei carrelli, e a volte ha anche accettato: “Ma tu mi fai fare i carrelli? Io ne ho sempre fatti pochi!”. Si è molto divertito girando, è stato sempre presente ovunque sul set. Anche quando abbiamo girato ad Argimusco, il luogo da dove è stata estratta la pietra per il monumento funebre di Pirandello, Paolo ci è arrivato tranquillamente. La sua vitalità è ammirabile, così come quella di Lina Nerli Taviani, sua moglie, costumista del film. Nella vita di tutti i giorni, Paolo non penso farebbe una passeggiata così, ma per il film riusciva a ritrovare senza problemi l’energia di un venticinquenne. Come tutti i grandi registi, sa perfettamente quello che vuole, e quando tu gli mostri un’inquadratura se non è quella che lui aveva in mente ti dice di no. È molto semplice. So che Paolo sta già iniziando a scrivere il prossimo film, non si ferma mai.
Simone, tu che hai lavorato con entrambi i fratelli Taviani e sul set di diversi film, cosa ti ha colpito di più del loro atteggiamento registico?
Zampagni: Lavorando con i Taviani capisci solo a posteriori quello che stai facendo. La loro preparazione non ha mai smesso di stupirmi, anche a livello tecnico. Quando ti indicano punto macchina e obiettivo, tu ti rendi conto guardando in macchina che quella che hai davanti è esattamente l’immagine che ti avevano raccontato. Ma anche nella costruzione, hanno una capacità che non ho mai riscontrato in nessun altro. Partono dal totale e iniziano a comporre dai fondi, come dipingessero, fino ad arrivare sotto macchina. Uno strato alla volta si arriva a quello che dovrebbe essere il fulcro, cioè gli attori. All’inizio non capivo questo loro metodo, ma è come un percorso che passo dopo passo rivela un risultato preciso.
a cura di Tobia Cimini e Ludovico Cantisani
NC-101
24.03.2022
Leonora Addio, il primo film di Paolo Taviani dopo la morte del fratello Vittorio, è stato presentato lo scorso febbraio in concomitanza con l’uscita nelle sale italiane al Festival del Cinema di Berlino, dove ha vinto il premio FIPRESCI.. Interpretato da Fabrizio Ferracane, dopo Kaos e Tu ridi questo nuovo Leonora Addio rappresenta una terza incursione dei Taviani nell’immaginario di Luigi Pirandello. La prima parte del film, in bianco e nero, racconta la grottesca vicenda delle sue ceneri, mentre l’ultimo atto mette in scena, con colori quasi pastellati, Il chiodo, una delle ultime novelle pirandelliane. Per problematiche legate al Coronavirus, Leonora Addio è stato co-firmato da due direttori della fotografia di generazioni diverse: Simone Zampagni, collaboratore ormai storico dei Taviani, ha fotografato Il chiodo, mentre Paolo Carnera, noto internazionalmente per la serie tv Gomorra e più recentemente acclamato per la sua collaborazione con i fratelli D’Innocenzo, ha girato il primo atto in bianco e nero.
Simone, la tua collaborazione con i Taviani è ormai piuttosto lunga. Com’è cominciata?
Zampagni: Leonora addio è il quarto film che giro con i fratelli Taviani in qualità di direttore della fotografia, ma sui loro set avevo lavorato già da prima. Sono stato a lungo al fianco di Franco Di Giacomo, che ha fotografato diversi loro film, tra cui La notte di San Lorenzo. Ho fatto da assistente operatore in Luisa Sanfelice e sono passato a fare l’operatore di macchina ne La masseria delle allodole. Infine è arrivato Cesare deve morire, che ha rappresentato il mio primo film con loro come direttore della fotografia.
Cesare deve morire fu un film straordinario, che non a caso vinse anche l’Orso d’oro alla Berlinale. Che ricordi hai a dieci anni di distanza?
Zampagni: Ho dei ricordi eccezionali della lavorazione. Al di là dell’onore di firmare la fotografia di un film di quei due signori, anche l’esperienza a livello umano, di contatto con i carcerati, è stata molto forte. Il film è nato da un’idea che è venuta a Paolo e Vittorio dopo aver assistito a uno di questi spettacoli teatrali fatti in carcere, con attori detenuti. All’inizio doveva essere un documentario, poi in corso d’opera è diventato prima un docufilm e poi un film vero e proprio. Non c’era neppure una sceneggiatura, abbiamo girato basandoci su poco più di un soggetto. I soldi erano molto pochi, la produttrice Grazia Volpi impiegò molto tempo a trovare i fondi. Di conseguenza i mezzi erano pochi, così come il materiale tecnico e anche la troupe era ridotta. Essere a contatto con i carcerati dieci ore al giorno è stata un’esperienza molto forte, mangiavamo insieme, ci raccontavano il loro passato, parlavano di rapine come di una cosa normale. È stato impressionante.
Cosa ricordi della premiazione a Berlino?
Zampagni: Vi racconto una vicenda carina. Loro neppure volevano andarci a Berlino, non gli interessava, l’importante era aver fatto il film. Invece siamo stati presi in concorso. Siamo andati tutti lì, abbiamo assistito a una proiezione splendida sullo schermo della Sala Grande del festival. Tornati a Roma, è arrivata la telefonata che li riconvocava a Berlino perché avevano vinto qualcosa, senza però dire cosa. Per loro, che comunque erano anziani, riaffrontare il viaggio non era una cosa semplice. Carlo Chatrian, il direttore della Berlinale, che è un loro grandissimo estimatore, per convincerli si è dovuto inventare un premio alla carriera che non è mai esistito. Credo non gli abbiano detto nulla fino a pochi minuti prima dell’annuncio. Noi seguivamo la premiazione da casa con uno streaming che andava e veniva. Bisogna premettere che quell’anno il grande favorito era La scelta di Barbara di Christian Petzold, un film davvero bello. A sorpresa, invece, gli hanno dato l’Orso d’argento. Ci chiedevamo tutti chi avesse vinto, ma poco prima della proclamazione è saltata la connessione. Quando il video è tornato, ci siamo ritrovati i due fratellini sul palco che si litigavano l’Orso. A quel punto la felicità ha preso il sopravvento. Vincere con un film così sofferto è stata una soddisfazione enorme. Dopo la fatica che hanno fatto per trovare i soldi e il tempo che ci è voluto, è stato davvero un momento bellissimo.
Leonora addio si apre, in calce, con una dedica a Vittorio Taviani, scomparso nel 2018. Tu hai lavorato con loro in coppia e, ora, con il solo Paolo. Come l’hai visto in questa veste di regista unico? Come si relazionavano invece sui set in cui erano ancora presenti entrambi?
Zampagni: La dedica a inizio film è bellissima. Paolo, inaspettatamente, si è comportato da regista forte anche senza il suo compare. Il loro metodo di lavoro era molto preciso: giravano un’inquadratura a testa. La mattina tiravano a sorte con una monetina per decidere chi cominciava. La regola era che chi non girava doveva mettersi al monitor e non aveva diritto a intervenire, mentre chi girava si metteva affianco alla macchina. Capitava spesso che venissi chiamato al monitor per fare da messaggero in incognito. Mi dicevano consigli da proporre all’altro raccomandandosi: “Non dire che te l’ho detto io, fai finta che è un’idea tua!”. Questa dinamica mi ha fatto ricevere sia dei grandi complimenti che dei rimproveri, era molto divertente, anche se mi imbarazzava un poco. Mi ha sempre colpito la simbiosi in cui vivevano. Quando c’era la buona, l’annunciavano insieme, esultando, anche se erano distanti l’uno dall’altro. Vedere Paolo senza Vittorio è stato strano, essendo abituati a vederli sempre in coppia. Lui ha senza dubbio sentito molto la mancanza di suo fratello; dall’altro lato, secondo me, per lui come per Vittorio, girare un film da solo è sempre stato un sogno nel cassetto.
Il Covid è stato un ostacolo per le riprese, tanto che tu non hai più potuto finire il film, giusto?
Zampagni: Sì, la lavorazione è stata molto lunga per molti motivi, il Covid soprattutto, è durata circa due anni. Io purtroppo quando si è ricominciato a girare ero già impegnato in un altro lavoro e non ho potuto continuare. Mi sono perso un grande bianco e nero. Per fortuna mi ha sostituito Paolo Carnera, che ha fatto un lavoro a dir poco eccezionale.
Per quale motivo hai scelto di coinvolgere Paolo Carnera per sostituirti?
Zampagni: La scelta di chiamare Paolo è stata dettata semplicemente dalla sua bravura. Sono un estimatore di Paolo da moltissimo tempo, il suo lavoro mi piace da morire. In più, l’ho reputato caratterialmente una persona adatta a stare vicino a Paolo Taviani, che nella sua semplicità rimane pur sempre un regista non facile.
Paolo, tu come ricordi il coinvolgimento in Leonora addio?
Carnera: A fine agosto 2020, il primo anno di Covid, ci fu un momento in cui eravamo tutti un po’ disoccupati e alla ricerca di progetti. Io avevo da poco finito The White Tiger, un film dalla lavorazione lunga e svoltasi tutta all’estero, quando ho ricevuto una telefonata da Simone. Leonora addio si era interrotto e adesso che riprendevano le riprese lui non lo poteva continuare, mi ha chiesto se potessi sostituirlo. In quel momento ero libero e sono stato ben felice di incontrare Paolo Taviani.
Cosa ha rappresentato per te collaborare con Paolo Taviani?
Carnera: Paolo è uno dei maestri del nostro cinema, e conoscerlo è stata una gioia. Ho avuto la grande fortuna di incontrare non solo un maestro del cinema, ma anche una personalità freschissima. Dall’alto dei suoi ormai novant’anni ogni giorno dimostrava la lucidità, la velocità, il coraggio di un giovane, con allo stesso tempo la cultura e la maturità di un uomo che ha fatto una lunga e bella vita. Ho studiato i film fatti da lui e da Vittorio mentre ero al Centro Sperimentale, tanto più che uno dei miei insegnanti era Roberto Perpignani, montatore di tutti i film dei Taviani e anche di questo. Così mi sono trovato sorprendentemente e meravigliosamente a dover girare la prima parte di Leonora addio in bianco e nero, una scelta che era già stata presa prima del mio arrivo. Ho girato tutto quello che c’era da girare in bianco e nero e anche l’inquadratura della transizione al colore. La parte finale del film, ispirata alla novella Il chiodo, invece, è interamente di Simone, ed è a colori.
La collaborazione con Simone come si è svolta?
Carnera: Prima che iniziassi a girare io e Simone ci siamo sentiti, abbiamo parlato molto, soprattutto di Paolo, di come collaborare con lui, del giusto atteggiamento da avere nei confronti di una produzione che non era ricchissima e che aveva bisogno di una certa elasticità. Durante la lavorazione della mia parte del film non ci siamo sentiti, ma il grosso del lavoro a due c’è stato dopo, nella post-produzione: io ho fatto la mia parte di color, lui la sua, abbiamo rivisto assieme il film, lo abbiamo rivisto anche con Paolo e poi abbiamo lavorato assieme ai VFX. Siccome il film si era interrotto l’episodio di Simone era stato pre-montato e ho avuto modo di vederlo. Nella transizione però ho seguito soprattutto un flusso. Il colore, almeno inizialmente, che ho utilizzato nella transizione era meno saturo rispetto a quello che Simone aveva usato nel suo episodio; ma lui a sua volta in color correction ha un po’ depotenziato la colorimetria de Il chiodo, non per imitarmi ma perché ha trovato un bell’equilibrio in post-produzione. È stata una totale collaborazione, nell’autonomia di due episodi che fortunatamente erano separati: sarebbe stato più difficile dover integrare un film a blocco unico, per dire. Collaborare con Simone è stato molto bello.
Con quale macchina da presa e con quale o quali set di lenti è stato girato il film? Ci sono state differenze, dal punto di vista tecnico e tecnologico, tra il primo atto in bianco e nero fotografato da Carnera e il secondo atto a colori di Simone?
Zampagni: La mia parte l’abbiamo girata in Alexa, utilizzando per alcune scene due macchine da presa contemporaneamente, e con un set di lenti Ultraprime.
Carnera: Io ho continuato con il pacchetto tecnico che aveva scelto Simone: un’Alexa, due in alcune scene, e un set di lenti Ultraprime. Per alcune sequenze ho aggiunto un gruppo di lenti Zeiss Uncoated, prive del trattamento antiriflesso, il che conferisce all’inquadratura un aspetto più “vecchiotto” perchè hanno un’estetica un po’ più vintage. Le ho utilizzate soprattutto per la scena del capezzale di Pirandello, e anche in alcune sequenze e inquadrature nei luoghi del potere, come il Palazzo Venezia di Mussolini. La scena con Pirandello moribondo richiedeva secondo me un tono un po’ “bergmaniano”, se vogliamo, come atmosfera, e quelle lenti si prestavano bene a ricordare la straordinaria bellezza delle immagini di Sven Nyviskt.
Seguiamo l’ordine del montaggio del film, e partiamo dalla vicenda delle ceneri di Pirandello fotografata da Carnera, con Ferracane protagonista. Il bianco e nero in digitale che sfida è?
Carnera: Non lo so, so solo che adesso vorrei fare un altro film in bianco e nero! Credo che il bianco e nero sia molto difficile: l’aspetto più complesso, che dovrebbe essere fatto in preparazione, sta nel coordinare costumi, fotografia e scenografia. Essendosi ormai da decenni impostosi il cinema a colori, non sappiamo più che cosa dobbiamo fare con i colori dei vestiti e degli oggetti di scena quando si torna a girare in bianco e nero. In alcuni momenti delle riprese, mi sono accorto che era difficile per gli altri collaboratori concepire a monte un film per essere girato in bianco e nero. Potendo, sarebbe stato interessante pensare prima a che tipo di grigio risulta scegliendo di volta in volta un nero, un verde, un blu, un giallo. Le scenografie e il rapporto tra scenografie e costumi è sempre molto importante per la fotografia, ma è doppiamente importante in un film così. Poi la bellezza del bianco e nero risolve ogni cosa: è difficile fare un film brutto in bianco e nero.
Il tuo metodo di lavoro si basa molto poco sulla LUT, il bianco e nero però in qualche modo la imponeva. È stata una limitazione?
Carnera: Giravo con una macchina a colori, con una LUT che trasformava in bianco e nero. La LUT è stata lavorata da Andrea Baracca, detto “Red”, il mio colorist di fiducia, anche se la color correction del film nel suo complesso è stata fatta con Daniele Cipriani, che già aveva iniziato il film con Simone. Non ho potuto, come anche mi avrebbe fatto piacere, girare con una macchina monochrome, che avrebbe reso l’immagine subito in bianco e nero, perché l’episodio era ricco di effetti speciali, e avevamo tanti green. I VFX erano complessi: c’erano tante variabili in gioco: tutti i contributi dei finestrini del treno, ad esempio, dovevano essere aggiunti in post-produzione, la stanza di Pirandello nel vuoto, la transizione dei figli da giovani a vecchi.
Simone, tu hai fotografato la seconda parte del film, Il chiodo, tratta da uno degli ultimi racconti di Pirandello e ambientata negli Stati Uniti dei primi decenni del ‘900. A cosa avete scelto di ispirarvi per ricostruire l’epoca e come ti sei coordinato con il reparto scenografia e quello degli effetti speciali?
Zampagni: Io e Paolo ne abbiamo iniziato a discutere molto tempo prima dell’inizio della lavorazione. Abbiamo fatto una ricerca fotografica sulla New York degli anni ’30 e ’40, sapendo di poter contare su una grandissima scenografa, Emita Frigato, una delle più brave in assoluto. I primi input sono arrivati quindi dalle foto dell’epoca e il passo successivo è stato la scelta delle location. Alla fine abbiamo optato per il Backlot di Cinecittà. È stato una sorta di lavoro a tre mani. Una volta individuata l’inquadratura con la giusta luce e i giusti elementi, con Emita e Mario Zanot, che si è occupato dei VFX, abbiamo costruito lo scenario per il momento della lotta delle bambine. A livello di immagine, anche dopo le riprese, ci sono stati molti cambiamenti. I piani di costruzione sono stati tre: le costruzioni fisiche della scenografia, le aggiunte in digitale e ovviamente tutto ciò che è inerente alla fotografia, come ad esempio il look quasi infernale. C’è però voluto del tempo, inizialmente l’immagine era anche più tenebrosa di quello che è stato il risultato finale.
Il film rimane ancorato ai capisaldi del cinema dei fratelli Taviani, dall’amore per Pirandello alla regia asciutta. Da collaboratore di lungo corso, tu, Simone, che sguardo hai sul loro cinema?
Zampagni: Sì, Leonora addio è pienamente un film dei Taviani, nonostante Paolo l’abbia girato da solo. Ovviamente anche per via di Pirandello, tanto che Il chiodo era già stato sceneggiato molti anni fa per inserirlo in Kaos, ma poi hanno dovuto tagliarlo. È rimasto nel cassetto per tanti anni e Paolo, per dei motivi che posso immaginare, ha voluto tirarlo fuori. Credo che girare questo racconto che avevano scritto insieme e non erano riusciti a fare è come un’ulteriore dedica, un omaggio.
Ancora una volta, siamo davanti a una dichiarazione d’amore per Pirandello da parte del cinema dei Taviani. Che rapporto tu, Paolo, hai con questo autore e perché credi si sia sposato così bene con la poetica di questa coppia di registi?
Carnera: Pirandello è sicuramente una delle pietre fondanti della cultura. Sinceramente non avevo letto Il chiodo, conoscevo altri racconti e soprattutto le sue opere teatrali, di cui avevo visto qualcosa a teatro. Ancor prima, avevo visto i film dei Taviani tratti da Pirandello, ricordo soprattutto Kaos. Mi interessa molto il modo con cui i Taviani affrontano Pirandello, soffermandosi su quell’idea che la vita sia una sorta di teatro dell’assurdo, che al tempo stesso illustra anche la bellezza del teatro. Di fondo, in questo film, anche se forse meno di altri film dei Taviani, avverto la presenza dell’opera lirica. Qualcosa, della forza dell’opera, c’è sempre, nei loro film, soprattutto a livello della musica, ma anche della libertà. La mescolanza tra attori e non-attori, che i fratelli Taviani hanno sempre realizzato con grande semplicità, ne è un esempio lampante.
Con Paolo Taviani che rapporto si è venuto a creare? Che regista hai trovato e conosciuto?
Carnera: Paolo è uno di quei registi che fa poche inquadrature, solo quelle che gli servono, e pochissimi movimenti di macchina. Con me scherzava a riguardo, gli ho proposto diverse volte dei carrelli, e a volte ha anche accettato: “Ma tu mi fai fare i carrelli? Io ne ho sempre fatti pochi!”. Si è molto divertito girando, è stato sempre presente ovunque sul set. Anche quando abbiamo girato ad Argimusco, il luogo da dove è stata estratta la pietra per il monumento funebre di Pirandello, Paolo ci è arrivato tranquillamente. La sua vitalità è ammirabile, così come quella di Lina Nerli Taviani, sua moglie, costumista del film. Nella vita di tutti i giorni, Paolo non penso farebbe una passeggiata così, ma per il film riusciva a ritrovare senza problemi l’energia di un venticinquenne. Come tutti i grandi registi, sa perfettamente quello che vuole, e quando tu gli mostri un’inquadratura se non è quella che lui aveva in mente ti dice di no. È molto semplice. So che Paolo sta già iniziando a scrivere il prossimo film, non si ferma mai.
Simone, tu che hai lavorato con entrambi i fratelli Taviani e sul set di diversi film, cosa ti ha colpito di più del loro atteggiamento registico?
Zampagni: Lavorando con i Taviani capisci solo a posteriori quello che stai facendo. La loro preparazione non ha mai smesso di stupirmi, anche a livello tecnico. Quando ti indicano punto macchina e obiettivo, tu ti rendi conto guardando in macchina che quella che hai davanti è esattamente l’immagine che ti avevano raccontato. Ma anche nella costruzione, hanno una capacità che non ho mai riscontrato in nessun altro. Partono dal totale e iniziano a comporre dai fondi, come dipingessero, fino ad arrivare sotto macchina. Uno strato alla volta si arriva a quello che dovrebbe essere il fulcro, cioè gli attori. All’inizio non capivo questo loro metodo, ma è come un percorso che passo dopo passo rivela un risultato preciso.