di Omar Franini
NC-97
01.03.2022
Corre l’anno 2025: il conflitto nel Donbass, regione ucraina situata a est, si è concluso da ormai un anno. La popolazione fatica a ritornare a quel senso di normalità tanto agognato. I terreni sono danneggiati, l’acqua scarseggia; i corpi delle vittime sono abbandonati sui terreni del conflitto e i sopravvissuti hanno difficoltà a trovare la motivazione per continuare a vivere.
Quella appena riportata è la sinossi di Atlantis (2019), quinto lungometraggio del regista ucraino Valentyn Vasyanovych, uno dei più interessanti del panorama cinematografico europeo. L’opera, vincitrice come Miglior Film nella sezione Orizzonti della 76ª edizione della Mostra di Venezia, segue le vicende del soldato Sergiy, il quale ha perso tutto in guerra, dalla famiglia alla propria umanità, e ora vaga in queste terre desolate cercando un senso per continuare a vivere. Vasyanovych, attraverso il protagonista del film, cerca di raccontare non solo il trauma di un singolo individuo, ma quello vissuto da un’intera nazione che vaga per un mondo consumato dalla morte e dalla distruzione.
La guerra nel Donbass iniziata nel 2014 e il conseguente conflitto con la Russia sono realtà da sempre presenti nei media, nell’audiovisivo e nella quotidianità dell’Ucraina, tanto che diversi cineasti hanno avuto l’occasione di raccontare le difficoltà della Nazione. Tra essi Sergei Loznitsa con Donbass del 2018, il lituano Šarūnas Bartas con Frost (2017) e la regista Natalya Vorozhbytil nel più recente Bad Roads (2020). La peculiarità di Atlantis risiede però nella propria struttura: Vasyanovych utilizza infatti 28 piani sequenza, la maggior parte di essi tableaux vivant in cui la camera è fissa e nei quali la composizione è curata nei minimi dettagli al fine di trasmettere allo spettatore il medesimo senso di alienazione provato dai personaggi. Si potrebbero citare diverse sequenze che descrivono questo effetto, ma due nello specifico ci sono rimaste impresse: la prima segue un soldato che, tornato dalla guerra e intrapreso un lavoro in fabbrica, è perseguitato dal trauma costante del conflitto e vorrebbe ritornare a combattere uno scontro ormai concluso. L’uomo non ha più uno scopo nella propria vita, non riesce e non vuole continuare un lavoro che non lo appaga e sentendo che la propria fine si sta avvicinando sempre di più, si toglie la vita gettandosi da un ponteggio di una fabbrica. La seconda sequenza segue invece il protagonista, Sergiy, che si trova nella propria stanza a stirare dei vestiti. Improvvisamente poggia il ferro da stiro sulla propria gamba. Un gesto avventato che evidenzia il tentativo dell’uomo di “provare” ancora qualcosa, anche se dolore fisico. Vasyanovych mostra efficacemente il turbamento che sta deteriorando queste persone: la fine del conflitto non ha portato tempi migliori, ma una maggiore desolazione.
Il trauma e l’estraniazione dell’individuo a causa della guerra sono anche al centro di Reflection, il sesto lungometraggio del regista ucraino, presentato in Concorso durante la scorsa edizione della Biennale. Anche se ci sono delle similitudini a livello tematico con la sua precedente opera, le dinamiche tra i personaggi e l’ambientazione spazio-temporale divergono. Innanzitutto, il film è ambientato nel 2014 e segue Serhiy, un chirurgo ucraino che allo scoppio della guerra decide di arruolarsi. Una volta arrivato nella zona del conflitto, l’uomo viene catturato dai militari russi, rinchiuso in uno scantinato ed esposto a terribili scene di umiliazione e tortura. Qui Serhiy sarà costretto ad aiutare in modo inaspettato quanto struggente Andrii, soldato ed attuale marito della sua ex moglie, ponendo fine alle sofferenze provocate dalle torture da parte dei russi. Dopo la liberazione, l’uomo cercherà di ritornare alla sua vecchia vita, ma le atrocità vissute in quel breve periodo di prigionia lo perseguiranno costantemente. Seguendo la stessa struttura rigorosa di Atlantis, Reflection viene costruito attraverso 29 meticolosi piani sequenza con camera fissa, dove ancora una volta Vasyanovych dà la possibilità allo spettatore di comprendere il trauma del protagonista, mostrando anche scene dal forte impatto, come quelle in cui Andrii viene torturato.
Atlantis e Reflection non risulteranno visioni facili ma sono necessarie per comprendere la ferita e la situazione opprimente vissuta dalla popolazione ucraina a causa della guerra del Donbass. Entrambi i film, tuttavia, sono attraversati da un lieve sentimento di speranza: in Atlantis, l’incontro tra Sergiy e una ragazza potrebbe portare per lui a un nuovo inizio, mentre in Reflection, Serhiy cercherà di superare le terribili esperienze vissute grazie al sostegno della propria famiglia.
Il cinema, ancora una volta, si dimostra l’arte che più di tutte non solo è in grado di anticipare scenari apocalittici e socio-politici che a oggi costituiscono il nostro presente, ma anche di rielaborare il vissuto umano legato ai traumi dei conflitti e alle conseguenti modificazioni relazionali tra culture e paesi differenti. Così, il cinema mostra come in qualsiasi angolo di mondo i sentimenti interiori rimangono i medesimi per ogni essere umano, sebbene la storia da lui vissuta differisca dagli altri. Non si hanno ancora notizie sul prossimo progetto di Valentyn Vasyanovych, ma non ci stupirebbe se fosse un’altra opera incentrata sul conflitto tra Russia e Ucraina e sulle conseguenze nelle vite di chi sta affrontando questi eventi in prima persona.
di Omar Franini
NC-97
01.03.2022
Corre l’anno 2025: il conflitto nel Donbass, regione ucraina situata a est, si è concluso da ormai un anno. La popolazione fatica a ritornare a quel senso di normalità tanto agognato. I terreni sono danneggiati, l’acqua scarseggia; i corpi delle vittime sono abbandonati sui terreni del conflitto e i sopravvissuti hanno difficoltà a trovare la motivazione per continuare a vivere.
Quella appena riportata è la sinossi di Atlantis (2019), quinto lungometraggio del regista ucraino Valentyn Vasyanovych, uno dei più interessanti del panorama cinematografico europeo. L’opera, vincitrice come Miglior Film nella sezione Orizzonti della 76ª edizione della Mostra di Venezia, segue le vicende del soldato Sergiy, il quale ha perso tutto in guerra, dalla famiglia alla propria umanità, e ora vaga in queste terre desolate cercando un senso per continuare a vivere. Vasyanovych, attraverso il protagonista del film, cerca di raccontare non solo il trauma di un singolo individuo, ma quello vissuto da un’intera nazione che vaga per un mondo consumato dalla morte e dalla distruzione.
La guerra nel Donbass iniziata nel 2014 e il conseguente conflitto con la Russia sono realtà da sempre presenti nei media, nell’audiovisivo e nella quotidianità dell’Ucraina, tanto che diversi cineasti hanno avuto l’occasione di raccontare le difficoltà della Nazione. Tra essi Sergei Loznitsa con Donbass del 2018, il lituano Šarūnas Bartas con Frost (2017) e la regista Natalya Vorozhbytil nel più recente Bad Roads (2020). La peculiarità di Atlantis risiede però nella propria struttura: Vasyanovych utilizza infatti 28 piani sequenza, la maggior parte di essi tableaux vivant in cui la camera è fissa e nei quali la composizione è curata nei minimi dettagli al fine di trasmettere allo spettatore il medesimo senso di alienazione provato dai personaggi. Si potrebbero citare diverse sequenze che descrivono questo effetto, ma due nello specifico ci sono rimaste impresse: la prima segue un soldato che, tornato dalla guerra e intrapreso un lavoro in fabbrica, è perseguitato dal trauma costante del conflitto e vorrebbe ritornare a combattere uno scontro ormai concluso. L’uomo non ha più uno scopo nella propria vita, non riesce e non vuole continuare un lavoro che non lo appaga e sentendo che la propria fine si sta avvicinando sempre di più, si toglie la vita gettandosi da un ponteggio di una fabbrica. La seconda sequenza segue invece il protagonista, Sergiy, che si trova nella propria stanza a stirare dei vestiti. Improvvisamente poggia il ferro da stiro sulla propria gamba. Un gesto avventato che evidenzia il tentativo dell’uomo di “provare” ancora qualcosa, anche se dolore fisico. Vasyanovych mostra efficacemente il turbamento che sta deteriorando queste persone: la fine del conflitto non ha portato tempi migliori, ma una maggiore desolazione.
Il trauma e l’estraniazione dell’individuo a causa della guerra sono anche al centro di Reflection, il sesto lungometraggio del regista ucraino, presentato in Concorso durante la scorsa edizione della Biennale. Anche se ci sono delle similitudini a livello tematico con la sua precedente opera, le dinamiche tra i personaggi e l’ambientazione spazio-temporale divergono. Innanzitutto, il film è ambientato nel 2014 e segue Serhiy, un chirurgo ucraino che allo scoppio della guerra decide di arruolarsi. Una volta arrivato nella zona del conflitto, l’uomo viene catturato dai militari russi, rinchiuso in uno scantinato ed esposto a terribili scene di umiliazione e tortura. Qui Serhiy sarà costretto ad aiutare in modo inaspettato quanto struggente Andrii, soldato ed attuale marito della sua ex moglie, ponendo fine alle sofferenze provocate dalle torture da parte dei russi. Dopo la liberazione, l’uomo cercherà di ritornare alla sua vecchia vita, ma le atrocità vissute in quel breve periodo di prigionia lo perseguiranno costantemente. Seguendo la stessa struttura rigorosa di Atlantis, Reflection viene costruito attraverso 29 meticolosi piani sequenza con camera fissa, dove ancora una volta Vasyanovych dà la possibilità allo spettatore di comprendere il trauma del protagonista, mostrando anche scene dal forte impatto, come quelle in cui Andrii viene torturato.
Atlantis e Reflection non risulteranno visioni facili ma sono necessarie per comprendere la ferita e la situazione opprimente vissuta dalla popolazione ucraina a causa della guerra del Donbass. Entrambi i film, tuttavia, sono attraversati da un lieve sentimento di speranza: in Atlantis, l’incontro tra Sergiy e una ragazza potrebbe portare per lui a un nuovo inizio, mentre in Reflection, Serhiy cercherà di superare le terribili esperienze vissute grazie al sostegno della propria famiglia.
Il cinema, ancora una volta, si dimostra l’arte che più di tutte non solo è in grado di anticipare scenari apocalittici e socio-politici che a oggi costituiscono il nostro presente, ma anche di rielaborare il vissuto umano legato ai traumi dei conflitti e alle conseguenti modificazioni relazionali tra culture e paesi differenti. Così, il cinema mostra come in qualsiasi angolo di mondo i sentimenti interiori rimangono i medesimi per ogni essere umano, sebbene la storia da lui vissuta differisca dagli altri. Non si hanno ancora notizie sul prossimo progetto di Valentyn Vasyanovych, ma non ci stupirebbe se fosse un’altra opera incentrata sul conflitto tra Russia e Ucraina e sulle conseguenze nelle vite di chi sta affrontando questi eventi in prima persona.