Terrence Malick e la sfida di un
Heidegger cinematografico,
di Ludovico Cantisani
TR-51
07.02.2022
“Dal nulla – tu”. Queste parole del voice-over del documentario Voyage of Time, recentemente approdato su MUBI, sono il riassunto più sintetico possibile del cinema di Terrence Malick. Nato nel 1943 in Texas, Malick è una delle leggende viventi del cinema statunitense contemporaneo – leggenda che, nel suo caso, è strettamente legata a una biografia quantomai enigmatica, certo alimentata dal suo rifiuto di rilasciare interviste o di farsi fotografare.
È nota quella battuta secondo cui “le persone più interessanti che conosco a ventidue anni non sapevano che fare della loro vita, e i quarantenni più interessanti che conosco ancora non lo sanno”. Terrence Malick senza dubbio vi si potrebbe riconoscere. Per la prima parte della sua vita, Malick fu un promettente studioso di filosofia: laureatosi ad Harvard nel 1965, tanto per alzare il tiro si spostò a Oxford per un master, che però non completò. La ragione è semplice ed enigmatica al tempo stesso: pare abbia litigato con il suo tutor riguardo ai contenuti della sua tesi, che sarebbe dovuta vertere sul concetto di mondo tra Kierkegaard, Heidegger e Wittgenstein.
Ritornato negli States, dopo aver insegnato filosofia in una sede prestigiosa come il MIT ed essere stato giornalista freelance per alcune delle più importanti testate americane, Malick decise bruscamente di cambiare vita e di entrare nel mondo del cinema. Diplomatosi rapidamente al conservatorio dell’American Film Institute nel 1969, Malick non tardò a farsi notare nella fiorente industria produttiva dei tempi della New Hollywood. Fu così che nel 1973 esordì con La rabbia giovane, originale gangster story interpretata da Martin Sheen e Sissy Spacek, per poi presentare a Cannes nel 1978 il seminale ed elegiaco I giorni del cielo, a cui si può ricondurre tutta la moda contemporanea della “fotografia naturale”.
Nello stesso 1969 in cui si diplomava all’AFI Conservatory, Malick dava alle stampe anche un libro che fa luce su una delle maggiori influenze culturali alla base del suo cinema. Si tratta di sua una traduzione, accompagnata da una prefazione firmata dallo stesso Malick, del libro L’essenza del fondamento del filosofo tedesco Martin Heidegger, reintitolato per questa edizione americana The Essence of Reason. Nato nel 1889 e morto nel 1976, Martin Heidegger è stato tra i maggiori filosofi del Novecento, responsabile di una grandiosa riformulazione dell’ontologia e di ripetute e approfondite disamine retrospettive che ricostruiscono il pensiero autentico e le eventuali aporie di molti filosofi del passato, da Parmenide a Nietzsche. L’unica certezza che abbiamo, a proposito del rapporto tra Malick ed Heidegger, sta in questa traduzione datata 1969 e pubblicata dalla Northwestern University Press; ma secondo alcune delle varie ricostruzioni tentate a proposito della biografia dello sfuggente regista texano, Malick fu un vero e proprio discepolo, assistente personale e addirittura autista di Heidegger, nell’interregno tra Oxford e Hollywood.
Un eventuale rapporto personale con Heidegger, che a discapito della notorietà ininterrotta della sua opera principale Essere e Tempo negli anni Sessanta e Settanta continuava a essere attaccato per il suo breve legame col nazismo hitleriano, sarebbe in ogni caso un mistero “secondario” all’interno della biografia di Malick. Il suo status attuale di regista di culto, di regista che “non attira fan, ma discepoli” secondo le parole di Antonio Monda, si deve molto anche alla sua improvvisa sparizione dalla scena hollywoodiana, poco dopo l’uscita del suo secondo film. Per più di un decennio, a Hollywood quasi nessuno aveva idea di dove fosse finito il regista de La rabbia giovane e I giorni del cielo. Pare che, parallelamente ai suoi tentativi frustrati di sceneggiare un ambizioso film intitolato Q. sull’origine della vita sulla Terra, Malick si fosse ritirato in Francia, dove concepì e a volte scrisse su commissione una lunga serie di sceneggiature sugli argomenti più disparati – dalle origini della psicoanalisi con Breuer a un possibile biopic su Jerry Lee Lewis – che non divennero mai film. Fu solo al principio degli anni novanta che decise di tornare a Hollywood con l’idea di girare un terzo film, che presto prese forma come l’adattamento di un celebre memoir di un reduce della Guerra del Pacifico.
Quando nel 1998 uscì La sottile linea rossa, il suo modo di fare cinema era cambiato: più spirituale, senza dubbio. Più cristiano, forse. Certo heideggeriano. Dopo il successo riscosso dai suoi primi due film, la sua improvvisa sparizione aveva contribuito a renderlo un vero e proprio mito agli occhi tanto del pubblico quanto dell’industria hollywoodiana, una sorta di equivalente cinematografico di J.D. Salinger, e grazie a questo per La sottile linea rossa Malick aveva potuto godere di uno dei più impressionanti cast corali di sempre, con Jim Caviezel e Sean Penn in prima linea e attori del calibro di John Travolta e George Clooney relegati a meri cameo. La sottile linea rossa raccontava attraverso lo sguardo di diversi soldati e ufficiali lo scontro tra americani e giapponesi, in una delle tante isole del Pacifico teatro di scontro durante la Seconda Guerra Mondiale: il film enfatizzava in maniera particolare il contrasto tra l’anima tormentata dei soldati, costantemente impegnati in scontri che potrebbero sottrarre loro la vita, e la bellezza della natura circostante, ritrovando, nonostante tutto, una fiducia nell’armonia complessiva del cosmo. Vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino del 1998, La sottile linea rossa fu uno dei titoli con più candidature alla successiva edizione degli Oscar.
Cos’era cambiato nello stile di Malick, nello iato di vent’anni esatti che separa i campi texani de I giorni del cielo dalle sanguinose isole Salomone de La sottile linea rossa? Più che un taglio netto, tra la prima parte della filmografia di un Terrence Malick trentenne e tutti i film che seguirono al suo trionfale ritorno ad Hollywood, dal punto di vista stilistico si può notare un forte salto in avanti, che intensifica e spinge fino al parossismo alcune scelte presenti in nuce già nei primi due film. Inquadrature fluide, spesso grandangolari, che accompagnano i personaggi in lunghe camminate senza meta; un certo amore per la backlight e per la luce del Sole all’alba e al tramonto, con una fotografia che, soprattutto negli anni della collaborazione tra Malick ed Emmanuel Lubezki, vuole usare il meno possibile qualsiasi sistema di illuminazione artificiale; l’onnipresenza dei voice-over che, non per forza attribuibili ai personaggi in scena, esplicitano stati d’animo e interrogazioni esistenziali più che raccontare sequenzialmente una storia a mo’ di voce narrante, come già accadeva ne I giorni del cielo.
Queste caratteristiche stilistiche resero il cinema di Malick unico e immediatamente riconoscibile già ai tempi de La sottile linea rossa, seguito nel 2005 da The New World; con The Tree of Life, Malick radicalizzò ulteriormente il suo stile, ormai diventato un vero e proprio linguaggio a sé rispetto al canone cinematografico comune, aprendo i propri film a una dimensione di vero e proprio flusso di coscienza su schermo, in cui non è difficile che la quotidianità di una famiglia nel Texas degli anni cinquanta si alterni alle immagini di lotte tra dinosauri. Dopo The Tree of Life, Malick mise in lavorazione una trilogia di film stilisticamente vicini e girati a breve distanza l’uno dall’altro, To the Wonder, Knight of Cups e Song to Song, tre racconti di lotte esistenziali che si fanno via via sempre più corali, con una macchina da presa che indulge più sulla contemplazione che sulla narrazione; col più recente A Hidden Life Malick sembra essere tornato a una forma più narrativa, con un vero e proprio biopic di impianto storico.
La ventennale assenza di Malick dall’industria produttiva americana gli aveva dato il tempo di individuare una forma stilistica unica e originalissima che nel tempo ha attirato tanto ammiratori quanto detrattori, ma che ha saputo influenzare silenziosamente il cinema statunitense degli ultimi vent’anni, lasciando tracce anche in titoli insospettabili come i cinecomics di Zack Snyder o di Chloé Zhao. Ciò che rende particolarmente interessante un’analisi stilistica e tematica del cinema di Terrence Malick sta nello scoprire come molte delle particolarità del suo modo di fare cinema e gran parte dei punti fermi delle architetture concettuali dei suoi film rappresentino un tentativo spesso molto efficace di tradurre in un linguaggio cinematografico l’immaginario filosofico heideggeriano. Quella di Malick è una vera e propria scommessa: così come nel 1969 aveva tradotto dal tedesco all’inglese L’essenza del fondamento, da La sottile linea rossa fino almeno a Song to Song Malick cerca di trasporre dal filosofico al cinematografico i concetti fondanti della visione che Heidegger aveva sul mondo e sull’uomo.
Come si può spiegare in poche parole la filosofia di Heidegger, tra i pensatori più complessi ed influenti del Novecento? Soffermandoci soprattutto su Essere e Tempo del 1927, dal quale pure Heidegger cercò in qualche modo di discostarsi dopo un po’, possiamo dire che la filosofia heideggeriana parte dall’uomo, identificato come il soggetto che si chiede cosa sia l’Essere. Questo suo interrogarsi fa sì che lo stare al mondo dell’uomo non sia inconsapevole e immediato, ma sia un attivo Esserci, che si proietta in una progettualità rispetto alle cose del mondo. Se la tecnica, sempre più esecrata da Heidegger negli scritti del dopoguerra che risentirono anche dello shock dell’atomica, mira a impadronirsi strumentalmente del mondo fino a svuotarlo di significato, in realtà l’uomo stesso è, secondo il filosofo, gettato al mondo e alla vita. Tutti noi nasciamo in un mondo che esiste da molto tempo prima di lui e che è destinato a proseguire anche dopo la sua morte; limitati dalla nostra finitezza, solo col pensiero possiamo arrivare alla libertà che le brutture e la banalità del mondo ci preclude. L’Esserci quindi è sospeso tra un’ansia di una trascendenza e le costrizioni a cui è soggetto, costrizioni innanzitutto naturali: secondo Heidegger, uno dei passi imprescindibili perché il soggetto raggiunga un’Esistenza autentica sta proprio nell’accettazione della mortalità.
Per chi ama il filosofo tedesco, gran parte della bellezza e dell’emozione che si prova dalla lettura di Essere e Tempo deriva dal fatto che, con un linguaggio particolarissimo e quasi poetico, Heidegger vi traspone esperienze della quotidianità di ciascuno in un linguaggio trascendente e universale: la stessa qualità che trasuda dal cinema di Malick che, soprattutto in film come To the Wonder o Song to Song, propone uno sguardo sulla quotidianità di pura trascendenza e redenzione. Tanto Heidegger quanto Malick nei loro rispettivi linguaggi dimostrano di avere uno sguardo che accarezza il mondo e la natura andando al tempo stesso “oltre”, verso una considerazione generale dell’Essere nel caso di Heidegger, verso l’esplicitazione anche visiva di un’armonia universale e di un’unione degli opposti nel caso di Malick. Per fare un esempio concreto: Voyage of Time mostra tanto il Big Bang quanto l’eventuale Big Crunch futuro, soffermandosi nel mezzo anche sulla formazione delle galassie, sull’estinzione dei dinosauri e su alcuni istanti della vita di uno specifico nativo indigeno del Pacifico.
L’affinità e la filiazione tra Heidegger e Malick non è però una mera questione di sguardo e di grandangolarità di vedute: la vicinanza tra i due si consuma anche su un livello tematico, nelle singole storie dei protagonisti malickiani che vengono alla luce dal marasma di inquadrature e di spunti con cui ogni suo film ipnotizza lo spettatore. Tutto il cinema di Malick, soprattutto da La sottile linea rossa in poi e ancor di più dopo The Tree of Life, racconta la ricerca della propria identità nel mondo, e le suggestioni di questi film possono essere meglio capite proprio in riferimento al lessico base della filosofia di Heidegger. Molti dei protagonisti di Malick sono infatti preda di un’angoscia esistenziale, di una consapevolezza soffocante della vacuità del mondo che li circonda, sia che si tratti del performante architetto interpretato da Sean Penn in The Tree of Life, sia nel caso dell’annoiato sceneggiatore hollywoodiano del Christian Bale di Knight of Cups. Per entrambe queste figure, il ricordo di qualcosa di più grande di noi, la ritrovata fiducia in un legame profondo con l’Universo, rappresenta un punto di svolta salvifico, o quantomeno un elemento di speranza.
Particolarmente in linea con l’universo concettuale heideggeriano è anche l’accettazione della mortalità che molti dei protagonisti di Malick fanno propria. Questo si vede in particolare al termine de La sottile linea rossa: il soldato Witt di Jim Caveziel, che aveva trascorso tutto il film a interrogarsi sul senso della guerra e sull’insensatezza della sua partecipazione ad essa fino a disertare momentaneamente, cade vittima di un cecchino come aveva sempre temuto; reso forte però dalla sua sensibilità spirituale che gli si era acuita nei momenti più duri del conflitto, il suo ultimo pensiero di congedo alla vita non è rabbioso, ma è il ricordo sereno di quando, da disertore, nuotava felice assieme ai bambini indigeni melanesiani. Se al termine di A Hidden Life il protagonista Franz Jägerstätter compie una vera e propria scelta di martirio, nel finale di Song to Song i due protagonisti interpretati da Ryan Gosling e Rooney Mara compiono una scelta esistenziale meno forte ma altrettanto sofferta: abbandonare il mondo della musica, cinico, anarchico e a tratti violento, in cui speravano di diventare celebri come cantautori, per avere una vita più semplice lavorando in campagna come persone comuni. Come anche la stessa enigmatica biografia di Malick pare suggerire, a volte la scelta più autentica è proprio l’abbandono del palco, il ritorno a una quotidianità.
L’aspetto in cui Malick più vistosamente si avvicina al lessico heideggeriano, ricolorandolo però di suggestioni provenienti da molte altre tradizioni culturali, anche orientali, sta nel doppio concetto di gettatezza e di Essere-nel-mondo. Se la gettatezza è quello stato in cui noi umani ci troviamo ad essere, all’oscuro della nostra provenienza e della nostra destinazione, l’Essere-nel-mondo allude all’originaria commistione tra Esserci e mondo: “l’esistenza umana non è qualcosa che stia dapprima isolata in sé e a cui successivamente si aggiunge un mondo, ma è originariamente costituita come un’apertura”, si legge nello storico glossario heideggeriano approntato da Pietro Chiodi. I film di Malick, soprattutto nei loro voice-over e nelle inquadrature grandangolari che spesso e volentieri indugiano sulle bellezze naturali ma che in Knight of Cups e Song to Song sanno trovare anche un fascino nella metropoli, esprimono proprio l’incanto dello stare al mondo, la certezza di un legame profondo tra singolo e universo. E se la gettatezza è intrinsecamente angosciante, e ben espressa da personaggi come il Rick di Knight of Cups o anche i due musicisti interpretati da Gosling e Mara in Song to Song, l’attenzione a tratti sorprendente del cinema di Malick verso l’origine e l’evoluzione dell’Universo e della vita sulla Terra sembra proprio voler dare una risposta alla domanda “da dove veniamo?”. Allo stesso modo, soprattutto nelle visioni paradisiache che si intensificano verso il finale di The Tree of Life, con una spiaggia della salvezza in cui il maturo Sean Penn si riconcilia con la madre e gli altri famigliari ormai morti, il cinema di Malick tenta anche di dare una risposta alla domanda ancora più angosciante “dove andiamo?”.
In una maniera forse sui generis e con evidenti tratti di panteismo, Terrence Malick è un regista religioso, descritto dai suoi collaboratori e amici come un cattolico praticante. Heidegger non era propriamente religioso, ma concluse la sua opera filosofica dicendo che “ormai solo un Dio ci può salvare”; tempo prima aveva fatto suo il compianto nietzschiano dei “duemila anni non un solo nuovo dio!”. Grazie alla feconda contaminazione di immaginari e tradizioni culturali diverse che sta alla base del suo cinema, Malick sembra operare una rilettura cristiana di Heidegger, ma mai in maniera dogmatica: il darwinismo esplicito di The Tree of Life, e la presenza di riferimenti nel recente Knight of Cups all’immaginario della gnosi, l’“eresia eterna” che rappresentava una vera e propria antitesi del cristianesimo ufficiale, rendono difficile la semplificazione di Malick come un regista religioso. Con un richiamo, più che a Dio, a un’idea generica e salvifica di Grazia e armonia cosmica, Malick risponde personalmente a quella che Heidegger, in Che cos’è metafisica?, indica come la madre di tutte le domande: “perché esiste in generale l’ente e non piuttosto il Niente?”. La stessa domanda non a caso viene riverberata dalla voce narrante di Brad Pitt nel documentario IMAX Voyage of Time, che in questi giorni è in onda su MUBI.
Anche decostruendo i riferimenti culturali del suo cinema, Terrence Malick resta un mistero. Ormai sono decenni che fan di tutto il mondo cercano di ricostruire e di chiarire punti oscuri della sua vita - e il suo rapporto con Heidegger è uno di questi. Nel suo ultimo film A Hidden Life Malick affronta peraltro il tema del nazismo, di cui Heidegger negli anni trenta fu brevemente sostenitore per poi allontanarsene: dietro alla ricerca del senso della vita portata avanti in maniera diversa da tutti i protagonisti dei film di Malick, quanto c’è del pensiero, e anche della biografia, del suo maestro? Il film a cui peraltro Malick sta lavorando in questo momento, The Way of the Wind, e che forse arriverà al prossimo Festival di Cannes, è stato presentato come una rielaborazione della vita di Gesù attraverso le sue parabole. Al pensatore ebreo Hans Jonas, allievo di Heidegger prima di dover fuggire negli USA a causa dell’avvento del nazismo, dove poi scrisse il celebre Il concetto di Dio dopo Auschwitz, si deve una disamina della filosofia heideggeriana che mirava a far luce sulle influenze religiose e più specificatamente gnostiche dietro la visione dell’Esserci proposta in Essere e Tempo. Abbiamo già ricordato come soprattutto in Knight of Cups di Malick il richiamo alla gnosi fosse esplicito. Il rapporto tra Malick ed Heidegger non si esaurisce in una serie di traduzioni, prima letterarie e poi cinematografiche, ma si nutre anche di un retroterra comune di interessi e anche di contraddizioni.
Più che cercare di risolvere gli enigmi delle biografie di Heidegger e di Malick, è cruciale cogliere il messaggio profondo che la filosofia dell'uno e il cinema dell'altro rivolgono: prendere in mano la propria vita, trovarle o meglio ancora darle un senso, non cedere ai compromessi a volte lusinghieri di un’“esistenza inautentica” e trovare invece un modo di vivere che coniughi una contemplazione inesausta a un’azione efficace sul mondo. Anche se spesso i film di Malick sono accusati di essere del tutto privi di una trama, improvvisati sul set dal regista e dagli attori, col contribuito dei voice-over è proprio questa la linea narrativa che, da Tree of Life in poi, sembrano seguire: una ricerca di sé lenta e difficile, ma sempre inondata di speranza, da parte di individui colti in un momento di crisi personale, dal Rick di Christian Bale che in Knight of Cups sembra del tutto disgustato della sua proverbiale “bella vita” da sceneggiatore a Hollywood fino al contadino austriaco Franz Jägerstätter che deve scegliere se salvarsi la vita o giurare fedeltà a Hitler. Buon allievo di Kierkegaard ancor prima che di Heidegger, è a questo che si riducono i film di Malick, al lungo preludio di una scelta: e al richiamo, sempre presente, a un senso della vita che non è limitata al nostro mondo, e che a volte concede gli sprazzi di un Oltre.
Terrence Malick e la sfida di un
Heidegger cinematografico,
di Ludovico Cantisani
TR-51
07.02.2022
“Dal nulla – tu”. Queste parole del voice-over del documentario Voyage of Time, recentemente approdato su MUBI, sono il riassunto più sintetico possibile del cinema di Terrence Malick. Nato nel 1943 in Texas, Malick è una delle leggende viventi del cinema statunitense contemporaneo – leggenda che, nel suo caso, è strettamente legata a una biografia quantomai enigmatica, certo alimentata dal suo rifiuto di rilasciare interviste o di farsi fotografare.
È nota quella battuta secondo cui “le persone più interessanti che conosco a ventidue anni non sapevano che fare della loro vita, e i quarantenni più interessanti che conosco ancora non lo sanno”. Terrence Malick senza dubbio vi si potrebbe riconoscere. Per la prima parte della sua vita, Malick fu un promettente studioso di filosofia: laureatosi ad Harvard nel 1965, tanto per alzare il tiro si spostò a Oxford per un master, che però non completò. La ragione è semplice ed enigmatica al tempo stesso: pare abbia litigato con il suo tutor riguardo ai contenuti della sua tesi, che sarebbe dovuta vertere sul concetto di mondo tra Kierkegaard, Heidegger e Wittgenstein.
Ritornato negli States, dopo aver insegnato filosofia in una sede prestigiosa come il MIT ed essere stato giornalista freelance per alcune delle più importanti testate americane, Malick decise bruscamente di cambiare vita e di entrare nel mondo del cinema. Diplomatosi rapidamente al conservatorio dell’American Film Institute nel 1969, Malick non tardò a farsi notare nella fiorente industria produttiva dei tempi della New Hollywood. Fu così che nel 1973 esordì con La rabbia giovane, originale gangster story interpretata da Martin Sheen e Sissy Spacek, per poi presentare a Cannes nel 1978 il seminale ed elegiaco I giorni del cielo, a cui si può ricondurre tutta la moda contemporanea della “fotografia naturale”.
Nello stesso 1969 in cui si diplomava all’AFI Conservatory, Malick dava alle stampe anche un libro che fa luce su una delle maggiori influenze culturali alla base del suo cinema. Si tratta di sua una traduzione, accompagnata da una prefazione firmata dallo stesso Malick, del libro L’essenza del fondamento del filosofo tedesco Martin Heidegger, reintitolato per questa edizione americana The Essence of Reason. Nato nel 1889 e morto nel 1976, Martin Heidegger è stato tra i maggiori filosofi del Novecento, responsabile di una grandiosa riformulazione dell’ontologia e di ripetute e approfondite disamine retrospettive che ricostruiscono il pensiero autentico e le eventuali aporie di molti filosofi del passato, da Parmenide a Nietzsche. L’unica certezza che abbiamo, a proposito del rapporto tra Malick ed Heidegger, sta in questa traduzione datata 1969 e pubblicata dalla Northwestern University Press; ma secondo alcune delle varie ricostruzioni tentate a proposito della biografia dello sfuggente regista texano, Malick fu un vero e proprio discepolo, assistente personale e addirittura autista di Heidegger, nell’interregno tra Oxford e Hollywood.
Un eventuale rapporto personale con Heidegger, che a discapito della notorietà ininterrotta della sua opera principale Essere e Tempo negli anni Sessanta e Settanta continuava a essere attaccato per il suo breve legame col nazismo hitleriano, sarebbe in ogni caso un mistero “secondario” all’interno della biografia di Malick. Il suo status attuale di regista di culto, di regista che “non attira fan, ma discepoli” secondo le parole di Antonio Monda, si deve molto anche alla sua improvvisa sparizione dalla scena hollywoodiana, poco dopo l’uscita del suo secondo film. Per più di un decennio, a Hollywood quasi nessuno aveva idea di dove fosse finito il regista de La rabbia giovane e I giorni del cielo. Pare che, parallelamente ai suoi tentativi frustrati di sceneggiare un ambizioso film intitolato Q. sull’origine della vita sulla Terra, Malick si fosse ritirato in Francia, dove concepì e a volte scrisse su commissione una lunga serie di sceneggiature sugli argomenti più disparati – dalle origini della psicoanalisi con Breuer a un possibile biopic su Jerry Lee Lewis – che non divennero mai film. Fu solo al principio degli anni novanta che decise di tornare a Hollywood con l’idea di girare un terzo film, che presto prese forma come l’adattamento di un celebre memoir di un reduce della Guerra del Pacifico.
Quando nel 1998 uscì La sottile linea rossa, il suo modo di fare cinema era cambiato: più spirituale, senza dubbio. Più cristiano, forse. Certo heideggeriano. Dopo il successo riscosso dai suoi primi due film, la sua improvvisa sparizione aveva contribuito a renderlo un vero e proprio mito agli occhi tanto del pubblico quanto dell’industria hollywoodiana, una sorta di equivalente cinematografico di J.D. Salinger, e grazie a questo per La sottile linea rossa Malick aveva potuto godere di uno dei più impressionanti cast corali di sempre, con Jim Caviezel e Sean Penn in prima linea e attori del calibro di John Travolta e George Clooney relegati a meri cameo. La sottile linea rossa raccontava attraverso lo sguardo di diversi soldati e ufficiali lo scontro tra americani e giapponesi, in una delle tante isole del Pacifico teatro di scontro durante la Seconda Guerra Mondiale: il film enfatizzava in maniera particolare il contrasto tra l’anima tormentata dei soldati, costantemente impegnati in scontri che potrebbero sottrarre loro la vita, e la bellezza della natura circostante, ritrovando, nonostante tutto, una fiducia nell’armonia complessiva del cosmo. Vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino del 1998, La sottile linea rossa fu uno dei titoli con più candidature alla successiva edizione degli Oscar.
Cos’era cambiato nello stile di Malick, nello iato di vent’anni esatti che separa i campi texani de I giorni del cielo dalle sanguinose isole Salomone de La sottile linea rossa? Più che un taglio netto, tra la prima parte della filmografia di un Terrence Malick trentenne e tutti i film che seguirono al suo trionfale ritorno ad Hollywood, dal punto di vista stilistico si può notare un forte salto in avanti, che intensifica e spinge fino al parossismo alcune scelte presenti in nuce già nei primi due film. Inquadrature fluide, spesso grandangolari, che accompagnano i personaggi in lunghe camminate senza meta; un certo amore per la backlight e per la luce del Sole all’alba e al tramonto, con una fotografia che, soprattutto negli anni della collaborazione tra Malick ed Emmanuel Lubezki, vuole usare il meno possibile qualsiasi sistema di illuminazione artificiale; l’onnipresenza dei voice-over che, non per forza attribuibili ai personaggi in scena, esplicitano stati d’animo e interrogazioni esistenziali più che raccontare sequenzialmente una storia a mo’ di voce narrante, come già accadeva ne I giorni del cielo.
Queste caratteristiche stilistiche resero il cinema di Malick unico e immediatamente riconoscibile già ai tempi de La sottile linea rossa, seguito nel 2005 da The New World; con The Tree of Life, Malick radicalizzò ulteriormente il suo stile, ormai diventato un vero e proprio linguaggio a sé rispetto al canone cinematografico comune, aprendo i propri film a una dimensione di vero e proprio flusso di coscienza su schermo, in cui non è difficile che la quotidianità di una famiglia nel Texas degli anni cinquanta si alterni alle immagini di lotte tra dinosauri. Dopo The Tree of Life, Malick mise in lavorazione una trilogia di film stilisticamente vicini e girati a breve distanza l’uno dall’altro, To the Wonder, Knight of Cups e Song to Song, tre racconti di lotte esistenziali che si fanno via via sempre più corali, con una macchina da presa che indulge più sulla contemplazione che sulla narrazione; col più recente A Hidden Life Malick sembra essere tornato a una forma più narrativa, con un vero e proprio biopic di impianto storico.
La ventennale assenza di Malick dall’industria produttiva americana gli aveva dato il tempo di individuare una forma stilistica unica e originalissima che nel tempo ha attirato tanto ammiratori quanto detrattori, ma che ha saputo influenzare silenziosamente il cinema statunitense degli ultimi vent’anni, lasciando tracce anche in titoli insospettabili come i cinecomics di Zack Snyder o di Chloé Zhao. Ciò che rende particolarmente interessante un’analisi stilistica e tematica del cinema di Terrence Malick sta nello scoprire come molte delle particolarità del suo modo di fare cinema e gran parte dei punti fermi delle architetture concettuali dei suoi film rappresentino un tentativo spesso molto efficace di tradurre in un linguaggio cinematografico l’immaginario filosofico heideggeriano. Quella di Malick è una vera e propria scommessa: così come nel 1969 aveva tradotto dal tedesco all’inglese L’essenza del fondamento, da La sottile linea rossa fino almeno a Song to Song Malick cerca di trasporre dal filosofico al cinematografico i concetti fondanti della visione che Heidegger aveva sul mondo e sull’uomo.
Come si può spiegare in poche parole la filosofia di Heidegger, tra i pensatori più complessi ed influenti del Novecento? Soffermandoci soprattutto su Essere e Tempo del 1927, dal quale pure Heidegger cercò in qualche modo di discostarsi dopo un po’, possiamo dire che la filosofia heideggeriana parte dall’uomo, identificato come il soggetto che si chiede cosa sia l’Essere. Questo suo interrogarsi fa sì che lo stare al mondo dell’uomo non sia inconsapevole e immediato, ma sia un attivo Esserci, che si proietta in una progettualità rispetto alle cose del mondo. Se la tecnica, sempre più esecrata da Heidegger negli scritti del dopoguerra che risentirono anche dello shock dell’atomica, mira a impadronirsi strumentalmente del mondo fino a svuotarlo di significato, in realtà l’uomo stesso è, secondo il filosofo, gettato al mondo e alla vita. Tutti noi nasciamo in un mondo che esiste da molto tempo prima di lui e che è destinato a proseguire anche dopo la sua morte; limitati dalla nostra finitezza, solo col pensiero possiamo arrivare alla libertà che le brutture e la banalità del mondo ci preclude. L’Esserci quindi è sospeso tra un’ansia di una trascendenza e le costrizioni a cui è soggetto, costrizioni innanzitutto naturali: secondo Heidegger, uno dei passi imprescindibili perché il soggetto raggiunga un’Esistenza autentica sta proprio nell’accettazione della mortalità.
Per chi ama il filosofo tedesco, gran parte della bellezza e dell’emozione che si prova dalla lettura di Essere e Tempo deriva dal fatto che, con un linguaggio particolarissimo e quasi poetico, Heidegger vi traspone esperienze della quotidianità di ciascuno in un linguaggio trascendente e universale: la stessa qualità che trasuda dal cinema di Malick che, soprattutto in film come To the Wonder o Song to Song, propone uno sguardo sulla quotidianità di pura trascendenza e redenzione. Tanto Heidegger quanto Malick nei loro rispettivi linguaggi dimostrano di avere uno sguardo che accarezza il mondo e la natura andando al tempo stesso “oltre”, verso una considerazione generale dell’Essere nel caso di Heidegger, verso l’esplicitazione anche visiva di un’armonia universale e di un’unione degli opposti nel caso di Malick. Per fare un esempio concreto: Voyage of Time mostra tanto il Big Bang quanto l’eventuale Big Crunch futuro, soffermandosi nel mezzo anche sulla formazione delle galassie, sull’estinzione dei dinosauri e su alcuni istanti della vita di uno specifico nativo indigeno del Pacifico.
L’affinità e la filiazione tra Heidegger e Malick non è però una mera questione di sguardo e di grandangolarità di vedute: la vicinanza tra i due si consuma anche su un livello tematico, nelle singole storie dei protagonisti malickiani che vengono alla luce dal marasma di inquadrature e di spunti con cui ogni suo film ipnotizza lo spettatore. Tutto il cinema di Malick, soprattutto da La sottile linea rossa in poi e ancor di più dopo The Tree of Life, racconta la ricerca della propria identità nel mondo, e le suggestioni di questi film possono essere meglio capite proprio in riferimento al lessico base della filosofia di Heidegger. Molti dei protagonisti di Malick sono infatti preda di un’angoscia esistenziale, di una consapevolezza soffocante della vacuità del mondo che li circonda, sia che si tratti del performante architetto interpretato da Sean Penn in The Tree of Life, sia nel caso dell’annoiato sceneggiatore hollywoodiano del Christian Bale di Knight of Cups. Per entrambe queste figure, il ricordo di qualcosa di più grande di noi, la ritrovata fiducia in un legame profondo con l’Universo, rappresenta un punto di svolta salvifico, o quantomeno un elemento di speranza.
Particolarmente in linea con l’universo concettuale heideggeriano è anche l’accettazione della mortalità che molti dei protagonisti di Malick fanno propria. Questo si vede in particolare al termine de La sottile linea rossa: il soldato Witt di Jim Caveziel, che aveva trascorso tutto il film a interrogarsi sul senso della guerra e sull’insensatezza della sua partecipazione ad essa fino a disertare momentaneamente, cade vittima di un cecchino come aveva sempre temuto; reso forte però dalla sua sensibilità spirituale che gli si era acuita nei momenti più duri del conflitto, il suo ultimo pensiero di congedo alla vita non è rabbioso, ma è il ricordo sereno di quando, da disertore, nuotava felice assieme ai bambini indigeni melanesiani. Se al termine di A Hidden Life il protagonista Franz Jägerstätter compie una vera e propria scelta di martirio, nel finale di Song to Song i due protagonisti interpretati da Ryan Gosling e Rooney Mara compiono una scelta esistenziale meno forte ma altrettanto sofferta: abbandonare il mondo della musica, cinico, anarchico e a tratti violento, in cui speravano di diventare celebri come cantautori, per avere una vita più semplice lavorando in campagna come persone comuni. Come anche la stessa enigmatica biografia di Malick pare suggerire, a volte la scelta più autentica è proprio l’abbandono del palco, il ritorno a una quotidianità.
L’aspetto in cui Malick più vistosamente si avvicina al lessico heideggeriano, ricolorandolo però di suggestioni provenienti da molte altre tradizioni culturali, anche orientali, sta nel doppio concetto di gettatezza e di Essere-nel-mondo. Se la gettatezza è quello stato in cui noi umani ci troviamo ad essere, all’oscuro della nostra provenienza e della nostra destinazione, l’Essere-nel-mondo allude all’originaria commistione tra Esserci e mondo: “l’esistenza umana non è qualcosa che stia dapprima isolata in sé e a cui successivamente si aggiunge un mondo, ma è originariamente costituita come un’apertura”, si legge nello storico glossario heideggeriano approntato da Pietro Chiodi. I film di Malick, soprattutto nei loro voice-over e nelle inquadrature grandangolari che spesso e volentieri indugiano sulle bellezze naturali ma che in Knight of Cups e Song to Song sanno trovare anche un fascino nella metropoli, esprimono proprio l’incanto dello stare al mondo, la certezza di un legame profondo tra singolo e universo. E se la gettatezza è intrinsecamente angosciante, e ben espressa da personaggi come il Rick di Knight of Cups o anche i due musicisti interpretati da Gosling e Mara in Song to Song, l’attenzione a tratti sorprendente del cinema di Malick verso l’origine e l’evoluzione dell’Universo e della vita sulla Terra sembra proprio voler dare una risposta alla domanda “da dove veniamo?”. Allo stesso modo, soprattutto nelle visioni paradisiache che si intensificano verso il finale di The Tree of Life, con una spiaggia della salvezza in cui il maturo Sean Penn si riconcilia con la madre e gli altri famigliari ormai morti, il cinema di Malick tenta anche di dare una risposta alla domanda ancora più angosciante “dove andiamo?”.
In una maniera forse sui generis e con evidenti tratti di panteismo, Terrence Malick è un regista religioso, descritto dai suoi collaboratori e amici come un cattolico praticante. Heidegger non era propriamente religioso, ma concluse la sua opera filosofica dicendo che “ormai solo un Dio ci può salvare”; tempo prima aveva fatto suo il compianto nietzschiano dei “duemila anni non un solo nuovo dio!”. Grazie alla feconda contaminazione di immaginari e tradizioni culturali diverse che sta alla base del suo cinema, Malick sembra operare una rilettura cristiana di Heidegger, ma mai in maniera dogmatica: il darwinismo esplicito di The Tree of Life, e la presenza di riferimenti nel recente Knight of Cups all’immaginario della gnosi, l’“eresia eterna” che rappresentava una vera e propria antitesi del cristianesimo ufficiale, rendono difficile la semplificazione di Malick come un regista religioso. Con un richiamo, più che a Dio, a un’idea generica e salvifica di Grazia e armonia cosmica, Malick risponde personalmente a quella che Heidegger, in Che cos’è metafisica?, indica come la madre di tutte le domande: “perché esiste in generale l’ente e non piuttosto il Niente?”. La stessa domanda non a caso viene riverberata dalla voce narrante di Brad Pitt nel documentario IMAX Voyage of Time, che in questi giorni è in onda su MUBI.
Anche decostruendo i riferimenti culturali del suo cinema, Terrence Malick resta un mistero. Ormai sono decenni che fan di tutto il mondo cercano di ricostruire e di chiarire punti oscuri della sua vita - e il suo rapporto con Heidegger è uno di questi. Nel suo ultimo film A Hidden Life Malick affronta peraltro il tema del nazismo, di cui Heidegger negli anni trenta fu brevemente sostenitore per poi allontanarsene: dietro alla ricerca del senso della vita portata avanti in maniera diversa da tutti i protagonisti dei film di Malick, quanto c’è del pensiero, e anche della biografia, del suo maestro? Il film a cui peraltro Malick sta lavorando in questo momento, The Way of the Wind, e che forse arriverà al prossimo Festival di Cannes, è stato presentato come una rielaborazione della vita di Gesù attraverso le sue parabole. Al pensatore ebreo Hans Jonas, allievo di Heidegger prima di dover fuggire negli USA a causa dell’avvento del nazismo, dove poi scrisse il celebre Il concetto di Dio dopo Auschwitz, si deve una disamina della filosofia heideggeriana che mirava a far luce sulle influenze religiose e più specificatamente gnostiche dietro la visione dell’Esserci proposta in Essere e Tempo. Abbiamo già ricordato come soprattutto in Knight of Cups di Malick il richiamo alla gnosi fosse esplicito. Il rapporto tra Malick ed Heidegger non si esaurisce in una serie di traduzioni, prima letterarie e poi cinematografiche, ma si nutre anche di un retroterra comune di interessi e anche di contraddizioni.
Più che cercare di risolvere gli enigmi delle biografie di Heidegger e di Malick, è cruciale cogliere il messaggio profondo che la filosofia dell'uno e il cinema dell'altro rivolgono: prendere in mano la propria vita, trovarle o meglio ancora darle un senso, non cedere ai compromessi a volte lusinghieri di un’“esistenza inautentica” e trovare invece un modo di vivere che coniughi una contemplazione inesausta a un’azione efficace sul mondo. Anche se spesso i film di Malick sono accusati di essere del tutto privi di una trama, improvvisati sul set dal regista e dagli attori, col contribuito dei voice-over è proprio questa la linea narrativa che, da Tree of Life in poi, sembrano seguire: una ricerca di sé lenta e difficile, ma sempre inondata di speranza, da parte di individui colti in un momento di crisi personale, dal Rick di Christian Bale che in Knight of Cups sembra del tutto disgustato della sua proverbiale “bella vita” da sceneggiatore a Hollywood fino al contadino austriaco Franz Jägerstätter che deve scegliere se salvarsi la vita o giurare fedeltà a Hitler. Buon allievo di Kierkegaard ancor prima che di Heidegger, è a questo che si riducono i film di Malick, al lungo preludio di una scelta: e al richiamo, sempre presente, a un senso della vita che non è limitata al nostro mondo, e che a volte concede gli sprazzi di un Oltre.