Il cammino dei grandi registi europei
nel cinema classico americano,
di Alberto de Carolis Villars
TR-50
31.01.2022
Durante l’epoca delle crociate (XI-XIII d.C) i contatti commerciali tra varie popolazioni costiere si intensificarono a tal punto da produrre dei pidgin che ad oggi molti storici definiscono come «lingue franche». Tramite questi «idiomi» i mercanti e le flotte militari potevano comprendersi più facilmente. Fu così che svariate società si influenzarono a vicenda, creando delle culture ibride: le usanze, i costumi e le arti si fusero assieme forgiando delle visioni del mondo figlie di più civiltà. È incredibile osservare come quest’ancestrale impulso alla «congiunzione culturale» si sia palesato durante il corso del Novecento attraverso la settima arte.
Vi è infatti una stagione del cinema statunitense in cui molti registi europei si insediarono nella mecca del cinema, dando inizio ad un fenomeno denominato proprio come «lingua franca di Hollywood». Dall’inizio degli anni Venti fino alla seconda metà degli anni Quaranta questa sorta di «esodo autoriale» generò un cinema che fondeva le tradizioni poetiche europee con quelle narrative americane in un’affascinante combinazione. Questo connubio trovò il suo momento più fulgido durante la così detta Golden Age hollywoodiana, quando il sistema degli studios andava setacciando l’industria cinematografica europea per importarne i grandi talenti. Fu così che attori, produttori, scenografi, direttori della fotografia, sceneggiatori e appunto registi, partirono alla volta dell’America. Quando, nel corso degli anni Trenta, la situazione politica del vecchio continente degenerò a causa dell’ascesa nazista, Hollywood era divenuta una vera e propria colonia di artisti espatriati. Tedeschi, polacchi e austriaci, ma anche svedesi, francesi e inglesi - che però vi giunsero soprattutto dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale - popolarono il cinema americano.
La «lingua franca di Hollywood» si può paragonare a una spilla giapponese sulla cui estremità è presente un piccolo sonaglio che ha lo scopo di ricordare alla sarta, una volta terminato il lavoro di cucitura, la sua presenza all’interno di un abito. Ebbene, se si scuote attentamente il «tessuto» hollywoodiano, sarà proprio quel delicato tintinnio da spilla giapponese a catturare ogni volta la nostra attenzione, mostrandoci come il cinema degli espatriati sia impregnato dell’arte e della cultura europea. Accettandone - o meglio fingendo di accettarne - le regole, questi «viaggiatori» contribuirono a plasmare, attraverso i suoi grandi mezzi, quella dimensione sognante tipica del cinema classico. La via intrapresa dalla maggior parte dei registi stranieri non fu infatti quella della proclamazione della diversità, dell’affermazione di modelli diversi, quanto piuttosto quella della mimetizzazione. I grandi réalisateurs d’oltreoceano costruirono, per il pubblico americano, una «raffinatezza formale mai troppo spinta» ed una misteriosa «crudeltà nascosta nell’ambiguo gioco delle luci e delle ombre, delle psicologie torbide o turbolente, delle filigrane amarognole» Citazione.
Victor Sjöström e Friedrich Wilhelm Murnau furono di certo i primi, tra i registi «franchi» giunti ad Hollywood, a contribuire alla commistione tra modelli che all’apparenza si escludevano a vicenda. Sul finire degli anni Dieci il cinema americano era pieno di inventiva ma poteva contare su poche griffe registiche veramente riconoscibili; una di queste, e di certo la più autoritaria, era quella di D.W. Griffith, pioniere del montaggio alternato e padre della tecnica cinematografica. Egli però, non era un autore nel senso «romantico» del termine: Griffith, ad oggi, non va osservato come un filmmaker che esprime le sue influenze e la propria personalità tramite le sue opere, ma più come una forza che permette la produzione di testi. Per i registi statunitensi la macchina da presa era un mezzo di sperimentazione tecnica piuttosto che un’espressione del temperamento artistico. Vi era una concezione della settima arte più pratica e meno sacrale. Quando però Sjöström e Murnau girarono le loro prime opere hollywoodiane avevano già maturato una fortissima identità autoriale. Sjöström, di nazionalità svedese, veniva dalla grande stagione del cinema scandinavo mentre Murnau era un caposaldo della corrente espressionista del cinema tedesco. Il loro era uno stile profondamente simbolista, che attingeva dalla tradizione artistica dei loro paesi d’origine.
Il cinema svedese, nel quale Sjöström aveva lavorato prolificamente per oltre un decennio, si contraddistingueva da quello americano per la sua estetica asciutta, la recitazione misurata e la scelta di soggetti che, per la bigotta società statunitense, potevano risultare controversi. Nel 1924, tramite un vantaggioso contratto con il leggendario tycoon della Metro Goldwyn Mayer, Irving Thalberg, il regista realizzò Name the Man (La spada della legge) e He Who Gets Slapped (L’uomo che prende gli schiaffi), i suoi primi film americani. Nello script di He Who Gets Slapped, che si rifà direttamente agli schemi drammaturgici della tragedia greca, si può notare quella «ricercatezza poetica» che egli portò avanti per tutta la sua esperienza di emigrato. Fu quindi grazie ai grandi capitali della major che la poetica naturalista dell’autore ebbe modo di evolversi ed amplificarsi. The Wind (Il vento, 1928) è infatti una pellicola pervasa dal «lirismo stilistico» di Sjöström. L’opera racconta la storia della giovane Letty (Lilian Gish) che, costretta dal neo-sposo ad abitare in un imprecisato deserto americano, rischierà di perdere la ragione a causa dei venti che soffiano incessantemente sulla sua casa. Le forti raffiche, che portano la protagonista a non saper più distinguere la realtà dall’ immaginazione, vengono rappresentate con le sovrimpressioni di un possente cavallo bianco che galoppa nel cielo. È così che, tramite la sintetizzazione dell’immagine, il cineasta rappresenta la potenza del cosmo.
Seastrom - nome con il quale i produttori americani lo avevano ribattezzato - non era affatto estraneo a questa pratica, di cui già aveva fatto un sapiente uso nell’onirico Körkarlen (Il carretto fantasma, 1921). In quel contesto la tecnica della sovrimpressione veniva impiegata per mostrare la carrozza che trasportava nell’oltretomba le anime dei defunti. In The Wind quindi egli perseguì ciò che era una tema ricorrente delle sue opere svedesi: il rapporto uomo - natura. L’uso del paesaggio naturale è un elemento base nella mise en scène del regista, poiché esso amplifica la drammaticità delle situazioni in cui i personaggi agiscono. Come in Terje Vigen (C’era un uomo, 1916) e Berg-Ejvind och hans hustru (I proscritti, 1917), dove le distese di acqua e terra vivono di una forte dimensione comunicativa. Il maestro svedese infuse nel cinema statunitense una spiritualità che si esprimeva a livello estetico.
A differenza di Sjöström, che riuscì a far funzionare la sua parentesi americana fino a decidere egli stesso di tornare in patria quando il sonoro prese definitivamente piede, l’esperienza hollywoodiana di Murnau fu maggiormente travagliata. Il regista raggiunse Los Angeles nel 1927 e la scelta del soggetto della sua prima opera americana ricadde sul racconto Die Reise nach Tilsit (1917) dello scrittore tedesco Hermann Sudermann, ma il film venne battezzato Sunrise: A song of Two Humans (Aurora, 1927). La storia ruota attorno ad una coppia di contadini - interpretati da Janet Gaynor e Charles Farrel - la cui vita viene scossa dall’arrivo di una donna proveniente dalla città.
In Germania Murnau aveva realizzato capolavori come Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (Nosferatu il vampiro, 1922), Der letzte Mann (L’ultima risata, 1924), Herr Tartüff (Tartufo, 1925), Faust (1926) e fu così che il produttore William Fox - anch’egli di origine europea - gli garantì la piena libertà creativa. Questo accordo permise al cineasta di importare negli studios hollywoodiani un nuovo metodo di lavorazione che conferiva una totale centralità al momento in cui il film veniva girato. Egli fece infatti ricostruire sui set della Fox Film un’intera città in modo da avere il massimo controllo di tutti gli elementi scenici. L’estrema - e per l’epoca anomala - dinamicità delle sequenze di Sunrise fu possibile grazie alla costruzione di scenografie che permisero di ottenere dei fluidi movimenti di camera. Tutto era manipolabile in modo da dare l’impressione che la macchina da presa fosse «l’occhio di una persona attraverso la cui mente si osservano gli eventi sullo schermo» Citazione. Sunrise doveva quindi rispecchiare il mondo immaginifico di Murnau con le sue influenze, che andavano dalla pittura romantica di Caspar David Friedrich alla letteratura colta di Johann Wolfgang von Goethe.
Molti registi americani, tra cui Frank Borzage e John Ford, si recarono ad osservare le riprese di Sunrise. Borzage rimase talmente colpito che ripropose nel suo Seventh Heaven (Settimo cielo,1927), oltre che gli interpreti principali, i lunghi e sofisticati movimenti di camera murniani. Nonostante la vittoria di tre Oscar, migliore produzione artistica - equivalente del premio al miglior film di oggi - migliore attrice e miglior fotografia, il film non riscosse il successo sperato e le pellicole successive, 4 Devils (I quattro diavoli, 1928) e Our Daily Bread (Il nostro pane quotidiano, 1930) furono dei flop al botteghino. Amareggiato, il cineasta rescisse il suo contratto con la Fox e partì per la Polinesia in compagnia del grande documentarista Robert J. Flaherty. Lì girò, con fondi indipendenti, Tabù: a story of the South Seas (Tabù, 1931) che colpì i dirigenti Paramount tanto da convincerli a offrirgli un nuovo contratto. Ma egli non riuscì neanche a firmare l’accordo poiché l’11 Marzo del 1931 morì tragicamente a Santa Barbara in un incidente automobilistico.
Se Murnau incarna quel prototipo di regista che trae la sua ispirazione dal momento stesso in cui filma, il celebre Ernst Lubitsch rappresenta un metodo totalmente opposto, che considera le riprese come lo stadio di concretizzazione di un lavoro creativo svolto precedentemente a tavolino. Lubitsch, anch’egli tedesco, introdusse a Hollywood un nuovo approccio al mestiere, fatto di un’attenzione rigorosa per tutte quelle fasi che compongono la realizzazione di un film, dalla stesura del copione fino al lavoro sul set. Nel suo meticoloso metodo di lavorazione era fondamentale che ogni scena fosse preparata nei minimi dettagli. Sbarcò nel «nuovo mondo» verso il 1923 su richiesta della star Mary Pickford. L’attrice era interessata a collaborare con l’autore che, dopo una serie di successi in patria, si era guadagnato la fama di «miglior regista d’Europa». Fu così che girarono insieme Rosita (1923), una storia d’amore ispirata all’opera teatrale Don César de Bazan dei drammaturghi francesi Adolphe d’Ennery e Philippe Dumanoir.
Con un’ironia maliziosa e stravagante, che affondava le sue radici nella tradizione del cabaret berlinese, Lubitsch plasmò una nuova concezione di commedia, divenendo in poco tempo uno degli autori più amati dal pubblico statunitense. Attingendo dalle sue esperienze di cittadino del mondo, creò un cinema poliglotto e culturalmente stratificato. Il personalissimo tono dei suoi film fu battezzato «Lubitsch Touch»: un insieme di svariati elementi - arguzia continentale, feroce sarcasmo nei confronti della frivolezza umana, raffinatezza nella direzione degli attori - presenti nella sua filmografia, che, amalgamati con la giusta misura, davano vita ad un equilibrio comico impeccabile.
Grazie al team di sceneggiatori, preferibilmente europei, di cui seppe contornarsi - tra cui Billy Wilder che in seguito avrebbe raccolto la sua eredità divenendo il nuovo maestro della commedia - il regista realizzò capolavori come The Marriage Circle (Matrimonio in quattro, 1924), Trouble in Paradise (Mancia competente, 1932), Ninotchka (1939), To Be or Not To Be (Vogliamo Vivere!, 1942), e Cluny Brown (Fra le tue braccia, 1946). È quindi indubbio che Lubitsch rappresenti il perfetto esempio dell’artista esule che trova la sua grande fortuna negli Stati Uniti. Hollywood fu enormemente generosa nei confronti di un uomo che seppe mantenere il suo stile pur piegandosi ai criteri delle grandi case di produzione. Morì a Bel Air il 30 novembre del 1947.
Come per Lubitsch, anche per l’inglese Alfred Hitchcock era essenziale tenere sotto controllo ogni fase realizzativa dei propri film. Quando, nel 1939, fu chiamato in California dal produttore David O. Selznik, ebbe un’iniziale difficoltà ad accettare le ferree regole degli studios, che richiedevano ai propri registi di essere inventivi ma non troppo audaci, originali ma non estremi, creativi ma controllati. Il rapporto tra i due uomini divenne, fin da subito, estremamente conflittuale. Selznik era uno dei così detti «re di Hollywood» e tutti, registi, attori, scenografi, sceneggiatori, dovevano sottostare alla sua approvazione. Come però era avvenuto precedentemente per Murnau, Hitchcock era protetto dalla sua fama di «cineasta di talento» giunto in America su invito, ed era quindi nella posizione di pretendere che la sua visione autoriale non fosse intaccata. A proposito del backstage della sua prima opera americana, Rebecca (Rebecca - La prima moglie, 1940), ebbe infatti modo di affermare: «Credo sia stata una fortuna che la reputazione che mi ero guadagnato in Inghilterra mi abbia preceduto, facendo sì che alcune regole fossero interpretate con una certa elasticità» Citazione.
Il regista tentò di preservare quella libertà artistica di cui aveva goduto in Gran Bretagna mantenendo, prima di girare un film, l’abitudine di disegnare personalmente degli storyboard che predisponessero, sequenza per sequenza, le angolazioni di ripresa, la lunghezza delle scene e i movimenti degli attori nel quadro visivo.
Tramite il controllo che esercitava sulla messa in scena, Hitchcock ebbe modo di inserire nei canoni uniformi e ripetitivi del cinema classico una visione del mondo estremamente personale che ruotava attorno al concetto di suspense. I suoi innovativi thriller - che gli fecero guadagnare la fama di maestro del brivido - erano sorretti da una tensione drammatica che provocava negli spettatori la perenne sensazione che qualcosa di terribile potesse accadere da un momento all’altro. Shadow of a Doubt (L’ombra del dubbio, 1943), Lifeboat (Prigionieri dell’oceano, 1944), Rope (Nodo alla gola, 1948), Strangers on a Train (L’altro uomo, 1951), I Confess (Io confesso, 1953) Rear Window (La finestra sul cortile, 1954), The Wrong Man, (Il ladro, 1956) e Vertigo (La donna che visse due volte, 1958) sono film che presentano una perfezione tecnica impareggiabile e un caleidoscopio di psicologie decisamente unico per il cinema statunitense del periodo. La descrizione di una società oscura, segnata dal peccato e dalla colpa, è costantemente tinteggiata da un black humor, tipicamente inglese, al quale il regista non volle mai rinunciare.
Un altro elemento che distaccava la filmografia di Hitchcock da quella dei suoi colleghi americani risiedeva nella caratterizzazione di figure femminili estremamente complesse. La studiosa Tania Modleski, nel suo saggio The Women Who Knew Too Much (1988), riconosce appunto nei female characters hitchcockiani un progressismo rispetto alla condizione delle donne nel patriarcato hollywoodiano. Ad esempio in Suspicion (Il sospetto, 1941) e Notorius (Notorius - L’amante perduta, 1946), l’intera azione dei film è esclusivamente osservata attraverso il punto di vista delle protagoniste. Hitchcock fu un autore pieno di gusto, inventivo e sofisticato, continuò a ottenere grandi successi fino agli anni Sessanta con i raggelanti Psycho (Psyco,1960) e The Birds (Gli uccelli, 1963). Dopo il ritorno a Londra con Frenzy (1972) e la commedia nera Family Plot (Complotto di famiglia, 1976) si spense a Los Angeles il 29 Aprile del 1980.
L’arrivo ad Hollywood del viennese Fritz Lang fu invece la conclusione di una rocambolesca fuga dal regime nazista. Dopo aver diretto pietre miliari come Der Müde Tod (Destino, 1921), Dr. Mabuse, der Spieler (Il dottor Mabuse, 1922), Metropolis (1927), M (M – Il mostro di Düsseldorf, 1931), il regista si lasciava alle spalle una solidissima carriera in Europa. Come era stato per Lubitsch, Lang era divenuto, durante il periodo della repubblica di Weimar, uno degli autori più influenti del cinema tedesco. In una celebre intervista - contenuta nel libro Who the Devil Made It? (Chi ha fatto quel film?, 1997) - Lang raccontò a Peter Bogdanovich dell’improvviso arresto che la sua sfavillante carriera in Germania dovette subire. Nel 1933 il regista prese infatti la decisione di lasciare Berlino per Parigi, dopo che il ministro della propaganda Joseph Goebbels gli offrì di dirigere la nuova industria cinematografica del Terzo Reich. Durante la sua breve permanenza in Francia realizzò il fantasioso Liliom (La leggenda di Liliom, 1934), lungometraggio che ebbe uno scarso successo di pubblico, ma che gli permise di ottenere un contratto con la Metro-Goldwyn-Mayer.
Una volta giunto in America diresse due film dal forte contenuto politico: Fury (Furia, 1936) e You Only Live Once (Sono innocente, 1937), che anticipavano già quei giochi di luce e quelle tinte fosche che in seguito avrebbe adoperato nei i suoi grandi film noir. Come lo stesso Bogdanovich ebbe a dire: «Lang ti ossessionava e ti dava l’impressione di essere lui stesso ossessionato; somigliava un po’ ai supercattivi dei suoi film muti tedeschi».
Fu probabilmente questa personalità conturbante, sommata al pessimismo di aver assistito alla presa di potere di spietati regimi totalitari in moderne società di massa, che lo portarono a firmare dei noir estremamente complessi e personali. The Woman in the Window (La donna del ritratto, 1944), Secret Beyond the Door (Dietro la porta chiusa, 1947), House by the river (Bassa marea, 1950) e Human Desire (La bestia umana, 1954) sono lungometraggi che descrivono la corrotta e repressa borghesia statunitense in maniera impietosa e glaciale.
D’altronde le atmosfere del noir si adattavano perfettamente a quelle del cinema tedesco dell’era di Weimer con i suoi espressionistici effetti visivi ed i suoi cupi stati d’animo. I grandi maestri del noir, in cui Lang può essere annoverato, erano, per la maggior parte, emigrati tedeschi o austriaci. Double Indemnity (La fiamma del peccato, 1944) di Billy Wilder, Phantom Lady (La donna fantasma, 1944) di Robert Siodmak, Vertigine (Laura, 1944) di Otto Preminger e Detour (Detour – Deviazione per l’inferno, 1945) di Edgar G. Ulmer, sono solo una piccola parte dei capolavori che gli europei ci hanno lasciato attraverso questo genere.
Durante la guerra, la rabbia per ciò che stava accadendo in Germania e la collaborazione con il celebre drammaturgo Bertolt Brecht, anch’egli rifugiato politico, lo portarono a realizzare quattro film di propaganda antinazista: Man Hunt (Duello Mortale, 1941), Hangmen also die (Anche i boia muoiono, 1943), Ministry of Fear (Il prigioniero del terrore, 1944) e Cloak and Dagger (Maschere e pugnali, 1946). Questi film presentano, a differenza delle opere interventiste che Hollywood produsse nel medesimo periodo, un’approfondita conoscenza della mentalità di regime, non solo perché Lang aveva conosciuto di persona i vertici nazisti, ma anche perché il suo cinema aveva funestamente predetto, con i suoi diabolici personaggi che progettano la dominazione mondiale, la salita al potere di Hitler. Dopo il crepuscolare ed anomalo western Rancho Notorius (1952) e la trilogia di denuncia sull’influenza distruttiva dei mass media nella società, composta da The Big Heat (Il grande caldo, 1953), While the City Sleeps (Quando la città dorme, 1956) e Beyond a Reasonable Doubt (L’alibi era perfetto, 1956), Lang rimpatriò in Germania. Dopo pochi anni fece ritorno a Los Angeles dove morì il 2 Agosto 1976.
Riscoprire l’importanza che gli autori stranieri hanno ricoperto durante l'età d’oro di Hollywood ci porta a comprendere a pieno un periodo unico e irripetibile nella storia della settima arte. Attraverso il loro «contrabbando culturale» gli europei permisero quella convergenza di influenze, stili ed identità che resero grande il cinema americano. Hollywood è una magnifica illusione e, come ogni illusione, tenta di filtrare gli eventi che le accadono intorno, piccoli o grandi che siano, con trasporto e autoinganno. Servendosi di questo i registi «franchi» furono in grado di narrare, come in un sogno ad occhi aperti, le luci e le tenebre del secolo scorso.
Il cammino dei grandi registi europei
nel cinema classico americano,
di Alberto de Carolis Villars
TR-50
31.01.2022
Durante l’epoca delle crociate (XI-XIII d.C) i contatti commerciali tra varie popolazioni costiere si intensificarono a tal punto da produrre dei pidgin che ad oggi molti storici definiscono come «lingue franche». Tramite questi «idiomi» i mercanti e le flotte militari potevano comprendersi più facilmente. Fu così che svariate società si influenzarono a vicenda, creando delle culture ibride: le usanze, i costumi e le arti si fusero assieme forgiando delle visioni del mondo figlie di più civiltà. È incredibile osservare come quest’ancestrale impulso alla «congiunzione culturale» si sia palesato durante il corso del Novecento attraverso la settima arte.
Vi è infatti una stagione del cinema statunitense in cui molti registi europei si insediarono nella mecca del cinema, dando inizio ad un fenomeno denominato proprio come «lingua franca di Hollywood». Dall’inizio degli anni Venti fino alla seconda metà degli anni Quaranta questa sorta di «esodo autoriale» generò un cinema che fondeva le tradizioni poetiche europee con quelle narrative americane in un’affascinante combinazione. Questo connubio trovò il suo momento più fulgido durante la così detta Golden Age hollywoodiana, quando il sistema degli studios andava setacciando l’industria cinematografica europea per importarne i grandi talenti. Fu così che attori, produttori, scenografi, direttori della fotografia, sceneggiatori e appunto registi, partirono alla volta dell’America. Quando, nel corso degli anni Trenta, la situazione politica del vecchio continente degenerò a causa dell’ascesa nazista, Hollywood era divenuta una vera e propria colonia di artisti espatriati. Tedeschi, polacchi e austriaci, ma anche svedesi, francesi e inglesi - che però vi giunsero soprattutto dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale - popolarono il cinema americano.
La «lingua franca di Hollywood» si può paragonare a una spilla giapponese sulla cui estremità è presente un piccolo sonaglio che ha lo scopo di ricordare alla sarta, una volta terminato il lavoro di cucitura, la sua presenza all’interno di un abito. Ebbene, se si scuote attentamente il «tessuto» hollywoodiano, sarà proprio quel delicato tintinnio da spilla giapponese a catturare ogni volta la nostra attenzione, mostrandoci come il cinema degli espatriati sia impregnato dell’arte e della cultura europea. Accettandone - o meglio fingendo di accettarne - le regole, questi «viaggiatori» contribuirono a plasmare, attraverso i suoi grandi mezzi, quella dimensione sognante tipica del cinema classico. La via intrapresa dalla maggior parte dei registi stranieri non fu infatti quella della proclamazione della diversità, dell’affermazione di modelli diversi, quanto piuttosto quella della mimetizzazione. I grandi réalisateurs d’oltreoceano costruirono, per il pubblico americano, una «raffinatezza formale mai troppo spinta» ed una misteriosa «crudeltà nascosta nell’ambiguo gioco delle luci e delle ombre, delle psicologie torbide o turbolente, delle filigrane amarognole» Citazione.
Victor Sjöström e Friedrich Wilhelm Murnau furono di certo i primi, tra i registi «franchi» giunti ad Hollywood, a contribuire alla commistione tra modelli che all’apparenza si escludevano a vicenda. Sul finire degli anni Dieci il cinema americano era pieno di inventiva ma poteva contare su poche griffe registiche veramente riconoscibili; una di queste, e di certo la più autoritaria, era quella di D.W. Griffith, pioniere del montaggio alternato e padre della tecnica cinematografica. Egli però, non era un autore nel senso «romantico» del termine: Griffith, ad oggi, non va osservato come un filmmaker che esprime le sue influenze e la propria personalità tramite le sue opere, ma più come una forza che permette la produzione di testi. Per i registi statunitensi la macchina da presa era un mezzo di sperimentazione tecnica piuttosto che un’espressione del temperamento artistico. Vi era una concezione della settima arte più pratica e meno sacrale. Quando però Sjöström e Murnau girarono le loro prime opere hollywoodiane avevano già maturato una fortissima identità autoriale. Sjöström, di nazionalità svedese, veniva dalla grande stagione del cinema scandinavo mentre Murnau era un caposaldo della corrente espressionista del cinema tedesco. Il loro era uno stile profondamente simbolista, che attingeva dalla tradizione artistica dei loro paesi d’origine.
Il cinema svedese, nel quale Sjöström aveva lavorato prolificamente per oltre un decennio, si contraddistingueva da quello americano per la sua estetica asciutta, la recitazione misurata e la scelta di soggetti che, per la bigotta società statunitense, potevano risultare controversi. Nel 1924, tramite un vantaggioso contratto con il leggendario tycoon della Metro Goldwyn Mayer, Irving Thalberg, il regista realizzò Name the Man (La spada della legge) e He Who Gets Slapped (L’uomo che prende gli schiaffi), i suoi primi film americani. Nello script di He Who Gets Slapped, che si rifà direttamente agli schemi drammaturgici della tragedia greca, si può notare quella «ricercatezza poetica» che egli portò avanti per tutta la sua esperienza di emigrato. Fu quindi grazie ai grandi capitali della major che la poetica naturalista dell’autore ebbe modo di evolversi ed amplificarsi. The Wind (Il vento, 1928) è infatti una pellicola pervasa dal «lirismo stilistico» di Sjöström. L’opera racconta la storia della giovane Letty (Lilian Gish) che, costretta dal neo-sposo ad abitare in un imprecisato deserto americano, rischierà di perdere la ragione a causa dei venti che soffiano incessantemente sulla sua casa. Le forti raffiche, che portano la protagonista a non saper più distinguere la realtà dall’ immaginazione, vengono rappresentate con le sovrimpressioni di un possente cavallo bianco che galoppa nel cielo. È così che, tramite la sintetizzazione dell’immagine, il cineasta rappresenta la potenza del cosmo.
Seastrom - nome con il quale i produttori americani lo avevano ribattezzato - non era affatto estraneo a questa pratica, di cui già aveva fatto un sapiente uso nell’onirico Körkarlen (Il carretto fantasma, 1921). In quel contesto la tecnica della sovrimpressione veniva impiegata per mostrare la carrozza che trasportava nell’oltretomba le anime dei defunti. In The Wind quindi egli perseguì ciò che era una tema ricorrente delle sue opere svedesi: il rapporto uomo - natura. L’uso del paesaggio naturale è un elemento base nella mise en scène del regista, poiché esso amplifica la drammaticità delle situazioni in cui i personaggi agiscono. Come in Terje Vigen (C’era un uomo, 1916) e Berg-Ejvind och hans hustru (I proscritti, 1917), dove le distese di acqua e terra vivono di una forte dimensione comunicativa. Il maestro svedese infuse nel cinema statunitense una spiritualità che si esprimeva a livello estetico.
A differenza di Sjöström, che riuscì a far funzionare la sua parentesi americana fino a decidere egli stesso di tornare in patria quando il sonoro prese definitivamente piede, l’esperienza hollywoodiana di Murnau fu maggiormente travagliata. Il regista raggiunse Los Angeles nel 1927 e la scelta del soggetto della sua prima opera americana ricadde sul racconto Die Reise nach Tilsit (1917) dello scrittore tedesco Hermann Sudermann, ma il film venne battezzato Sunrise: A song of Two Humans (Aurora, 1927). La storia ruota attorno ad una coppia di contadini - interpretati da Janet Gaynor e Charles Farrel - la cui vita viene scossa dall’arrivo di una donna proveniente dalla città.
In Germania Murnau aveva realizzato capolavori come Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (Nosferatu il vampiro, 1922), Der letzte Mann (L’ultima risata, 1924), Herr Tartüff (Tartufo, 1925), Faust (1926) e fu così che il produttore William Fox - anch’egli di origine europea - gli garantì la piena libertà creativa. Questo accordo permise al cineasta di importare negli studios hollywoodiani un nuovo metodo di lavorazione che conferiva una totale centralità al momento in cui il film veniva girato. Egli fece infatti ricostruire sui set della Fox Film un’intera città in modo da avere il massimo controllo di tutti gli elementi scenici. L’estrema - e per l’epoca anomala - dinamicità delle sequenze di Sunrise fu possibile grazie alla costruzione di scenografie che permisero di ottenere dei fluidi movimenti di camera. Tutto era manipolabile in modo da dare l’impressione che la macchina da presa fosse «l’occhio di una persona attraverso la cui mente si osservano gli eventi sullo schermo» Citazione. Sunrise doveva quindi rispecchiare il mondo immaginifico di Murnau con le sue influenze, che andavano dalla pittura romantica di Caspar David Friedrich alla letteratura colta di Johann Wolfgang von Goethe.
Molti registi americani, tra cui Frank Borzage e John Ford, si recarono ad osservare le riprese di Sunrise. Borzage rimase talmente colpito che ripropose nel suo Seventh Heaven (Settimo cielo,1927), oltre che gli interpreti principali, i lunghi e sofisticati movimenti di camera murniani. Nonostante la vittoria di tre Oscar, migliore produzione artistica - equivalente del premio al miglior film di oggi - migliore attrice e miglior fotografia, il film non riscosse il successo sperato e le pellicole successive, 4 Devils (I quattro diavoli, 1928) e Our Daily Bread (Il nostro pane quotidiano, 1930) furono dei flop al botteghino. Amareggiato, il cineasta rescisse il suo contratto con la Fox e partì per la Polinesia in compagnia del grande documentarista Robert J. Flaherty. Lì girò, con fondi indipendenti, Tabù: a story of the South Seas (Tabù, 1931) che colpì i dirigenti Paramount tanto da convincerli a offrirgli un nuovo contratto. Ma egli non riuscì neanche a firmare l’accordo poiché l’11 Marzo del 1931 morì tragicamente a Santa Barbara in un incidente automobilistico.
Se Murnau incarna quel prototipo di regista che trae la sua ispirazione dal momento stesso in cui filma, il celebre Ernst Lubitsch rappresenta un metodo totalmente opposto, che considera le riprese come lo stadio di concretizzazione di un lavoro creativo svolto precedentemente a tavolino. Lubitsch, anch’egli tedesco, introdusse a Hollywood un nuovo approccio al mestiere, fatto di un’attenzione rigorosa per tutte quelle fasi che compongono la realizzazione di un film, dalla stesura del copione fino al lavoro sul set. Nel suo meticoloso metodo di lavorazione era fondamentale che ogni scena fosse preparata nei minimi dettagli. Sbarcò nel «nuovo mondo» verso il 1923 su richiesta della star Mary Pickford. L’attrice era interessata a collaborare con l’autore che, dopo una serie di successi in patria, si era guadagnato la fama di «miglior regista d’Europa». Fu così che girarono insieme Rosita (1923), una storia d’amore ispirata all’opera teatrale Don César de Bazan dei drammaturghi francesi Adolphe d’Ennery e Philippe Dumanoir.
Con un’ironia maliziosa e stravagante, che affondava le sue radici nella tradizione del cabaret berlinese, Lubitsch plasmò una nuova concezione di commedia, divenendo in poco tempo uno degli autori più amati dal pubblico statunitense. Attingendo dalle sue esperienze di cittadino del mondo, creò un cinema poliglotto e culturalmente stratificato. Il personalissimo tono dei suoi film fu battezzato «Lubitsch Touch»: un insieme di svariati elementi - arguzia continentale, feroce sarcasmo nei confronti della frivolezza umana, raffinatezza nella direzione degli attori - presenti nella sua filmografia, che, amalgamati con la giusta misura, davano vita ad un equilibrio comico impeccabile.
Grazie al team di sceneggiatori, preferibilmente europei, di cui seppe contornarsi - tra cui Billy Wilder che in seguito avrebbe raccolto la sua eredità divenendo il nuovo maestro della commedia - il regista realizzò capolavori come The Marriage Circle (Matrimonio in quattro, 1924), Trouble in Paradise (Mancia competente, 1932), Ninotchka (1939), To Be or Not To Be (Vogliamo Vivere!, 1942), e Cluny Brown (Fra le tue braccia, 1946). È quindi indubbio che Lubitsch rappresenti il perfetto esempio dell’artista esule che trova la sua grande fortuna negli Stati Uniti. Hollywood fu enormemente generosa nei confronti di un uomo che seppe mantenere il suo stile pur piegandosi ai criteri delle grandi case di produzione. Morì a Bel Air il 30 novembre del 1947.
Come per Lubitsch, anche per l’inglese Alfred Hitchcock era essenziale tenere sotto controllo ogni fase realizzativa dei propri film. Quando, nel 1939, fu chiamato in California dal produttore David O. Selznik, ebbe un’iniziale difficoltà ad accettare le ferree regole degli studios, che richiedevano ai propri registi di essere inventivi ma non troppo audaci, originali ma non estremi, creativi ma controllati. Il rapporto tra i due uomini divenne, fin da subito, estremamente conflittuale. Selznik era uno dei così detti «re di Hollywood» e tutti, registi, attori, scenografi, sceneggiatori, dovevano sottostare alla sua approvazione. Come però era avvenuto precedentemente per Murnau, Hitchcock era protetto dalla sua fama di «cineasta di talento» giunto in America su invito, ed era quindi nella posizione di pretendere che la sua visione autoriale non fosse intaccata. A proposito del backstage della sua prima opera americana, Rebecca (Rebecca - La prima moglie, 1940), ebbe infatti modo di affermare: «Credo sia stata una fortuna che la reputazione che mi ero guadagnato in Inghilterra mi abbia preceduto, facendo sì che alcune regole fossero interpretate con una certa elasticità» Citazione.
Il regista tentò di preservare quella libertà artistica di cui aveva goduto in Gran Bretagna mantenendo, prima di girare un film, l’abitudine di disegnare personalmente degli storyboard che predisponessero, sequenza per sequenza, le angolazioni di ripresa, la lunghezza delle scene e i movimenti degli attori nel quadro visivo.
Tramite il controllo che esercitava sulla messa in scena, Hitchcock ebbe modo di inserire nei canoni uniformi e ripetitivi del cinema classico una visione del mondo estremamente personale che ruotava attorno al concetto di suspense. I suoi innovativi thriller - che gli fecero guadagnare la fama di maestro del brivido - erano sorretti da una tensione drammatica che provocava negli spettatori la perenne sensazione che qualcosa di terribile potesse accadere da un momento all’altro. Shadow of a Doubt (L’ombra del dubbio, 1943), Lifeboat (Prigionieri dell’oceano, 1944), Rope (Nodo alla gola, 1948), Strangers on a Train (L’altro uomo, 1951), I Confess (Io confesso, 1953) Rear Window (La finestra sul cortile, 1954), The Wrong Man, (Il ladro, 1956) e Vertigo (La donna che visse due volte, 1958) sono film che presentano una perfezione tecnica impareggiabile e un caleidoscopio di psicologie decisamente unico per il cinema statunitense del periodo. La descrizione di una società oscura, segnata dal peccato e dalla colpa, è costantemente tinteggiata da un black humor, tipicamente inglese, al quale il regista non volle mai rinunciare.
Un altro elemento che distaccava la filmografia di Hitchcock da quella dei suoi colleghi americani risiedeva nella caratterizzazione di figure femminili estremamente complesse. La studiosa Tania Modleski, nel suo saggio The Women Who Knew Too Much (1988), riconosce appunto nei female characters hitchcockiani un progressismo rispetto alla condizione delle donne nel patriarcato hollywoodiano. Ad esempio in Suspicion (Il sospetto, 1941) e Notorius (Notorius - L’amante perduta, 1946), l’intera azione dei film è esclusivamente osservata attraverso il punto di vista delle protagoniste. Hitchcock fu un autore pieno di gusto, inventivo e sofisticato, continuò a ottenere grandi successi fino agli anni Sessanta con i raggelanti Psycho (Psyco,1960) e The Birds (Gli uccelli, 1963). Dopo il ritorno a Londra con Frenzy (1972) e la commedia nera Family Plot (Complotto di famiglia, 1976) si spense a Los Angeles il 29 Aprile del 1980.
L’arrivo ad Hollywood del viennese Fritz Lang fu invece la conclusione di una rocambolesca fuga dal regime nazista. Dopo aver diretto pietre miliari come Der Müde Tod (Destino, 1921), Dr. Mabuse, der Spieler (Il dottor Mabuse, 1922), Metropolis (1927), M (M – Il mostro di Düsseldorf, 1931), il regista si lasciava alle spalle una solidissima carriera in Europa. Come era stato per Lubitsch, Lang era divenuto, durante il periodo della repubblica di Weimar, uno degli autori più influenti del cinema tedesco. In una celebre intervista - contenuta nel libro Who the Devil Made It? (Chi ha fatto quel film?, 1997) - Lang raccontò a Peter Bogdanovich dell’improvviso arresto che la sua sfavillante carriera in Germania dovette subire. Nel 1933 il regista prese infatti la decisione di lasciare Berlino per Parigi, dopo che il ministro della propaganda Joseph Goebbels gli offrì di dirigere la nuova industria cinematografica del Terzo Reich. Durante la sua breve permanenza in Francia realizzò il fantasioso Liliom (La leggenda di Liliom, 1934), lungometraggio che ebbe uno scarso successo di pubblico, ma che gli permise di ottenere un contratto con la Metro-Goldwyn-Mayer.
Una volta giunto in America diresse due film dal forte contenuto politico: Fury (Furia, 1936) e You Only Live Once (Sono innocente, 1937), che anticipavano già quei giochi di luce e quelle tinte fosche che in seguito avrebbe adoperato nei i suoi grandi film noir. Come lo stesso Bogdanovich ebbe a dire: «Lang ti ossessionava e ti dava l’impressione di essere lui stesso ossessionato; somigliava un po’ ai supercattivi dei suoi film muti tedeschi».
Fu probabilmente questa personalità conturbante, sommata al pessimismo di aver assistito alla presa di potere di spietati regimi totalitari in moderne società di massa, che lo portarono a firmare dei noir estremamente complessi e personali. The Woman in the Window (La donna del ritratto, 1944), Secret Beyond the Door (Dietro la porta chiusa, 1947), House by the river (Bassa marea, 1950) e Human Desire (La bestia umana, 1954) sono lungometraggi che descrivono la corrotta e repressa borghesia statunitense in maniera impietosa e glaciale.
D’altronde le atmosfere del noir si adattavano perfettamente a quelle del cinema tedesco dell’era di Weimer con i suoi espressionistici effetti visivi ed i suoi cupi stati d’animo. I grandi maestri del noir, in cui Lang può essere annoverato, erano, per la maggior parte, emigrati tedeschi o austriaci. Double Indemnity (La fiamma del peccato, 1944) di Billy Wilder, Phantom Lady (La donna fantasma, 1944) di Robert Siodmak, Vertigine (Laura, 1944) di Otto Preminger e Detour (Detour – Deviazione per l’inferno, 1945) di Edgar G. Ulmer, sono solo una piccola parte dei capolavori che gli europei ci hanno lasciato attraverso questo genere.
Durante la guerra, la rabbia per ciò che stava accadendo in Germania e la collaborazione con il celebre drammaturgo Bertolt Brecht, anch’egli rifugiato politico, lo portarono a realizzare quattro film di propaganda antinazista: Man Hunt (Duello Mortale, 1941), Hangmen also die (Anche i boia muoiono, 1943), Ministry of Fear (Il prigioniero del terrore, 1944) e Cloak and Dagger (Maschere e pugnali, 1946). Questi film presentano, a differenza delle opere interventiste che Hollywood produsse nel medesimo periodo, un’approfondita conoscenza della mentalità di regime, non solo perché Lang aveva conosciuto di persona i vertici nazisti, ma anche perché il suo cinema aveva funestamente predetto, con i suoi diabolici personaggi che progettano la dominazione mondiale, la salita al potere di Hitler. Dopo il crepuscolare ed anomalo western Rancho Notorius (1952) e la trilogia di denuncia sull’influenza distruttiva dei mass media nella società, composta da The Big Heat (Il grande caldo, 1953), While the City Sleeps (Quando la città dorme, 1956) e Beyond a Reasonable Doubt (L’alibi era perfetto, 1956), Lang rimpatriò in Germania. Dopo pochi anni fece ritorno a Los Angeles dove morì il 2 Agosto 1976.
Riscoprire l’importanza che gli autori stranieri hanno ricoperto durante l'età d’oro di Hollywood ci porta a comprendere a pieno un periodo unico e irripetibile nella storia della settima arte. Attraverso il loro «contrabbando culturale» gli europei permisero quella convergenza di influenze, stili ed identità che resero grande il cinema americano. Hollywood è una magnifica illusione e, come ogni illusione, tenta di filtrare gli eventi che le accadono intorno, piccoli o grandi che siano, con trasporto e autoinganno. Servendosi di questo i registi «franchi» furono in grado di narrare, come in un sogno ad occhi aperti, le luci e le tenebre del secolo scorso.