Il cinema come testimonianza
di una trasformazione irreversibile,
di Arturo Garavaglia
TR-47
09.01.2022
Se c’è un regista contemporaneo che ha saputo cogliere alla perfezione i cambiamenti del proprio paese e portarli sul grande schermo secondo uno schema sempre coerente, programmatico e ben definito, questi non può che essere Jia Zhang-ke.
Nato a Fenyang nel 1970, il regista, esponente più noto della cosiddetta sesta generazione del cinema cinese, ha esordito sul grande schermo nel 1997, un anno zero non solo per la propria carriera, ma anche per la storia del proprio paese. Il 1997 è infatti l’anno in cui Hong Kong rientra, dopo anni di protettorato inglese, sotto la sovranità cinese. L’acquisizione della ricca città del sud-est asiatico è punto di arrivo di una politica che, sin dai primi anni ’80, ha perseguito un’apertura al sistema capitalistico e che ora, alle soglie del nuovo millennio, si appresta a farne diventare la Cina una delle principali protagoniste.
Il percorso di Jia Zhang-ke inizia quindi in un anno fondamentale per il paese e per la società che il regista racconterà nel corso della propria carriera, un racconto cinematografico che si evolverà insieme all’evolversi della Cina, contraddistinto da una visione che, dietro alla trasparenza propria del documentario, riesce a cogliere gli aspetti più problematici e drammatici che questi cambiamenti hanno sulla popolazione cinese senza mai assumere apertamente la forma del pamphlet.
Quello di Jia Zhang-ke è infatti, soprattutto, un cinema che tenta di analizzare l’uomo e l’ambiente in cui vive partendo da una prospettiva antropogeografica che mira a cogliere, grazie all’occhio della macchina da presa, ciò che Pasolini definiva la “mutazione antropologica” di un popolo.
Un mutamento lento, ma traumatico, che costruisce se stesso partendo dalla demolizione fisica delle fondamenta di un mondo sentito come vecchio, raccontato da Zhang-ke già nel film d’esordio Xiao Wu (1997), storia di un ladruncolo che si trova improvvisamente senza radici in una società che lo tratta come una maceria da rimuovere. Spaesato e senza alcun punto di riferimento, il protagonista omonimo del film vaga per città che vengono rase al suolo per far posto a nuove costruzioni, in un paesaggio quasi post-apocalittico che denuncia apertamente la furia iconoclasta di una nuova Cina intenzionata a demolire il proprio passato per proiettarsi in un futuro radioso.
In un paesaggio umano e geografico che sembra ormai dominato dal denaro e da profittatori di vario genere, un piccolo e ingenuo borseggiatore, capace di rubare e di accaparrarsi piccole somme di denaro, viene disconosciuto perfino dalla propria famiglia, divorata anch’essa dalla logica della nuova propaganda capitalista. La Cina dipinta da Zhangke è uno stato che, forte dell’annessione di Hong Kong, si appresta a compiere quel “grande balzo in avanti” (opposto a quello teorizzato da Mao, eppure egualmente radicale e devastante nelle proprie conseguenze) che lo spingerà verso un’età dell’oro, non curandosi di chi viene lasciato indietro.
I giovani dei primi film di Jia Zhang-ke sono, in fin dei conti, tante emanazioni dello Xiao Wu del film del 1997, giovani come quelli di Platform (2000), che nel passaggio fra anni ’70 e ’80 vivono sulla propria pelle il cambiamento di un modello politico e sociale senza riuscire a comprenderne le cause, ma subendone le conseguenze fino a omologarsi ad esso. I protagonisti di Unknown Pleasures (2003), esponenti di una generazione che sta vivendo la prima digitalizzazione in un mondo che va globalizzandosi, si ritrovano costretti nella gabbia di un paese che sembra garantire loro tutto, ma che, di fatto, li limita nella propria libertà: sono giovani che hanno smesso di compiere piccoli borseggi per tentare di rapinare banche, giovani pieni di ispirazione e ambizioni, ma costretti a vivere di espedienti per la mancanza di possibilità concrete.
The World (2004) rappresenta il primo film di Jia Zhang-ke riconosciuto e non osteggiato dalla Repubblica Popolare, eppure è proprio in esso che il regista trae la prima sintesi sul cataclisma antropologico messo in scena fin dal proprio film d’esordio.
Protagonisti di quest’opera sono infatti giovani nati negli anni ’80 e diventati maturi in anni in cui la Cina ha adottato formalmente un modello capitalistico e ha aperto le proprie frontiere alla digitalizzazione, pur mantenendo uno stretto controllo sulla popolazione. Ed ecco che gli artisti e le guardie che si trovano a lavorare nel parco dei divertimenti di Pechino in cui, in miniatura, viene riproposto “il mondo intero”, vivono in una perenne stasi sognando una fuga che può essere garantita solo dalla tecnologia, capace di creare altrettanti mondi illusori.
I personaggi sono sospesi fra la volontà di scoprire cosa ci sia effettivamente oltre la caverna platonica rappresentata dal parco The World (emblematiche sono le sequenze in cui gli sms proiettano le aspettative della giovane protagonista verso un universo diverso, rappresentato da animazioni sospese e sognanti) e l’impossibilità, economica e politica, di spostarsi da quello che è, a tutti gli effetti, un non luogo.
Fuori dal parco, moderna culla per le antichità e per i monumenti di tutto il mondo, che la Cina va perdendo, una città che si allarga sempre di più e attrae grandi masse di persone in cantieri che daranno luce a un ancor più grande parco dei divertimenti, la metropoli contemporanea. Un castello di Atlante, fucina di illusioni che poggia su detriti difficilmente rimovibili.
Di detriti è pieno anche Still Life (2006), film che ha portato al primo grande riconoscimento internazionale del talento di Jia Zhang-ke (il Leone d’oro a Venezia) e che rimane, ad oggi, la sua opera di finzione più radicale per messa in scena e contenuto.
La costruzione della Diga delle Tre Gole sullo Yangtze, un progetto di immense proporzioni ultimato nel 2006 che ha portato alla distruzione di 13 città, 140 paesi e 1352 villaggi, funge da pretesto per portare sul grande schermo le persone che si trovano coinvolte nell’evento. Dai lavoratori che accorrono da ogni dove a masse di sfollati destinati a lasciare la propria terra natìa, tutti i personaggi di Still Life sembrano subire sulla propria pelle la potenza dell’avvenimento, che la regia di Jia riesce a riprodurre in tutta la sua dolente e malinconica epicità. Palazzi sventrati e abbattuti, macerie e detriti nelle strade suggeriscono un paesaggio post-apocalittico, seguito di un’Apocalisse controllata e destinata non a segnare la fine, ma un nuovo inizio che porterà la Cina oltre i confini della stratosfera.
La violenza dell’innovazione estirpa, come radici, interi villaggi, siti archeologici e città che, paradossalmente, sono destinati a rimanere nella storia disegnati su cartamoneta, emblema del capitalismo. Cartamoneta la cui caducità viene genialmente sottolineata dalla scena in cui due giovani operai guardano alla televisione i protagonisti di A Better Tomorrow bruciare banconote, sperando un giorno di poter essere come loro.
In questo scenario desolato Jia Zhang-ke rappresenta individui che devono fare i conti con un mondo che muta più rapidamente di loro e in cui devono essere disposti a tutto per farsi trasportare dalla fiumana del progresso, per non venirne travolti. Funamboli tra due palazzi che potrebbero crollare da un momento all’altro, prima ancora che la corda o l’equilibrista inizino a cedere.
Il tema della demolizione e della cancellazione fisica del passato della Cina torna anche in 24 City (2008), un documentario a metà fra realtà e finzione che racconta le storie dei lavoratori di una fabbrica sul punto di essere demolita per far posto a un complesso residenziale di grattacieli. Emerge nelle storie individuali dei lavoratori (che sono, in realtà, interpretati da veri attori) un grande ritratto di ciò che è stata la Cina comunista e, soprattutto, di ciò che è stato il passaggio fra il modello economico statalista-socialista e quello, apparentemente paradossale, statalista-capitalista. Sullo sfondo, una città destinata a mutare e a portare una mutazione anche in coloro che la vivono, come la giovane su cui si chiude il film che sogna, un giorno, di poter comprare un appartamento nei grattacieli destinati a sorgere al posto della fabbrica nella quale hanno lavorato i propri genitori, testimone di una generazione che ha ormai abbracciato il modello individualistico e capitalistico del proprio paese.
Jia Zhang-ke tornerà alla finzione solo nel 2013 per inaugurare una nuova fase del proprio percorso artistico caratterizzata da uno studio sempre più attento delle vite dei singoli come specchio di una nazione, ma sempre più lontano dalla forma documentaristica e minimalista che aveva contraddistinto la maggior parte dei suoi film precedenti, arrivando a confrontarsi con generi quali il gangster-movie, il melodramma e la fantascienza.
Primo esempio di ciò è Il tocco del peccato (2013), un film che sembra, per la glacialità della messa in scena, rielaborare sotto forma di finzione alcuni casi di cronaca nera avvenuti in varie parti della Cina. Diviso in quattro episodi ambientati in altrettante zone del paese, il film è forse la prima vera e propria presa d’atto, da parte del regista, dell’irreversibilità della mutazione antropologica della sua popolazione che aveva raccontato nei decenni precedenti.
Il film, che si svolge interamente al presente, racconta infatti personaggi di varie età ormai del tutto consapevoli del loro essere alienati, non integrati in una società nuova che non li riconosce, ma che decidono di ribellarsi.
Il protagonista del primo episodio, Dahai, un uomo che non ha più nulla da perdere, non accetta che il proprio villaggio, in cui campeggiano ancora statue della Rivoluzione mentre nelle piazze sfilano icone cristiane, si sia fatto corrompere da un capitalista di Canton che ne ha comprato le miniere. Di fronte alla constatazione del mutamento dei propri compaesani, che hanno tradito i propri valori e la propria dignità per un po’ di benessere, l’uomo, che è un essere in via di estinzione come la tigre di Amoy rappresentata sulla bandiera che ha in casa, non può che imbracciare un fucile ed andare a farsi giustizia da solo.
Nel secondo episodio il protagonista, San Zhou, è un trentenne che rifiuta e si estranea da una società che non sembra rappresentarlo uccidendo le persone. Apatico, incapace di inscriversi in un nucleo famigliare, trova come unico senso della sua vita l’omicidio, atto purificatore capace di garantirgli una propria individualità in una società che, seguendo la via del consumismo, è andata sempre di più omologandosi.
Protagonista del terzo episodio è invece Yu Xiao, una donna che, in una società in cui chi ha il capitale è in grado di comprare anche i valori dei singoli individui, dimostra di avere ancora una dignità uccidendo un uomo che vuole costringerla, pagando, ad avere un rapporto sessuale con lui. La reazione della donna appare allo spettatore come una liberazione dopo una scena, magistralmente costruita, in cui con un lento climax viene accumulata una sempre più intensa violenza psicologica ai danni della donna. E’ forse in questo episodio de Il tocco del peccato in cui si trova la più esplicita denuncia da parte di Jia Zhang-ke della mania di onnipotenza di chi, in Cina, detiene il capitale.
L’ultimo episodio del film vede come protagonista un giovane, Hui Xiao, totalmente incapace di vivere in un ambiente lavorativo ostile e opprimente che, sia esso una fabbrica o un night club in cui si deve cantare in coro (come nei canti di lavoro) in tutte le lingue un messaggio di benvenuto per gli ospiti, lo lobotomizza e arriva a privarlo persino, come già in Still Life, del sentimento dell’amore. L’atto di ribellione a tutto ciò, in questo caso, non può che essere il suicidio che, paradossalmente, rappresenta il più grande atto di libertà che un giovane cinese proveniente dalle campagne può compiere nella metropoli contemporanea.
Dopo la drammatica istantanea sul presente della Cina ne Il tocco del peccato Jia Zhang-ke mette la firma su Al di là delle montagne, un film in tre atti in cui il regista costruisce nel personaggio di Tao un’allegoria del suo paese. Contesa all’alba del nuovo millennio fra due uomini, un umile minatore e un imprenditore, la donna deciderà di sposarsi con quest’ultimo condannando il primo pretendente ad abbandonare Fenyang (città di origine di Jia dove sono ambientati o da dove provengono gran parte dei personaggi dei suoi film) per cercare fortuna altrove. È, in sintesi, la raffigurazione dell’avvento della globalizzazione e del capitalismo nella società cinese, un avvenimento dall’impatto enorme, come può essere quello della costruzione della Diga delle Tre Gole, che spinge le persone a migrare dai villaggi e dai piccoli centri cittadini verso le grandi metropoli per cercare fortuna in un mondo che li ha improvvisamente staccati dalla collettività per renderli individui.
Nel secondo atto del film, ambientato nel 2014, troviamo una Tao/Cina che sembra aver capito i propri sbagli e prova a recuperare i figli che però, ormai, sembrano destinati a vivere l’eterno e assoluto presente della globalizzazione, un presente che cancella ogni tradizione e identità in favore dell’omologazione a uno standard internazionale. Ormai la Cina ha abbracciato il futuro, la mutazione è avvenuta e, con l’accortezza e l’audacia che è propria di chi ha sempre raccontato il presente e il passato della propria società Jia si permette, nell’ultimo atto, di andare avanti nel tempo fino al 2025: qui, in una città australiana popolata prevalentemente da cinesi immigrati, i giovani cinesi si trovano a dover studiare la propria lingua e la propria tradizione, che non hanno mai imparato a differenza dei propri genitori, con i quali arrivano a non condividere più neanche la lingua.
La visione di Zhang-ke non è apocalittica, è profetica. Un regista che ha sempre raccontato lo sradicamento culturale causato dall’avvento del capitalismo e della globalizzazione in Cina, del resto, non poteva che approdare, prima o poi, a una conclusione del genere. Ed ecco che il tentativo di tornare a casa compiuto da Dollar nel terzo atto, il tentativo del recupero di un Eden situato quasi nel subconscio dei giovani cinesi, sarebbe una forzatura perché l’Eden è stato irrimediabilmente perduto: rimane solo la malinconia per un presente che ha distrutto passato e futuro. Un “Go West”, è questa la canzone che viene ballata da Tao all’inizio e alla fine del film, che sarebbe potuto andare diversamente.
La divisione in tre atti torna anche ne I figli del fiume giallo (2018), un film che sembra contenere in sé tutte le prerogative del cinema “vecchio” e del cinema “nuovo” di Jia Zhang-ke, sottoposte a una rilettura che si compone di numerose citazioni, segno di una concezione del proprio cinema come un unico grande film, quello della storia della globalizzazione nel proprio paese. I figli del fiume giallo si propone di raccontare i mutamenti della Cina dal 2001 al 2018 seguendo le vicende di Bin, capo di un gruppo di criminali della Jianghu di Datong e di Zhao, la sua compagna.
Anime antiche, entrambe, destinate a rimanere schiacciate dal peso del cambiamento che la società cinese sta percorrendo e che proveranno a reagire in due modi diversi. Zhao, uscita di prigione dopo aver protetto il proprio amante in una rissa sparando dei colpi di pistola, rimarrà infatti fedele ai dettami etici della Jianghu; Bin, invece, cercherà di percorrere, come molti dei suoi ex-compagni di crimine, la carriera da imprenditore, rinunciando all’amore per Zhao.
In una Cina che cresce a dismisura, in cui la nuova urbanizzazione rende irriconoscibili intere città a chi le ha vissute solo pochi anni prima, Jia dipinge il ritratto di una società condannata alla solitudine e all’omologazione, in cui “la cenere arriva a essere più pura del bianco” (Ash is Purest White è il titolo internazionale) proprio perché contiene in sé i resti, la memoria, di un qualcosa.
Zhao è una pura che non ha subito la mutazione a cui è andata incontro la società, un UFO in un universo dominato dal capitale e dall’individualismo, ma non è una reietta, come non è reietto nessun protagonista dei film di Jia Zhang-ke, neanche lo Xiao Wu del suo film di esordio. Reietto è Bin, che ha provato a imporsi nella contemporaneità per mantenere il ruolo di primo piano che aveva quando era a capo della gang di criminali, ma si ritrova a essere un reperto archeologico, un fenomeno da baraccone per le attenzioni di videocamere di smartphone, non è più un puro perché ha provato a scrollarsi di dosso la cenere per diventare un colletto bianco. La possibile nuova unione fra i due protagonisti è destinata a spegnersi in un messaggio vocale e in un una ripresa di una camera di sorveglianza, segno di un’incolmabile distanza fisica, temporale, spaziale tra due mondi ormai inconciliabili.
Il cambiamento è avvenuto, le persone che popolano la Cina ora sono diverse, mutate. Le tradizioni possono essere raccontate e, forse, mantenute in vita solo sotto la forma del documentario, genere che Jia Zhang-ke pratica con frequenza, sotto forma di testimonianza e di memoria di un mondo rurale che ancora esiste nelle più estreme periferie del paese: un mondo che sembra essere distante secoli e scorrere su una linea temporale diversa, ma che è a rischio di estinzione.
Il cinema come testimonianza
di una trasformazione irreversibile,
di Arturo Garavaglia
TR-47
09.01.2022
Se c’è un regista contemporaneo che ha saputo cogliere alla perfezione i cambiamenti del proprio paese e portarli sul grande schermo secondo uno schema sempre coerente, programmatico e ben definito, questi non può che essere Jia Zhang-ke.
Nato a Fenyang nel 1970, il regista, esponente più noto della cosiddetta sesta generazione del cinema cinese, ha esordito sul grande schermo nel 1997, un anno zero non solo per la propria carriera, ma anche per la storia del proprio paese. Il 1997 è infatti l’anno in cui Hong Kong rientra, dopo anni di protettorato inglese, sotto la sovranità cinese. L’acquisizione della ricca città del sud-est asiatico è punto di arrivo di una politica che, sin dai primi anni ’80, ha perseguito un’apertura al sistema capitalistico e che ora, alle soglie del nuovo millennio, si appresta a farne diventare la Cina una delle principali protagoniste.
Il percorso di Jia Zhang-ke inizia quindi in un anno fondamentale per il paese e per la società che il regista racconterà nel corso della propria carriera, un racconto cinematografico che si evolverà insieme all’evolversi della Cina, contraddistinto da una visione che, dietro alla trasparenza propria del documentario, riesce a cogliere gli aspetti più problematici e drammatici che questi cambiamenti hanno sulla popolazione cinese senza mai assumere apertamente la forma del pamphlet.
Quello di Jia Zhang-ke è infatti, soprattutto, un cinema che tenta di analizzare l’uomo e l’ambiente in cui vive partendo da una prospettiva antropogeografica che mira a cogliere, grazie all’occhio della macchina da presa, ciò che Pasolini definiva la “mutazione antropologica” di un popolo.
Un mutamento lento, ma traumatico, che costruisce se stesso partendo dalla demolizione fisica delle fondamenta di un mondo sentito come vecchio, raccontato da Zhang-ke già nel film d’esordio Xiao Wu (1997), storia di un ladruncolo che si trova improvvisamente senza radici in una società che lo tratta come una maceria da rimuovere. Spaesato e senza alcun punto di riferimento, il protagonista omonimo del film vaga per città che vengono rase al suolo per far posto a nuove costruzioni, in un paesaggio quasi post-apocalittico che denuncia apertamente la furia iconoclasta di una nuova Cina intenzionata a demolire il proprio passato per proiettarsi in un futuro radioso.
In un paesaggio umano e geografico che sembra ormai dominato dal denaro e da profittatori di vario genere, un piccolo e ingenuo borseggiatore, capace di rubare e di accaparrarsi piccole somme di denaro, viene disconosciuto perfino dalla propria famiglia, divorata anch’essa dalla logica della nuova propaganda capitalista. La Cina dipinta da Zhangke è uno stato che, forte dell’annessione di Hong Kong, si appresta a compiere quel “grande balzo in avanti” (opposto a quello teorizzato da Mao, eppure egualmente radicale e devastante nelle proprie conseguenze) che lo spingerà verso un’età dell’oro, non curandosi di chi viene lasciato indietro.
I giovani dei primi film di Jia Zhang-ke sono, in fin dei conti, tante emanazioni dello Xiao Wu del film del 1997, giovani come quelli di Platform (2000), che nel passaggio fra anni ’70 e ’80 vivono sulla propria pelle il cambiamento di un modello politico e sociale senza riuscire a comprenderne le cause, ma subendone le conseguenze fino a omologarsi ad esso. I protagonisti di Unknown Pleasures (2003), esponenti di una generazione che sta vivendo la prima digitalizzazione in un mondo che va globalizzandosi, si ritrovano costretti nella gabbia di un paese che sembra garantire loro tutto, ma che, di fatto, li limita nella propria libertà: sono giovani che hanno smesso di compiere piccoli borseggi per tentare di rapinare banche, giovani pieni di ispirazione e ambizioni, ma costretti a vivere di espedienti per la mancanza di possibilità concrete.
The World (2004) rappresenta il primo film di Jia Zhang-ke riconosciuto e non osteggiato dalla Repubblica Popolare, eppure è proprio in esso che il regista trae la prima sintesi sul cataclisma antropologico messo in scena fin dal proprio film d’esordio.
Protagonisti di quest’opera sono infatti giovani nati negli anni ’80 e diventati maturi in anni in cui la Cina ha adottato formalmente un modello capitalistico e ha aperto le proprie frontiere alla digitalizzazione, pur mantenendo uno stretto controllo sulla popolazione. Ed ecco che gli artisti e le guardie che si trovano a lavorare nel parco dei divertimenti di Pechino in cui, in miniatura, viene riproposto “il mondo intero”, vivono in una perenne stasi sognando una fuga che può essere garantita solo dalla tecnologia, capace di creare altrettanti mondi illusori.
I personaggi sono sospesi fra la volontà di scoprire cosa ci sia effettivamente oltre la caverna platonica rappresentata dal parco The World (emblematiche sono le sequenze in cui gli sms proiettano le aspettative della giovane protagonista verso un universo diverso, rappresentato da animazioni sospese e sognanti) e l’impossibilità, economica e politica, di spostarsi da quello che è, a tutti gli effetti, un non luogo.
Fuori dal parco, moderna culla per le antichità e per i monumenti di tutto il mondo, che la Cina va perdendo, una città che si allarga sempre di più e attrae grandi masse di persone in cantieri che daranno luce a un ancor più grande parco dei divertimenti, la metropoli contemporanea. Un castello di Atlante, fucina di illusioni che poggia su detriti difficilmente rimovibili.
Di detriti è pieno anche Still Life (2006), film che ha portato al primo grande riconoscimento internazionale del talento di Jia Zhang-ke (il Leone d’oro a Venezia) e che rimane, ad oggi, la sua opera di finzione più radicale per messa in scena e contenuto.
La costruzione della Diga delle Tre Gole sullo Yangtze, un progetto di immense proporzioni ultimato nel 2006 che ha portato alla distruzione di 13 città, 140 paesi e 1352 villaggi, funge da pretesto per portare sul grande schermo le persone che si trovano coinvolte nell’evento. Dai lavoratori che accorrono da ogni dove a masse di sfollati destinati a lasciare la propria terra natìa, tutti i personaggi di Still Life sembrano subire sulla propria pelle la potenza dell’avvenimento, che la regia di Jia riesce a riprodurre in tutta la sua dolente e malinconica epicità. Palazzi sventrati e abbattuti, macerie e detriti nelle strade suggeriscono un paesaggio post-apocalittico, seguito di un’Apocalisse controllata e destinata non a segnare la fine, ma un nuovo inizio che porterà la Cina oltre i confini della stratosfera.
La violenza dell’innovazione estirpa, come radici, interi villaggi, siti archeologici e città che, paradossalmente, sono destinati a rimanere nella storia disegnati su cartamoneta, emblema del capitalismo. Cartamoneta la cui caducità viene genialmente sottolineata dalla scena in cui due giovani operai guardano alla televisione i protagonisti di A Better Tomorrow bruciare banconote, sperando un giorno di poter essere come loro.
In questo scenario desolato Jia Zhang-ke rappresenta individui che devono fare i conti con un mondo che muta più rapidamente di loro e in cui devono essere disposti a tutto per farsi trasportare dalla fiumana del progresso, per non venirne travolti. Funamboli tra due palazzi che potrebbero crollare da un momento all’altro, prima ancora che la corda o l’equilibrista inizino a cedere.
Il tema della demolizione e della cancellazione fisica del passato della Cina torna anche in 24 City (2008), un documentario a metà fra realtà e finzione che racconta le storie dei lavoratori di una fabbrica sul punto di essere demolita per far posto a un complesso residenziale di grattacieli. Emerge nelle storie individuali dei lavoratori (che sono, in realtà, interpretati da veri attori) un grande ritratto di ciò che è stata la Cina comunista e, soprattutto, di ciò che è stato il passaggio fra il modello economico statalista-socialista e quello, apparentemente paradossale, statalista-capitalista. Sullo sfondo, una città destinata a mutare e a portare una mutazione anche in coloro che la vivono, come la giovane su cui si chiude il film che sogna, un giorno, di poter comprare un appartamento nei grattacieli destinati a sorgere al posto della fabbrica nella quale hanno lavorato i propri genitori, testimone di una generazione che ha ormai abbracciato il modello individualistico e capitalistico del proprio paese.
Jia Zhang-ke tornerà alla finzione solo nel 2013 per inaugurare una nuova fase del proprio percorso artistico caratterizzata da uno studio sempre più attento delle vite dei singoli come specchio di una nazione, ma sempre più lontano dalla forma documentaristica e minimalista che aveva contraddistinto la maggior parte dei suoi film precedenti, arrivando a confrontarsi con generi quali il gangster-movie, il melodramma e la fantascienza.
Primo esempio di ciò è Il tocco del peccato (2013), un film che sembra, per la glacialità della messa in scena, rielaborare sotto forma di finzione alcuni casi di cronaca nera avvenuti in varie parti della Cina. Diviso in quattro episodi ambientati in altrettante zone del paese, il film è forse la prima vera e propria presa d’atto, da parte del regista, dell’irreversibilità della mutazione antropologica della sua popolazione che aveva raccontato nei decenni precedenti.
Il film, che si svolge interamente al presente, racconta infatti personaggi di varie età ormai del tutto consapevoli del loro essere alienati, non integrati in una società nuova che non li riconosce, ma che decidono di ribellarsi.
Il protagonista del primo episodio, Dahai, un uomo che non ha più nulla da perdere, non accetta che il proprio villaggio, in cui campeggiano ancora statue della Rivoluzione mentre nelle piazze sfilano icone cristiane, si sia fatto corrompere da un capitalista di Canton che ne ha comprato le miniere. Di fronte alla constatazione del mutamento dei propri compaesani, che hanno tradito i propri valori e la propria dignità per un po’ di benessere, l’uomo, che è un essere in via di estinzione come la tigre di Amoy rappresentata sulla bandiera che ha in casa, non può che imbracciare un fucile ed andare a farsi giustizia da solo.
Nel secondo episodio il protagonista, San Zhou, è un trentenne che rifiuta e si estranea da una società che non sembra rappresentarlo uccidendo le persone. Apatico, incapace di inscriversi in un nucleo famigliare, trova come unico senso della sua vita l’omicidio, atto purificatore capace di garantirgli una propria individualità in una società che, seguendo la via del consumismo, è andata sempre di più omologandosi.
Protagonista del terzo episodio è invece Yu Xiao, una donna che, in una società in cui chi ha il capitale è in grado di comprare anche i valori dei singoli individui, dimostra di avere ancora una dignità uccidendo un uomo che vuole costringerla, pagando, ad avere un rapporto sessuale con lui. La reazione della donna appare allo spettatore come una liberazione dopo una scena, magistralmente costruita, in cui con un lento climax viene accumulata una sempre più intensa violenza psicologica ai danni della donna. E’ forse in questo episodio de Il tocco del peccato in cui si trova la più esplicita denuncia da parte di Jia Zhang-ke della mania di onnipotenza di chi, in Cina, detiene il capitale.
L’ultimo episodio del film vede come protagonista un giovane, Hui Xiao, totalmente incapace di vivere in un ambiente lavorativo ostile e opprimente che, sia esso una fabbrica o un night club in cui si deve cantare in coro (come nei canti di lavoro) in tutte le lingue un messaggio di benvenuto per gli ospiti, lo lobotomizza e arriva a privarlo persino, come già in Still Life, del sentimento dell’amore. L’atto di ribellione a tutto ciò, in questo caso, non può che essere il suicidio che, paradossalmente, rappresenta il più grande atto di libertà che un giovane cinese proveniente dalle campagne può compiere nella metropoli contemporanea.
Dopo la drammatica istantanea sul presente della Cina ne Il tocco del peccato Jia Zhang-ke mette la firma su Al di là delle montagne, un film in tre atti in cui il regista costruisce nel personaggio di Tao un’allegoria del suo paese. Contesa all’alba del nuovo millennio fra due uomini, un umile minatore e un imprenditore, la donna deciderà di sposarsi con quest’ultimo condannando il primo pretendente ad abbandonare Fenyang (città di origine di Jia dove sono ambientati o da dove provengono gran parte dei personaggi dei suoi film) per cercare fortuna altrove. È, in sintesi, la raffigurazione dell’avvento della globalizzazione e del capitalismo nella società cinese, un avvenimento dall’impatto enorme, come può essere quello della costruzione della Diga delle Tre Gole, che spinge le persone a migrare dai villaggi e dai piccoli centri cittadini verso le grandi metropoli per cercare fortuna in un mondo che li ha improvvisamente staccati dalla collettività per renderli individui.
Nel secondo atto del film, ambientato nel 2014, troviamo una Tao/Cina che sembra aver capito i propri sbagli e prova a recuperare i figli che però, ormai, sembrano destinati a vivere l’eterno e assoluto presente della globalizzazione, un presente che cancella ogni tradizione e identità in favore dell’omologazione a uno standard internazionale. Ormai la Cina ha abbracciato il futuro, la mutazione è avvenuta e, con l’accortezza e l’audacia che è propria di chi ha sempre raccontato il presente e il passato della propria società Jia si permette, nell’ultimo atto, di andare avanti nel tempo fino al 2025: qui, in una città australiana popolata prevalentemente da cinesi immigrati, i giovani cinesi si trovano a dover studiare la propria lingua e la propria tradizione, che non hanno mai imparato a differenza dei propri genitori, con i quali arrivano a non condividere più neanche la lingua.
La visione di Zhang-ke non è apocalittica, è profetica. Un regista che ha sempre raccontato lo sradicamento culturale causato dall’avvento del capitalismo e della globalizzazione in Cina, del resto, non poteva che approdare, prima o poi, a una conclusione del genere. Ed ecco che il tentativo di tornare a casa compiuto da Dollar nel terzo atto, il tentativo del recupero di un Eden situato quasi nel subconscio dei giovani cinesi, sarebbe una forzatura perché l’Eden è stato irrimediabilmente perduto: rimane solo la malinconia per un presente che ha distrutto passato e futuro. Un “Go West”, è questa la canzone che viene ballata da Tao all’inizio e alla fine del film, che sarebbe potuto andare diversamente.
La divisione in tre atti torna anche ne I figli del fiume giallo (2018), un film che sembra contenere in sé tutte le prerogative del cinema “vecchio” e del cinema “nuovo” di Jia Zhang-ke, sottoposte a una rilettura che si compone di numerose citazioni, segno di una concezione del proprio cinema come un unico grande film, quello della storia della globalizzazione nel proprio paese. I figli del fiume giallo si propone di raccontare i mutamenti della Cina dal 2001 al 2018 seguendo le vicende di Bin, capo di un gruppo di criminali della Jianghu di Datong e di Zhao, la sua compagna.
Anime antiche, entrambe, destinate a rimanere schiacciate dal peso del cambiamento che la società cinese sta percorrendo e che proveranno a reagire in due modi diversi. Zhao, uscita di prigione dopo aver protetto il proprio amante in una rissa sparando dei colpi di pistola, rimarrà infatti fedele ai dettami etici della Jianghu; Bin, invece, cercherà di percorrere, come molti dei suoi ex-compagni di crimine, la carriera da imprenditore, rinunciando all’amore per Zhao.
In una Cina che cresce a dismisura, in cui la nuova urbanizzazione rende irriconoscibili intere città a chi le ha vissute solo pochi anni prima, Jia dipinge il ritratto di una società condannata alla solitudine e all’omologazione, in cui “la cenere arriva a essere più pura del bianco” (Ash is Purest White è il titolo internazionale) proprio perché contiene in sé i resti, la memoria, di un qualcosa.
Zhao è una pura che non ha subito la mutazione a cui è andata incontro la società, un UFO in un universo dominato dal capitale e dall’individualismo, ma non è una reietta, come non è reietto nessun protagonista dei film di Jia Zhang-ke, neanche lo Xiao Wu del suo film di esordio. Reietto è Bin, che ha provato a imporsi nella contemporaneità per mantenere il ruolo di primo piano che aveva quando era a capo della gang di criminali, ma si ritrova a essere un reperto archeologico, un fenomeno da baraccone per le attenzioni di videocamere di smartphone, non è più un puro perché ha provato a scrollarsi di dosso la cenere per diventare un colletto bianco. La possibile nuova unione fra i due protagonisti è destinata a spegnersi in un messaggio vocale e in un una ripresa di una camera di sorveglianza, segno di un’incolmabile distanza fisica, temporale, spaziale tra due mondi ormai inconciliabili.
Il cambiamento è avvenuto, le persone che popolano la Cina ora sono diverse, mutate. Le tradizioni possono essere raccontate e, forse, mantenute in vita solo sotto la forma del documentario, genere che Jia Zhang-ke pratica con frequenza, sotto forma di testimonianza e di memoria di un mondo rurale che ancora esiste nelle più estreme periferie del paese: un mondo che sembra essere distante secoli e scorrere su una linea temporale diversa, ma che è a rischio di estinzione.