NC-81
13.12.2021
Chi l’avrebbe detto che Vejano, un piccolo borgo nella macchia del viterbese, sarebbe diventato casa e fonte di ispirazione per il cinema di due dei più promettenti registi italiani della loro generazione. Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi in quelle campagne c’erano stati per la prima volta nel 2013 per girare Belva Nera, un breve documentario nel quale gli abitanti del borgo raccontavano la loro esperienza con una pantera, o meglio, con la possibilità che un animale così pericoloso fosse realmente stato avvistato in quella placida valle. Insieme alla divertente indagine sulla bestia ne affiorava da subito un’altra, più appassionante e cruciale, riguardante le persone che popolavano quei luoghi e il loro modo di vivere, tramandare saperi, fondare comunità a partire dalla condivisione di storie, immaginari e sistemi di credenze.
I racconti di questi pittoreschi cowboy, anziani pastori, cacciatori dai riflessi ormai lenti e altri individui dalla verace saggezza contadina costituivano anche la narrazione de Il Solengo, opera del 2015 in cui un mosaico di voci ricostruiva la solitaria vita di un uomo misterioso, vissuto in paese nei primi decenni del secolo scorso e da molti a Vejano ritenuto pazzo. Con maggiore evidenza e compiutezza rispetto al primo film, Il Solengo rifletteva sul grigio confine che separa la verità dal suo racconto, la realtà dalla sua contraffazione, eleggendo quel territorio incastonato tra le colline ad affascinante miniera di favole, simbolo di un vivere altro e sorpassato, oltre che di una cultura lontana, folkloristica, forse meno sofisticata di quella in cui oggi ci troviamo immersi ma di certo non meno capace di donare senso al mondo.
Ciò che nei primi due lavori era invisibile, affidato all’oralità e relegato fuori campo - l’oggetto dei discorsi degli anziani e gli eventi dei racconti narrati - assume primaria importanza e diventa il cuore del film in Re Granchio, primo lungometraggio di finzione di Zoppis e de Righi. Prodotto da Ring Film, presentato all’ultima Quinzaine di Cannes e adesso in sala in Italia, il film racconta un’altra leggenda di Vejano ma stavolta dà corpo alla parola, permettendo all’immagine di sovrastarla e di mettere in scena quel che gli uomini raccontano nel casolare di caccia di uno di loro mentre mangiano e bevono vino. Torniamo così indietro nel tempo e assistiamo alla vicenda di Luciano (Gabriele Silli), un giovane sbandato vissuto in quella terra sul finire dell’Ottocento e costretto a scappare a causa di un terribile incidente dopo che il suo amore per Emma (Maria Alexandra Lungu), la figlia del pastore, gli aveva reso ostile il potente principe del borgo. Emigrato nella Terra del Fuoco e assunta l’identità di un prete missionario, Luciano andrà poi in cerca di un prezioso tesoro nascosto anni prima dal capitano di una nave naufragata. La sua ultima speranza di salvezza sarà affidata alle mosse di un granchio e insidiata fino alla fine da spietati cercatori d’oro.
Cosa di questa vicenda sia reale e cosa invece sia stato inventato dagli uomini del paese davanti al fuoco non è dato saperlo. Come ogni mito anche Re Granchio ha un suo abisso, una sua assurdità che ne rende insieme scandaloso e possibile in ogni tempo l’accadere. Proprio questa oscena indeterminatezza, oltre alla folgorante bellezza materica delle inquadrature e al tragico ritratto del protagonista - un disgraziato braccato in ogni dove dal suo destino - assicurano al film un fascino di rara inquietudine per il panorama italiano. Per quanto la storia riveli sin da subito la sua radice regionale, il respiro epico del film e una coerente idea registica permettono ai suoi personaggi di rendersi universali, senza per questo divenire vuote astrazioni o semplici figure letterarie. Luciano è quindi il folle di Vejano che osò ribellarsi alla legge del principe, la superstizione raccontata al tavolo in un pomeriggio di pioggia, ma anche e soprattutto l’incarnazione di una parabola paradigmatica e per questo slegata da vincoli temporali. La sua sofferenza e il suo sbandamento ricordano quella degli accattoni pasoliniani, così come del resto sembra accomunare questi due giovani autori al regista di Medea l’obiettivo di erigere un’arte libera ma statuaria, in grado di tenere insieme pathos umano e riflessione sul linguaggio, rigore espressivo e stilizzazione formale, attraverso la commistione di racconto popolare e tragedia classica.
Re Granchio è un’opera ambiziosa e dissidente perché dei contemporanei canoni italiani rigetta le convenzioni. Quale altro film di esordienti ha avuto l’ardire di iniziare in una cascina del centro Italia e terminare tra le sconfinate montagne argentine, giocando nel mezzo con gli stilemi del realismo magico e del cinema di genere come l’avventura e il western? Se la prima parte del film esplora infatti un luogo sospeso fra incubo e sogno, un ambiente la cui strisciante violenza neanche il fiorire di un amore straordinario può riscattare, è nella seconda, solenne e dannata, che si è alle prese con l’attraversamento di una frontiera ai confini del mondo e delle coscienze. In un purgatorio di sassi e vanità Luciano transita armato alla ricerca del suo angolo di paradiso, un sussurro all’orecchio che significhi espiazione per il male che ha commesso. Se questo avverrà o meno l’opera lo suggerisce, così come un illusionista può suggerire il trucco dietro alla sua magia a un pubblico sbigottito, eppure, ancora una volta, di nulla si può dire che sia fino in fondo realtà e non piuttosto suo pallido riflesso, semplice gioco linguistico, allucinazione desiderata e subito perduta.
È nel dialogo fra poli discordi quali l’immaginario cinefilo e l’alta tradizione pittorica, nella rarefatta tensione che lega il discorso sul sacro a quello sulla miseria che si apre il varco per la pratica di un cinema diverso. L’opera prima di Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi merita attenzione perché è aliena da ciò che la circonda, oggetto ancora non bene identificato che non ha paura di risultare strano e fuori dal tempo, ma che anzi proprio in questa stranezza e da quest’ineffabile lontananza fonda la sua autentica meraviglia.
NC-81
13.12.2021
Chi l’avrebbe detto che Vejano, un piccolo borgo nella macchia del viterbese, sarebbe diventato casa e fonte di ispirazione per il cinema di due dei più promettenti registi italiani della loro generazione. Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi in quelle campagne c’erano stati per la prima volta nel 2013 per girare Belva Nera, un breve documentario nel quale gli abitanti del borgo raccontavano la loro esperienza con una pantera, o meglio, con la possibilità che un animale così pericoloso fosse realmente stato avvistato in quella placida valle. Insieme alla divertente indagine sulla bestia ne affiorava da subito un’altra, più appassionante e cruciale, riguardante le persone che popolavano quei luoghi e il loro modo di vivere, tramandare saperi, fondare comunità a partire dalla condivisione di storie, immaginari e sistemi di credenze.
I racconti di questi pittoreschi cowboy, anziani pastori, cacciatori dai riflessi ormai lenti e altri individui dalla verace saggezza contadina costituivano anche la narrazione de Il Solengo, opera del 2015 in cui un mosaico di voci ricostruiva la solitaria vita di un uomo misterioso, vissuto in paese nei primi decenni del secolo scorso e da molti a Vejano ritenuto pazzo. Con maggiore evidenza e compiutezza rispetto al primo film, Il Solengo rifletteva sul grigio confine che separa la verità dal suo racconto, la realtà dalla sua contraffazione, eleggendo quel territorio incastonato tra le colline ad affascinante miniera di favole, simbolo di un vivere altro e sorpassato, oltre che di una cultura lontana, folkloristica, forse meno sofisticata di quella in cui oggi ci troviamo immersi ma di certo non meno capace di donare senso al mondo.
Ciò che nei primi due lavori era invisibile, affidato all’oralità e relegato fuori campo - l’oggetto dei discorsi degli anziani e gli eventi dei racconti narrati - assume primaria importanza e diventa il cuore del film in Re Granchio, primo lungometraggio di finzione di Zoppis e de Righi. Prodotto da Ring Film, presentato all’ultima Quinzaine di Cannes e adesso in sala in Italia, il film racconta un’altra leggenda di Vejano ma stavolta dà corpo alla parola, permettendo all’immagine di sovrastarla e di mettere in scena quel che gli uomini raccontano nel casolare di caccia di uno di loro mentre mangiano e bevono vino. Torniamo così indietro nel tempo e assistiamo alla vicenda di Luciano (Gabriele Silli), un giovane sbandato vissuto in quella terra sul finire dell’Ottocento e costretto a scappare a causa di un terribile incidente dopo che il suo amore per Emma (Maria Alexandra Lungu), la figlia del pastore, gli aveva reso ostile il potente principe del borgo. Emigrato nella Terra del Fuoco e assunta l’identità di un prete missionario, Luciano andrà poi in cerca di un prezioso tesoro nascosto anni prima dal capitano di una nave naufragata. La sua ultima speranza di salvezza sarà affidata alle mosse di un granchio e insidiata fino alla fine da spietati cercatori d’oro.
Cosa di questa vicenda sia reale e cosa invece sia stato inventato dagli uomini del paese davanti al fuoco non è dato saperlo. Come ogni mito anche Re Granchio ha un suo abisso, una sua assurdità che ne rende insieme scandaloso e possibile in ogni tempo l’accadere. Proprio questa oscena indeterminatezza, oltre alla folgorante bellezza materica delle inquadrature e al tragico ritratto del protagonista - un disgraziato braccato in ogni dove dal suo destino - assicurano al film un fascino di rara inquietudine per il panorama italiano. Per quanto la storia riveli sin da subito la sua radice regionale, il respiro epico del film e una coerente idea registica permettono ai suoi personaggi di rendersi universali, senza per questo divenire vuote astrazioni o semplici figure letterarie. Luciano è quindi il folle di Vejano che osò ribellarsi alla legge del principe, la superstizione raccontata al tavolo in un pomeriggio di pioggia, ma anche e soprattutto l’incarnazione di una parabola paradigmatica e per questo slegata da vincoli temporali. La sua sofferenza e il suo sbandamento ricordano quella degli accattoni pasoliniani, così come del resto sembra accomunare questi due giovani autori al regista di Medea l’obiettivo di erigere un’arte libera ma statuaria, in grado di tenere insieme pathos umano e riflessione sul linguaggio, rigore espressivo e stilizzazione formale, attraverso la commistione di racconto popolare e tragedia classica.
Re Granchio è un’opera ambiziosa e dissidente perché dei contemporanei canoni italiani rigetta le convenzioni. Quale altro film di esordienti ha avuto l’ardire di iniziare in una cascina del centro Italia e terminare tra le sconfinate montagne argentine, giocando nel mezzo con gli stilemi del realismo magico e del cinema di genere come l’avventura e il western? Se la prima parte del film esplora infatti un luogo sospeso fra incubo e sogno, un ambiente la cui strisciante violenza neanche il fiorire di un amore straordinario può riscattare, è nella seconda, solenne e dannata, che si è alle prese con l’attraversamento di una frontiera ai confini del mondo e delle coscienze. In un purgatorio di sassi e vanità Luciano transita armato alla ricerca del suo angolo di paradiso, un sussurro all’orecchio che significhi espiazione per il male che ha commesso. Se questo avverrà o meno l’opera lo suggerisce, così come un illusionista può suggerire il trucco dietro alla sua magia a un pubblico sbigottito, eppure, ancora una volta, di nulla si può dire che sia fino in fondo realtà e non piuttosto suo pallido riflesso, semplice gioco linguistico, allucinazione desiderata e subito perduta.
È nel dialogo fra poli discordi quali l’immaginario cinefilo e l’alta tradizione pittorica, nella rarefatta tensione che lega il discorso sul sacro a quello sulla miseria che si apre apre il varco per la pratica di un cinema diverso. L’opera prima di Matteo Zoppis e Alessio Rigo de Righi merita attenzione perché è aliena da ciò che la circonda, oggetto ancora non bene identificato che non ha paura di risultare strano e fuori dal tempo, ma che anzi proprio in questa stranezza e da quest’ineffabile lontananza fonda la sua autentica meraviglia.