NC-75
23.11.2021
A Firenze esiste un cinema che un occhio distratto nota a fatica, nascosto com’è in piena vista all’ombra del Duomo, lungo uno dei rari viali risparmiati dal tumulto cittadino. Il suo nome, di questi tempi, è insieme un invito e un tabù. Si chiama La Compagnia e fino a domenica 28 novembre sarà la casa principale del Festival dei Popoli, il più antico festival di cinema documentario d’Europa (62 edizioni). Animato ancora dagli stessi ideali battaglieri dei suoi fondatori e mosso da una rinnovata ambizione di espandere la sua risonanza a livello internazionale, il festival inaugura quest’anno un nuovo corso. Lo fa in presenza, dopo le scelte forzate della scorsa edizione, nelle sale del cinema e in giro per la città, tra le persone e insieme agli autori, come a ribadire la volontà di fare del cinema un mezzo per unire e dei film delle esperienze vitali, occasioni di dibattito e rivelazione su di noi, il mondo e la natura della pratica cinematografica con cui pensiamo la loro relazione.
Ottanta film - quasi tutti alla loro anteprima italiana - distribuiti tra sezioni competitive, eventi speciali e retrospettive formano un programma radicalmente altro rispetto a ciò a cui siamo abituati, attento anche alle urgenze e al talento delle giovani generazioni. Una porta su culture diverse, narrazioni conflittuali, prospettive sensibili e originali. Un crocevia di sguardi vertiginosi e illuminanti, impegnati in vari modi a riprodurre la complessità di un contemporaneo in perenne trasformazione, interpretando lo stato delle nostre società in fiamme e risignificando l’attuale crisi del cinema e dei suoi paradigmi. Ha ancora senso oggi la distinzione fra cinema e documentario? Quale confine, se esiste, separa il fatto dalla finzione, la scrittura dal gesto, il rappresentare dall’accadere? Di che cinema abbiamo bisogno come umani consapevoli ancor prima che come spettatori? Quali linguaggi e quali possibilità espressive stanno adottando alcuni fra i registi più interessanti nel mondo per raccontare sentimenti universali e filmare le istanze fondamentali del nostro tempo, del nostro spirito, dei nostri corpi? Questi tre film che abbiamo visto a Firenze possono aiutarci ad approfondire le domande, più che affermare le risposte.
1 - The Tsugua Diaries, dir. Miguel Gomes e Maureen Fazendeiro
Sovversivo manifesto di intenzioni e film d’apertura del festival, l’ultimo lavoro dei due importanti autori portoghesi racconta in senso inverso (la prima scena mostrata sullo schermo è in realtà l’ultima della storia e così via) le riprese di un bizzarro film durante la pandemia su un’isola del Portogallo, nel quale giorno dopo giorno nessuno della troupe, a partire dagli stessi registi, sembra sapere bene cosa fare.
Con ironia e acuta consapevolezza, The Tsugua Diaries scardina il monolite concetto di narrazione progressiva, sgretolando l’idea stessa di personaggio e ibridando improvvisazione e sceneggiatura, performance e riflessione su di essa, in un’opera dalla vivida brillantezza artistica e intellettuale. Se in questo caso il piacere del gioco è svelare continuamente se stesso - Gomes e Fazendeiro allestiscono un finto documentario di un loro film che in sostanza non esiste - la chirurgica messa in discussione delle impalcature logiche convenzionali denota una profonda analisi del mezzo e la codifica di una struttura non meno stratificata, semmai anzi più libera ed evoluta perché in grado di reinventarsi ad ogni inquadratura, ad ogni casuale stravolgimento di un processo creativo indefinibile, mai concluso e sempre da rifondare. Dunque, di cosa parla il film e qual è il suo centro? Di nulla e nessuno, verrebbe da dire. Di due ragazzi e una ragazza che ballano sulle note di Frankie Valli, del desiderio di stare insieme, dell’irresistibile piacere provocato dal dischiudere al cinema nuovi inesplorati approcci allo scorrere del tempo, alla vita, alla creazione intesa come laboratorio e gioioso atto comunitario.
2 - L’età dell’innocenza, dir. Enrico Maisto
Presentato all’interno del concorso italiano del festival, il terzo lungometraggio di Enrico Maisto è un diario la cui intimità assomiglia al buio del precipizio. Come definire altrimenti il tentativo di parlare agli altri mentre si parla di sé, tramutando la propria vita in un’opera vera e matura? Un salto nel vuoto, appunto, una trappola letale. Maisto la evita, atterrando dall’altra parte dello strapiombo con notevole classe e preziosa delicatezza. Il rapporto con i suoi genitori, entrambi rinomati giudici in pensione, diventa per il regista il prisma attraverso cui (ri)comporre la propria educazione sentimentale, facendo i conti con le zone d’ombra dell’amore e lo scarto che separa l’innocenza dalla responsabilità, l’età del figlio da quella dell’adulto.
Per elaborare questo passaggio e decretarne il distacco, Maisto ha il grande pregio di non cercare nascondigli nel ritegno dell’arte, mettendosi invece a nudo e trovando nella frammentarietà della forma, nella giustapposizione dei toni e nel fantasmatico dialogo con le immagini dell’infanzia il suo personale alfabeto emotivo. L’età dell’innocenza è una confessione a cuore aperto il cui battito segue il ritmo ora scanzonato, ora malinconico, della macchina da presa. Un ritratto struggente ed esilarante di ciò che si perde nel trovare altro, di ciò che si lascia indietro quando si cresce, di ciò che il cinema può dire quando la vita tace.
3 - Let’s Say Revolution, dir. Elisabeth Perceval e Nicolas Klotz
Al Festival dei Popoli quest’anno va in scena anche la prima retrospettiva italiana dedicata a due autori la cui filmografia non è mai stata distribuita nel nostro paese. Il trentennale lavoro di Elisabeth Perceval e Nicolas Klotz è per noi uno sconfinato territorio da percorrere col fiato sospeso, un magma incandescente che nel suo incessante fluire lega ricerca espressiva e vocazione civile, documentario e sperimentazione visuale, secondo estetiche e modalità in continuo mutamento.
Il loro film più recente, Let’s Say Revolution, ha inaugurato lo speciale tributo e confermato il carattere eversivo del loro impegno artistico. Un’opera torrenziale e inclassificabile che indaga alcune fra le frontiere cruciali del nostro presente, dall’immigrazione alla sempre più violenta sopraffazione del potente sul debole, dalla relazione tra umano e tecnologia al cambiamento climatico. Uno scioccante poema visivo che spinge il cinema a squarciare i propri argini e diventare incendiario, arma di contestazione politica e di rinnovamento sociale. Come si dice una rivoluzione? Filmando la rabbia di un corpo che balla, direbbero forse Klotz e Perceval, per poi permettere al dolore dell’uno di guarire nella festa di molti altri e insieme danzare.
NC-75
23.11.2021
A Firenze esiste un cinema che un occhio distratto nota a fatica, nascosto com’è in piena vista all’ombra del Duomo, lungo uno dei rari viali risparmiati dal tumulto cittadino. Il suo nome, di questi tempi, è insieme un invito e un tabù. Si chiama La Compagnia e fino a domenica 28 novembre sarà la casa principale del Festival dei Popoli, il più antico festival di cinema documentario d’Europa (62 edizioni). Animato ancora dagli stessi ideali battaglieri dei suoi fondatori e mosso da una rinnovata ambizione di espandere la sua risonanza a livello internazionale, il festival inaugura quest’anno un nuovo corso. Lo fa in presenza, dopo le scelte forzate della scorsa edizione, nelle sale del cinema e in giro per la città, tra le persone e insieme agli autori, come a ribadire la volontà di fare del cinema un mezzo per unire e dei film delle esperienze vitali, occasioni di dibattito e rivelazione su di noi, il mondo e la natura della pratica cinematografica con cui pensiamo la loro relazione.
Ottanta film - quasi tutti alla loro anteprima italiana - distribuiti tra sezioni competitive, eventi speciali e retrospettive formano un programma radicalmente altro rispetto a ciò a cui siamo abituati, attento anche alle urgenze e al talento delle giovani generazioni. Una porta su culture diverse, narrazioni conflittuali, prospettive sensibili e originali. Un crocevia di sguardi vertiginosi e illuminanti, impegnati in vari modi a riprodurre la complessità di un contemporaneo in perenne trasformazione, interpretando lo stato delle nostre società in fiamme e risignificando l’attuale crisi del cinema e dei suoi paradigmi. Ha ancora senso oggi la distinzione fra cinema e documentario? Quale confine, se esiste, separa il fatto dalla finzione, la scrittura dal gesto, il rappresentare dall’accadere? Di che cinema abbiamo bisogno come umani consapevoli ancor prima che come spettatori? Quali linguaggi e quali possibilità espressive stanno adottando alcuni fra i registi più interessanti nel mondo per raccontare sentimenti universali e filmare le istanze fondamentali del nostro tempo, del nostro spirito, dei nostri corpi? Questi tre film che abbiamo visto a Firenze possono aiutarci ad approfondire le domande, più che affermare le risposte.
1 - The Tsugua Diaries, dir. Miguel Gomes e Maureen Fazendeiro
Sovversivo manifesto di intenzioni e film d’apertura del festival, l’ultimo lavoro dei due importanti autori portoghesi racconta in senso inverso (la prima scena mostrata sullo schermo è in realtà l’ultima della storia e così via) le riprese di un bizzarro film durante la pandemia su un’isola del Portogallo, nel quale giorno dopo giorno nessuno della troupe, a partire dagli stessi registi, sembra sapere bene cosa fare.
Con ironia e acuta consapevolezza, The Tsugua Diaries scardina il monolite concetto di narrazione progressiva, sgretolando l’idea stessa di personaggio e ibridando improvvisazione e sceneggiatura, performance e riflessione su di essa, in un’opera dalla vivida brillantezza artistica e intellettuale. Se in questo caso il piacere del gioco è svelare continuamente se stesso - Gomes e Fazendeiro allestiscono un finto documentario di un loro film che in sostanza non esiste - la chirurgica messa in discussione delle impalcature logiche convenzionali denota una profonda analisi del mezzo e la codifica di una struttura non meno stratificata, semmai anzi più libera ed evoluta perché in grado di reinventarsi ad ogni inquadratura, ad ogni casuale stravolgimento di un processo creativo indefinibile, mai concluso e sempre da rifondare. Dunque, di cosa parla il film e qual è il suo centro? Di nulla e nessuno, verrebbe da dire. Di due ragazzi e una ragazza che ballano sulle note di Frankie Valli, del desiderio di stare insieme, dell’irresistibile piacere provocato dal dischiudere al cinema nuovi inesplorati approcci allo scorrere del tempo, alla vita, alla creazione intesa come laboratorio e gioioso atto comunitario.
2 - L’età dell’innocenza, dir. Enrico Maisto
Presentato all’interno del concorso italiano del festival, il terzo lungometraggio di Enrico Maisto è un diario la cui intimità assomiglia al buio del precipizio. Come definire altrimenti il tentativo di parlare agli altri mentre si parla di sé, tramutando la propria vita in un’opera vera e matura? Un salto nel vuoto, appunto, una trappola letale. Maisto la evita, atterrando dall’altra parte dello strapiombo con notevole classe e preziosa delicatezza. Il rapporto con i suoi genitori, entrambi rinomati giudici in pensione, diventa per il regista il prisma attraverso cui (ri)comporre la propria educazione sentimentale, facendo i conti con le zone d’ombra dell’amore e lo scarto che separa l’innocenza dalla responsabilità, l’età del figlio da quella dell’adulto.
Per elaborare questo passaggio e decretarne il distacco, Maisto ha il grande pregio di non cercare nascondigli nel ritegno dell’arte, mettendosi invece a nudo e trovando nella frammentarietà della forma, nella giustapposizione dei toni e nel fantasmatico dialogo con le immagini dell’infanzia il suo personale alfabeto emotivo. L’età dell’innocenza è una confessione a cuore aperto il cui battito segue il ritmo ora scanzonato, ora malinconico, della macchina da presa. Un ritratto struggente ed esilarante di ciò che si perde nel trovare altro, di ciò che si lascia indietro quando si cresce, di ciò che il cinema può dire quando la vita tace.
3 - Let’s Say Revolution, dir. Elisabeth Perceval e Nicolas Klotz
Al Festival dei Popoli quest’anno va in scena anche la prima retrospettiva italiana dedicata a due autori la cui filmografia non è mai stata distribuita nel nostro paese. Il trentennale lavoro di Elisabeth Perceval e Nicolas Klotz è per noi uno sconfinato territorio da percorrere col fiato sospeso, un magma incandescente che nel suo incessante fluire lega ricerca espressiva e vocazione civile, documentario e sperimentazione visuale, secondo estetiche e modalità in continuo mutamento.
Il loro film più recente, Let’s Say Revolution, ha inaugurato lo speciale tributo e confermato il carattere eversivo del loro impegno artistico. Un’opera torrenziale e inclassificabile che indaga alcune fra le frontiere cruciali del nostro presente, dall’immigrazione alla sempre più violenta sopraffazione del potente sul debole, dalla relazione tra umano e tecnologia al cambiamento climatico. Uno scioccante poema visivo che spinge il cinema a squarciare i propri argini e diventare incendiario, arma di contestazione politica e di rinnovamento sociale. Come si dice una rivoluzione? Filmando la rabbia di un corpo che balla, direbbero forse Klotz e Perceval, per poi permettere al dolore dell’uno di guarire nella festa di molti altri e insieme danzare.