di Piero Di Bucchianico
NC-67
28.10.2021
Neanche la crisi pandemica è riuscita a fermare il TOHorror Fantastic Film Fest. Dopo la cancellazione della scorsa edizione, la buona notizia quest’anno è stata il ritorno a pieno regime di una kermesse che come nessun’altra lavora oramai da tempo sulla promozione di un genere di culto come l’horror. Andato in scena a Torino dal 19 al 24 ottobre, il TOHorror Fantastic Film Fest si è dunque rivelato a ciascun pubblico in una forma piena e ritrovata. Caratterizzato da varie teste come un’Idra dal rinnovato vigore, il festival ha goduto di un’offerta spaziante tra lungometraggi, cortometraggi, animazioni, incontri dal vivo e persino concorsi letterari riguardanti i generi del fantastico.
Il cinema di genere e in particolare quello dell’orrore è da sempre terreno di sperimentazione da parte di cineasti giovani e meno giovani, i quali in ogni edizione tentano con le loro proposte di aderire a determinate tendenze stilistiche o anche di generarne di nuove. Sempre attenta a sguardi differenti e raramente rassicuranti, la selezione del TOHorror sembra essere consapevole che dell’orrore sapientemente evocato dei grandi maestri del passato bisogna tener conto, senza farne però, nel 2021, l’unica strada nostalgica e consolatoria. Al contrario, la necessità primaria è quella di tendere occhi e orecchie a quanto di alternativo il cinema contemporaneo sa offrire, magari azzardando nelle scelte ma riponendo anche fiducia nei confronti di spettatori dal gusto (e dal disgusto, quando ricercato e voluto) allenato e consapevole. Per i curiosi e gli schizzinosi, c’è sempre tempo per cambiare bandiera.
Di seguito tre visioni da sottolineare, ognuna a modo proprio, dal festival torinese.
PRISONERS OF THE GHOSTLAND (Sion Sono, 2021, 100’)
I frequentatori e gli organizzatori di festival lo sanno: l’imperativo categorico è partire forte, sparato, senza riserve. Al TOHorror non se lo fanno certo ripetere due volte ed ecco che, prima di ogni altra cosa, si viene dati in pasto alla prima escursione a stelle e strisce di Sion Sono. Navigato regista giapponese nonché figura di culto di tanti appassionati di un cinema che le mezze misure non le ha mai amate. Inventiva quanto sgangherata, sopra le righe ma anche inaspettatamente poetica e stimolante nelle sue vette, la fluviale opera filmica del regista di Love Exposure e Tokyo Tribe (fra i tanti) è da sempre terreno di conflitto critico. C’erano pochi dubbi sul fatto che Prisoners Of The Ghostland non avrebbe certo rappresentato una pacificazione in tal senso; in quest’opera si fondono infatti da un lato l’action sguaiato di un certo cinema americano, dall’altro l’estro orientale di un regista dalle mille risorse, peraltro abituato ad avere più potere decisionale e creativo di quanto qui accaduto. In quest’occasione Sono non firma la sceneggiatura, è colpito da infarto durante la produzione e ambienta per necessità tutta la vicenda in Messico.
Tra una disavventura e l’altra, ciò che rimane nel testo e che rende comunque riconoscibile il suo tocco sono la solita esuberanza scenografica, l’incedere narrativo a suo modo rapsodico e sboccato e alcune azzeccate trovate visive. La presenza di Nicolas Cage, associata ad un regista così sopra le righe, faceva sperare in un mix esplosivo e in una comunione di intenti a suo modo irripetibile. Il divertimento invece ristagna e finisce purtroppo per non assecondare tali aspettative. In un film che potrebbe in superficie rievocare altro cinema post-atomico recente (dagli altissimi, Mad Max Fury Road ai bassissimi, The Bad Batch), si rimane in definitiva con un senso di insoddisfazione che può ricondurre la mente al Robert Rodriguez più fiacco (Once Upon A Time In Mexico), quello che, per intenderci, oltre a non prendersi per nulla sul serio denota anche una forte svogliatezza e indifferenza verso l’esito della sua opera.
THE SCARY OF THE SIXTY FIRST (Dasha Nekrasova, 2021, 81’)
Questo film è stato presentato in una sezione denominata American Nightmare. Il riferimento è ovviamente alla provenienza delle opere e in effetti il debutto di Dasha Nekrasova vuole fare proprio i conti con un’America piena zeppa di scheletri nell’armadio. L’orrore non è là fuori, ma è proprio qui in casa nostra, dove crediamo di sentirci sicuri. Detta così l’intuizione rischia di essere un usato sicuro, non proponendo grossi fattori di novità negli occhi di uno spettatore che da Polanski in poi ha imparato a diffidare di vicini, coinquilini e parenti tutti. The Scary Of The Sixty First ha il coraggio però di mescolare con consapevolezza ingredienti tra loro dissonanti. Disgustato dalle macabre rivelazioni concernenti milionari e eredi reali, il cittadino medio riveste il ruolo di consumatore primario e privilegiato di numerosi racconti dell’orrore quotidiano, i quali invocano (e rivelano) la presenza di una dimensione altra, sinistra, che inquieta ma al contempo affascina perché in grado di distogliere dalla routine.
In un appartamento dell’Upper East Side appena acquistato, il rapporto di due studentesse newyorkesi va dunque deteriorandosi in conseguenza della fascinazione verso macchinazioni ordite da operatori misteriosi, puzzle da ricomporre perché incompleti, sempre e costantemente un passo indietro rispetto a chi tira le fila. Grazie all’insinuarsi della paranoia nei cunicoli di un film che riesce a fare delle proprie stranezze e della propria goffaggine un inatteso punto di forza, Nekrasova firma un esordio che suggerisce con efficacia di monitorare un presente circondato da infinite verità tanto plausibili quanto minacciose.
AFTER BLUE (PARADISE FOR SALE) (Bertrand Mandico, 2021, 130’)
Presentato in concorso al Locarno Film Festival e riproposto dal TOHorror, After Blue è il nuovo film di Bertrand Mandico, opera follemente ambiziosa che resiste a quel raziocinio critico e contabile tipico di chi vorrebbe classificare tutto sotto etichette frettolose e spesso superficiali. Difficilmente si può rimanere tiepidi di fronte all’esperienza proposta da Mandico: o la si abbraccia o la si respinge. Ancor più che nel precedente Les Garcons Sauvages il cineasta francese dimostra qui una carica trasgressiva smisurata nel volersi affidare al suo istinto e alla sua fervida immaginazione. Può anche darsi che un viaggio simile finisca per svuotare anziché riempire, che un bagliore dietro l’altro possa accecare o ipnotizzare lo spettatore, eppure la sensazione di chi vuol concedersi tale rischio è che a garantire pienezza e sostanza siano le immagini stesse: autosufficienti, ardite e stimolanti. A partire da esse risalgono in superficie degli impulsi quasi atavici, pulsioni peraltro non disposte a essere sottomesse ad una razionalizzazione immediata. Grazie al talento di Mandico la reazione chimica fra generi disparati (il western, la fantascienza, l’erotico, il racconto di formazione) origina un mondo che non ha bisogno di altro che di mostrarsi nelle sue contraddizioni e nei suoi eccessi così ben orchestrati.
I simbolismi insistenti, l’estetica oltremodo barocca sono funzionali alla costituzione di un immaginario che esplora le dimensioni del fatiscente e del voluttuoso, del surreale e del claustrofobico, all’insegna di una proposta che vuole rimettere al centro il corpo e il desiderio, ridiscutere il gusto e fluidificare il genere (nell’accezione gender). La trama di ambientazione sci-fi diventa del tutto secondaria se rapportata alla componente espressiva e formale. Le scenografie trasudano i propri omaggi a Bava da tutti gli anfratti e costituiscono l’ossimoro di spazi aperti ma claustrofobici, privando la componente western della propria proverbiale geografia e profondità. La caccia alla donna (non all’uomo, sul pianeta After Blue non ce sono) diviene dunque una missione subalterna alle urgenze stilistiche del film, le quali vengono esplicitate dalle costanti e ammalianti divagazioni psichedeliche.
di Piero Di Bucchianico
NC-67
28.10.2021
Neanche la crisi pandemica è riuscita a fermare il TOHorror Fantastic Film Fest. Dopo la cancellazione della scorsa edizione, la buona notizia quest’anno è stata il ritorno a pieno regime di una kermesse che come nessun’altra lavora oramai da tempo sulla promozione di un genere di culto come l’horror. Andato in scena a Torino dal 19 al 24 ottobre, il TOHorror Fantastic Film Fest si è dunque rivelato a ciascun pubblico in una forma piena e ritrovata. Caratterizzato da varie teste come un’Idra dal rinnovato vigore, il festival ha goduto di un’offerta spaziante tra lungometraggi, cortometraggi, animazioni, incontri dal vivo e persino concorsi letterari riguardanti i generi del fantastico.
Il cinema di genere e in particolare quello dell’orrore è da sempre terreno di sperimentazione da parte di cineasti giovani e meno giovani, i quali in ogni edizione tentano con le loro proposte di aderire a determinate tendenze stilistiche o anche di generarne di nuove. Sempre attenta a sguardi differenti e raramente rassicuranti, la selezione del TOHorror sembra essere consapevole che dell’orrore sapientemente evocato dei grandi maestri del passato bisogna tener conto, senza farne però, nel 2021, l’unica strada nostalgica e consolatoria. Al contrario, la necessità primaria è quella di tendere occhi e orecchie a quanto di alternativo il cinema contemporaneo sa offrire, magari azzardando nelle scelte ma riponendo anche fiducia nei confronti di spettatori dal gusto (e dal disgusto, quando ricercato e voluto) allenato e consapevole. Per i curiosi e gli schizzinosi, c’è sempre tempo per cambiare bandiera.
Di seguito tre visioni da sottolineare, ognuna a modo proprio, dal festival torinese.
PRISONERS OF THE GHOSTLAND (Sion Sono, 2021, 100’)
I frequentatori e gli organizzatori di festival lo sanno: l’imperativo categorico è partire forte, sparato, senza riserve. Al TOHorror non se lo fanno certo ripetere due volte ed ecco che, prima di ogni altra cosa, si viene dati in pasto alla prima escursione a stelle e strisce di Sion Sono. Navigato regista giapponese nonché figura di culto di tanti appassionati di un cinema che le mezze misure non le ha mai amate. Inventiva quanto sgangherata, sopra le righe ma anche inaspettatamente poetica e stimolante nelle sue vette, la fluviale opera filmica del regista di Love Exposure e Tokyo Tribe (fra i tanti) è da sempre terreno di conflitto critico. C’erano pochi dubbi sul fatto che Prisoners Of The Ghostland non avrebbe certo rappresentato una pacificazione in tal senso; in quest’opera si fondono infatti da un lato l’action sguaiato di un certo cinema americano, dall’altro l’estro orientale di un regista dalle mille risorse, peraltro abituato ad avere più potere decisionale e creativo di quanto qui accaduto. In quest’occasione Sono non firma la sceneggiatura, è colpito da infarto durante la produzione e ambienta per necessità tutta la vicenda in Messico.
Tra una disavventura e l’altra, ciò che rimane nel testo e che rende comunque riconoscibile il suo tocco sono la solita esuberanza scenografica, l’incedere narrativo a suo modo rapsodico e sboccato e alcune azzeccate trovate visive. La presenza di Nicolas Cage, associata ad un regista così sopra le righe, faceva sperare in un mix esplosivo e in una comunione di intenti a suo modo irripetibile. Il divertimento invece ristagna e finisce purtroppo per non assecondare tali aspettative. In un film che potrebbe in superficie rievocare altro cinema post-atomico recente (dagli altissimi, Mad Max Fury Road ai bassissimi, The Bad Batch), si rimane in definitiva con un senso di insoddisfazione che può ricondurre la mente al Robert Rodriguez più fiacco (Once Upon A Time In Mexico), quello che, per intenderci, oltre a non prendersi per nulla sul serio denota anche una forte svogliatezza e indifferenza verso l’esito della sua opera.
THE SCARY OF THE SIXTY FIRST (Dasha Nekrasova, 2021, 81’)
Questo film è stato presentato in una sezione denominata American Nightmare. Il riferimento è ovviamente alla provenienza delle opere e in effetti il debutto di Dasha Nekrasova vuole fare proprio i conti con un’America piena zeppa di scheletri nell’armadio. L’orrore non è là fuori, ma è proprio qui in casa nostra, dove crediamo di sentirci sicuri. Detta così l’intuizione rischia di essere un usato sicuro, non proponendo grossi fattori di novità negli occhi di uno spettatore che da Polanski in poi ha imparato a diffidare di vicini, coinquilini e parenti tutti. The Scary Of The Sixty First ha il coraggio però di mescolare con consapevolezza ingredienti tra loro dissonanti. Disgustato dalle macabre rivelazioni concernenti milionari e eredi reali, il cittadino medio riveste il ruolo di consumatore primario e privilegiato di numerosi racconti dell’orrore quotidiano, i quali invocano (e rivelano) la presenza di una dimensione altra, sinistra, che inquieta ma al contempo affascina perché in grado di distogliere dalla routine.
In un appartamento dell’Upper East Side appena acquistato, il rapporto di due studentesse newyorkesi va dunque deteriorandosi in conseguenza della fascinazione verso macchinazioni ordite da operatori misteriosi, puzzle da ricomporre perché incompleti, sempre e costantemente un passo indietro rispetto a chi tira le fila. Grazie all’insinuarsi della paranoia nei cunicoli di un film che riesce a fare delle proprie stranezze e della propria goffaggine un inatteso punto di forza, Nekrasova firma un esordio che suggerisce con efficacia di monitorare un presente circondato da infinite verità tanto plausibili quanto minacciose.
AFTER BLUE (PARADISE FOR SALE) (Bertrand Mandico, 2021, 130’)
Presentato in concorso al Locarno Film Festival e riproposto dal TOHorror, After Blue è il nuovo film di Bertrand Mandico, opera follemente ambiziosa che resiste a quel raziocinio critico e contabile tipico di chi vorrebbe classificare tutto sotto etichette frettolose e spesso superficiali. Difficilmente si può rimanere tiepidi di fronte all’esperienza proposta da Mandico: o la si abbraccia o la si respinge. Ancor più che nel precedente Les Garcons Sauvages il cineasta francese dimostra qui una carica trasgressiva smisurata nel volersi affidare al suo istinto e alla sua fervida immaginazione. Può anche darsi che un viaggio simile finisca per svuotare anziché riempire, che un bagliore dietro l’altro possa accecare o ipnotizzare lo spettatore, eppure la sensazione di chi vuol concedersi tale rischio è che a garantire pienezza e sostanza siano le immagini stesse: autosufficienti, ardite e stimolanti. A partire da esse risalgono in superficie degli impulsi quasi atavici, pulsioni peraltro non disposte a essere sottomesse ad una razionalizzazione immediata. Grazie al talento di Mandico la reazione chimica fra generi disparati (il western, la fantascienza, l’erotico, il racconto di formazione) origina un mondo che non ha bisogno di altro che di mostrarsi nelle sue contraddizioni e nei suoi eccessi così ben orchestrati.
I simbolismi insistenti, l’estetica oltremodo barocca sono funzionali alla costituzione di un immaginario che esplora le dimensioni del fatiscente e del voluttuoso, del surreale e del claustrofobico, all’insegna di una proposta che vuole rimettere al centro il corpo e il desiderio, ridiscutere il gusto e fluidificare il genere (nell’accezione gender). La trama di ambientazione sci-fi diventa del tutto secondaria se rapportata alla componente espressiva e formale. Le scenografie trasudano i propri omaggi a Bava da tutti gli anfratti e costituiscono l’ossimoro di spazi aperti ma claustrofobici, privando la componente western della propria proverbiale geografia e profondità. La caccia alla donna (non all’uomo, sul pianeta After Blue non ce sono) diviene dunque una missione subalterna alle urgenze stilistiche del film, le quali vengono esplicitate dalle costanti e ammalianti divagazioni psichedeliche.