NC-60
24.06.2021
Dall’uscita della loro prima collaborazione con A Child is Waiting nel 1963 in poi, parlando di Gena Rowlands si finisce in un modo o nell’altro a discutere sempre di John Cassavetes. Va premesso che esiste un cinema prima e dopo Cassavetes, soprattutto se si parla di cinema indipendente. Guardando i suoi film si ha sempre la sensazione di assistere ad una scarica viscerale, unica e irripetibile, catturata in modo fortuito da una cinepresa che si trovava lì per caso. Eppure, Shadows a parte, in tutti gli altri film di Cassavetes l’improvvisazione non fu quasi mai utilizzata. Il regista era solito sceneggiare tutto al dettaglio, e il fatto che nonostante ciò la sensazione dello spettatore rimanesse immutata ci porta a due conclusioni. La prima, che Cassavetes era dotato di una sensibilità unica nel distillare le minuzie dell’esperienza umana sia da un punto di vista visivo che puramente narrativo. E la seconda, che gran parte della naturalità e l’energia dei suoi film si deve alla capacità dei suoi attori di spogliarsi dei propri istinti e di concedersi alla pellicola come ci si concede ad un amante a luci spente nel cuore della notte. Ovvero, detto in altre parole, che senza Gena Rowlands non può esistere John Cassavetes. La gerarchia patriarcale detta però che l’esperienza e il genio femminile vengano presi in considerazione solo se messi a fuoco attraverso una lente maschile, tanto meglio se i due sono marito e moglie. Ma come è arrivato il momento di smantellare queste dinamiche, è arrivato anche il momento di parlare di Gena Rowlands per parlare di Gena Rowlands.
Si dice che per recitare a teatro serva sapersi esprimere con ogni muscolo dalle spalle in giù, e che per recitare nel cinema serva invece saperlo fare con l’intera superficie del viso. E se così fosse – anche se la sua carriera ebbe inizio proprio sui palcoscenici di Broadway – allora il volto di Gena Rowlands è un prodigio dell’anatomia. Ogni volta che appare sullo schermo – spesso in dei primi piani che andrebbero appesi uno per uno in un museo – si ha l’impressione che il limite che separa il suo mondo interiore a quello esteriore a mala pena esista, e quindi che lo spazio che la circonda sia una conseguenza diretta dei suoi personaggi, e vice versa. Gena Rowlands rappresenta tutt’oggi una visione del cinema americano che Hollywood non ha mai voluto accettare, o quanto meno non del tutto. Le sue sono delle interpretazioni che possono in un primo momento apparire grezze e caotiche, che fanno avanti e indietro sull’orlo di un esaurimento nervoso, solo perchè fino ad allora non esisteva (o meglio, non era consentita) una femminilità del suo genere. All’interno del paradigma hollywoodiano ci si aspetta dalle attrici di rimanere costantemente coscienti della propria presenza sessuale, indipendentemente dalle circostanze, e di lasciare poco spazio al disordine o all’eccentricità. L’incapacità di attenersi a questa norma viene immediatamente attribuita ad una preesistente instabilità mentale (fa riflettere ad esempio che A Woman Under the Influence divenne in italiano semplicemente Una moglie, come se la condizione psicologica che affligge il personaggio sia inestricabile dall’essere donna, e quindi moglie). Per Gena Rowlands le contraddizioni sono l’essenza della vita, e i suoi personaggi non si prestano mai ad una lettura monotona e schematica. Nei suoi film l’assurdità fittizia e illusoria del cinema americano viene sostituita con l’assurdità esistenziale, il cui timore ci spinge a negarne l’importanza. In una scena di Love Streams (1984), il personaggio interpretato da Rowlands – una donna di mezza età alle prese con le conseguenze umane del divorzio – si reca in una sala da bowling in cerca di nuove esperienze e di nuova vita. La donna finisce per rimanere con le dita incastrate in una palla da bowling, ed è nella gestione di momenti come questo che ci si rende conto della grandezza di quest’artista. In una scena così, una Judy Garland di turno (la cui vita venne distrutta proprio dalla misoginia di Hollywood) si sarebbe distanziata dal personaggio, transformando la goffaggine in delicatezza e sensualità. Per Rowlands invece questo è un momento di accettazione e di fragilità, in cui il percorso del personaggio verso una rinnovata felicità trova spazio per manifestarsi, invece di venire eclissato dall’imbarazzo.
È forse per questo che Opening Night (1977) venne per molti anni ignorato dalla critica e dal grande pubblico. Il film racconta la storia di una famosa attrice di teatro alle prese con l’invecchiamento e le aspettative del pubblico nei suoi confronti. Dopo una carriera passata a lottare contro le pressioni mediatiche, Rowlands si calò in questo ruolo con un bagaglio personale più carico del solito. E il risultato fu il ritratto di una donna sull’orlo di un precipizio, in cui le aspettative sociali e artistiche legate alla sua persona finiscono per derubarla della propria sanità mentale. In Opening Night, Rowlands si confronta con l’eredità del personaggio di Nora Desmond in Sunset Boulevard, mettendo in discussione il ruolo di un’industria che ancora oggi fatica ad assumere le proprie responsabilità quando si parla dei danni psicologici, fisici ed emotivi subiti dalle donne che ne fanno parte. Rowlands riesce attraverso la strumentalizzazione dell’isteria – un paradigma medico creato per negare l’esperienza femminile attraverso la proiezione di disordini emotivi e comportamentali – a riflettere sulle ipocrisie di un sistema e una società talmente prese a manipolare il prossimo da essere ormai incapaci di alcun tipo d’introspezione.
Scrivendo su Gena Rowlands, ci si rende conto che la sua grandezza sta anche e soprattutto nell’impossibilità di essere teorizzata. Rowlands ha sovvertito l’essenza stessa dell’interpretazione, aprendo le porte non solo a un nuovo tipo di cinema ma ad una diversa idea di esistere. La sua è un’eredità artistica dal valore inestimabile, in cui ogni primo piano ci porta a scoprire qualcosa di nuovo sulla vita e su noi stessi. Ormai siamo talmente desensibilizzati alle illusioni create dallo schermo che finiamo per incorporarle nella nostra esperienza, diventando prigionieri della finzione di noi stessi. Gena Rowlands ci ricorda che esiste un altro modo di porsi alla vita, in cui il disordine e le contraddizioni sono un segno che si è ancora capaci di provare qualcosa di vero e di nuovo. C’è un monologo in Minnie & Moskowitz che spiega meglio di qualsiasi altra argomentazione il perché ancora oggi – e forse più che mai – si ha ancora bisogno di Gena Rowlands:
“You know I think that movies are a conspiracy. I mean it. They are actually a conspiracy, because they set you up, Florence. They set you up from the time you were a little kid. They set you up to believe in everything. They set you up to believe in ideals, and strength, and good guys, and romance, and of course, love. Love, Florence. So you believe it, right? You go out, you start looking. It doesn’t happen, you keep looking. You get a job, like us, and you spend a lot of time fixing up things – your apartment and jazz, and… and… You learn how to be femenine, you know “femenine”, you learn how to cook. But there’s no Charles Boyer in my life Florence, you know? I never even met a Charles Boyer. I never met Clark Gable, I never met Humphrey Bogart, I never met any of them, you know who I mean. I mean, they don’t exist Florence. That’s the truth. But the movies set you up. They set you up. And no matter how bright you are, you believe it.”
NC-60
24.06.2021
Dall’uscita della loro prima collaborazione con A Child is Waiting nel 1963 in poi, parlando di Gena Rowlands si finisce in un modo o nell’altro a discutere sempre di John Cassavetes. Va premesso che esiste un cinema prima e dopo Cassavetes, soprattutto se si parla di cinema indipendente. Guardando i suoi film si ha sempre la sensazione di assistere ad una scarica viscerale, unica e irripetibile, catturata in modo fortuito da una cinepresa che si trovava lì per caso. Eppure, Shadows a parte, in tutti gli altri film di Cassavetes l’improvvisazione non fu quasi mai utilizzata. Il regista era solito sceneggiare tutto al dettaglio, e il fatto che nonostante ciò la sensazione dello spettatore rimanesse immutata ci porta a due conclusioni. La prima, che Cassavetes era dotato di una sensibilità unica nel distillare le minuzie dell’esperienza umana sia da un punto di vista visivo che puramente narrativo. E la seconda, che gran parte della naturalità e l’energia dei suoi film si deve alla capacità dei suoi attori di spogliarsi dei propri istinti e di concedersi alla pellicola come ci si concede ad un amante a luci spente nel cuore della notte. Ovvero, detto in altre parole, che senza Gena Rowlands non può esistere John Cassavetes. La gerarchia patriarcale detta però che l’esperienza e il genio femminile vengano presi in considerazione solo se messi a fuoco attraverso una lente maschile, tanto meglio se i due sono marito e moglie. Ma come è arrivato il momento di smantellare queste dinamiche, è arrivato anche il momento di parlare di Gena Rowlands per parlare di Gena Rowlands.
Si dice che per recitare a teatro serva sapersi esprimere con ogni muscolo dalle spalle in giù, e che per recitare nel cinema serva invece saperlo fare con l’intera superficie del viso. E se così fosse – anche se la sua carriera ebbe inizio proprio sui palcoscenici di Broadway – allora il volto di Gena Rowlands è un prodigio dell’anatomia. Ogni volta che appare sullo schermo – spesso in dei primi piani che andrebbero appesi uno per uno in un museo – si ha l’impressione che il limite che separa il suo mondo interiore a quello esteriore a mala pena esista, e quindi che lo spazio che la circonda sia una conseguenza diretta dei suoi personaggi, e vice versa. Gena Rowlands rappresenta tutt’oggi una visione del cinema americano che Hollywood non ha mai voluto accettare, o quanto meno non del tutto. Le sue sono delle interpretazioni che possono in un primo momento apparire grezze e caotiche, che fanno avanti e indietro sull’orlo di un esaurimento nervoso, solo perchè fino ad allora non esisteva (o meglio, non era consentita) una femminilità del suo genere. All’interno del paradigma hollywoodiano ci si aspetta dalle attrici di rimanere costantemente coscienti della propria presenza sessuale, indipendentemente dalle circostanze, e di lasciare poco spazio al disordine o all’eccentricità. L’incapacità di attenersi a questa norma viene immediatamente attribuita ad una preesistente instabilità mentale (fa riflettere ad esempio che A Woman Under the Influence divenne in italiano semplicemente Una moglie, come se la condizione psicologica che affligge il personaggio sia inestricabile dall’essere donna, e quindi moglie). Per Gena Rowlands le contraddizioni sono l’essenza della vita, e i suoi personaggi non si prestano mai ad una lettura monotona e schematica. Nei suoi film l’assurdità fittizia e illusoria del cinema americano viene sostituita con l’assurdità esistenziale, il cui timore ci spinge a negarne l’importanza. In una scena di Love Streams (1984), il personaggio interpretato da Rowlands – una donna di mezza età alle prese con le conseguenze umane del divorzio – si reca in una sala da bowling in cerca di nuove esperienze e di nuova vita. La donna finisce per rimanere con le dita incastrate in una palla da bowling, ed è nella gestione di momenti come questo che ci si rende conto della grandezza di quest’artista. In una scena così, una Judy Garland di turno (la cui vita venne distrutta proprio dalla misoginia di Hollywood) si sarebbe distanziata dal personaggio, transformando la goffaggine in delicatezza e sensualità. Per Rowlands invece questo è un momento di accettazione e di fragilità, in cui il percorso del personaggio verso una rinnovata felicità trova spazio per manifestarsi, invece di venire eclissato dall’imbarazzo.
È forse per questo che Opening Night (1977) venne per molti anni ignorato dalla critica e dal grande pubblico. Il film racconta la storia di una famosa attrice di teatro alle prese con l’invecchiamento e le aspettative del pubblico nei suoi confronti. Dopo una carriera passata a lottare contro le pressioni mediatiche, Rowlands si calò in questo ruolo con un bagaglio personale più carico del solito. E il risultato fu il ritratto di una donna sull’orlo di un precipizio, in cui le aspettative sociali e artistiche legate alla sua persona finiscono per derubarla della propria sanità mentale. In Opening Night, Rowlands si confronta con l’eredità del personaggio di Nora Desmond in Sunset Boulevard, mettendo in discussione il ruolo di un’industria che ancora oggi fatica ad assumere le proprie responsabilità quando si parla dei danni psicologici, fisici ed emotivi subiti dalle donne che ne fanno parte. Rowlands riesce attraverso la strumentalizzazione dell’isteria – un paradigma medico creato per negare l’esperienza femminile attraverso la proiezione di disordini emotivi e comportamentali – a riflettere sulle ipocrisie di un sistema e una società talmente prese a manipolare il prossimo da essere ormai incapaci di alcun tipo d’introspezione.
Scrivendo su Gena Rowlands, ci si rende conto che la sua grandezza sta anche e soprattutto nell’impossibilità di essere teorizzata. Rowlands ha sovvertito l’essenza stessa dell’interpretazione, aprendo le porte non solo a un nuovo tipo di cinema ma ad una diversa idea di esistere. La sua è un’eredità artistica dal valore inestimabile, in cui ogni primo piano ci porta a scoprire qualcosa di nuovo sulla vita e su noi stessi. Ormai siamo talmente desensibilizzati alle illusioni create dallo schermo che finiamo per incorporarle nella nostra esperienza, diventando prigionieri della finzione di noi stessi. Gena Rowlands ci ricorda che esiste un altro modo di porsi alla vita, in cui il disordine e le contraddizioni sono un segno che si è ancora capaci di provare qualcosa di vero e di nuovo. C’è un monologo in Minnie & Moskowitz che spiega meglio di qualsiasi altra argomentazione il perché ancora oggi – e forse più che mai – si ha ancora bisogno di Gena Rowlands:
“You know I think that movies are a conspiracy. I mean it. They are actually a conspiracy, because they set you up, Florence. They set you up from the time you were a little kid. They set you up to believe in everything. They set you up to believe in ideals, and strength, and good guys, and romance, and of course, love. Love, Florence. So you believe it, right? You go out, you start looking. It doesn’t happen, you keep looking. You get a job, like us, and you spend a lot of time fixing up things – your apartment and jazz, and… and… You learn how to be femenine, you know “femenine”, you learn how to cook. But there’s no Charles Boyer in my life Florence, you know? I never even met a Charles Boyer. I never met Clark Gable, I never met Humphrey Bogart, I never met any of them, you know who I mean. I mean, they don’t exist Florence. That’s the truth. But the movies set you up. They set you up. And no matter how bright you are, you believe it.”