Ripercorriamo l’epopea del Leone d’Oro
attraverso sei parole chiave,
di Alberto de Carolis Villars
TR-66
28.08.2022
Novant’anni di Venezia. Quest’anno la Rassegna d’Arte Cinematografica festeggia un importante traguardo che la incorona come il più antico Festival di cinema al mondo. Parlare di questa influente manifestazione non è cosa da poco e la sua storia, talmente estesa e ricca di particolari, potrebbe riempire pagine e pagine di enciclopedie specializzate. Venezia è stata da sempre, nel bene e nel male, specchio degli sviluppi e dei mutamenti che la settima arte ha incontrato lungo tutto il suo cammino. Noi, a pochi giorni dall’apertura del Festival, cercheremo di ricordare, per quanto possibile, le sue rocambolesche vicissitudini, le sue storiche vittorie e i dibattiti che l’hanno da sempre accompagnata, attraverso sei parole chiave.
Nascita
La Mostra del Cinema di Venezia è una parte della più vasta attività della Biennale, una storica fondazione culturale inaugurata nel 1895 proprio nella città lagunare per dar vita a una rassegna, tenutasi ogni due anni, di arte contemporanea. Fin dal suo primo allestimento, e per le diciassette edizioni successive, la Biennale d’arte di Venezia riscosse un grande clamore tanto da convincere il conte Giuseppe Volpi di Misurata, l’allora presidente dell’ente, a fondare altre esposizioni multidisciplinari. Così nel 1930, a seguito di una grande riforma, nacque il Festival Internazionale di Musica Contemporanea seguito, nel 1932, dalla prima edizione della Rassegna d’Arte Cinematografica di Venezia. L’idea di creare un evento dedicato al cinema nacque in Volpi grazie all’intercessione dello scultore, e segretario della Biennale, Antonio Maraini. Maraini cominciò a interrogarsi sulla possibilità di portare le grandi folle alle manifestazioni culturali, fino a quel momento pensate per un pubblico di nicchia. Volpi, proprietario della compagnia Grandi Alberghi, di cui faceva parte il celebre Hotel Excelsior situato al Lido, era interessato a incrementare il turismo a Venezia che, in seguito alla crisi del ‘29, aveva subito un potente ribasso. Il conte vide quindi in questo progetto una grande opportunità per far sposare l’interesse economico con quello artistico. Il cinema iniziava, proprio in quel periodo, a essere accettato come un mezzo creativo. Durante tutto il corso del decennio precedente la sperimentazione tecnica - come l’avanguardismo francese, la scuola sovietica, l’espressionismo tedesco, l’avvento di Hollywood e via dicendo - aveva portato alla creazione di grandi capolavori. Serviva quindi un punto d’incontro - gli Oscar, inaugurati nel 1927, erano un fenomeno troppo chiuso nell’industria cinematografica statunitense e non duravano che lo spazio di una serata - che facesse convergere le cinematografie mondiali, più precisamente un’esposizione che racchiudesse in sé il meglio di questa «nuova arte». Michelangelo Antonioni avrebbe poi scritto: «Mi piace pensare che la mostra venne al mondo per il bisogno di definire il lavoro di quegli anni fecondi». Il primo Festival si aprì sulla maestosa terrazza dell’Excelsior il sei agosto 1932 per concludersi il ventuno dello stesso mese. L’abbondante programma poteva vantare autentiche gemme di differente nazionalità e segnava l’inizio di un prezioso incontro mai avvenuto prima di allora. Tra i molti titoli presenti figuravano Pioggia, dei geniali documentaristi olandesi Joris Ivens e Mannus Franken, Il Dottor Jekyll e Frankenstein, picchi imprescindibili dell’horror fantastico americano, diretti rispettivamente da Rouben Mamoulian e James Whale, Il cammino verso la vita, del maestro sovietico Nikolai Ekk, A me la libertà, firmato dal grande regista francese René Clair e Gli uomini, che mascalzoni… interpretato da un giovanissimo Vittorio De Sica e diretto da Mario Camerini. Quell’anno non vi saranno premiazioni ufficiali - fu il pubblico che, attraverso un referendum indetto dal comitato organizzatore, decretò sei riconoscimenti, tra cui il premio al film più divertente, quello alla fantasia più originale o quello più commovente - fino all’edizione del 1934, in cui si decise, dato lo strepitoso successo riscontrato, di trasformare la mostra in un appuntamento annuale, mentre la giuria internazionale, organo di decisione e distribuzione dei premi, subentrerà nel 1935. Più le edizioni si susseguirono e più il Festival acquisì valore e fama, finché nel 1937 si inaugurò una nuova sede: il Palazzo del Cinema. Comprendendone l’enorme potenziale comunicativo il regime fascista si inserì sempre più prepotentemente nei meccanismi della manifestazione, tanto che, fino al 1942, il maggior riconoscimento di Venezia sarà la cosiddetta Coppa Mussolini, che incoronava il miglior film italiano e il miglior film straniero. Durante tutto il decennio apparvero al Lido opere audaci e rivoluzionarie, e i grandi studios di Hollywood cominciarono a sostenere la mostra inviando un alto numero di prodotti. Fu così che i grandi capolavori americani degli anni Trenta fecero il loro ingresso nel Palazzo del Cinema. Josef von Sternberg, Frank Capra, Ernst Lubitsch, William Wyler, King Vidor, John Ford, gli autori della mecca del cinema desideravano presentare le loro pellicole durante la manifestazione in modo da acquisire una sorta di marchio qualitativo. Anche le star non tardarono ad arrivare: Marlene Dietrich sbarcò al Festival attirando un grande interesse su di sé, Katherine Hepburn e Bette Davis vinsero, nel ‘34 e nel ‘37, i premi per la migliore interpretazione femminile. Intanto i film giunti dal resto del mondo regalavano emozioni indimenticabili, come quando nel lungometraggio cecoslovacco Estasi (1933) l’orgasmo liberatorio e il nudo di Hedy Kiesler - la futura star hollywoodiana Hedy Lamarr - squarciarono lo schermo veneziano destando grande scalpore, o quando Debaki Bose, pioniere del cinema indiano, arrivò al Lido per presentare il suo Seeta (1934), un episodio che demolì quella muraglia che impediva la diffusione del cinema orientale in Occidente, e che permise a cineasti come Rajaram Vankudre Shantaram (India), Hiroshi Shimizu e Tomotaka Tasaka (Giappone) di entrare nel circuito dei riconoscimenti internazionali. Già in quei primi anni a Venezia la presenza femminile non fu esclusivamente legata alla figura della diva, difatti la mostra ebbe la grande fortuna di ospitare registe chiave della storia cinematografica: da Lois Weber, pioniera del cinema narrativo americano che giunse con Il calore bianco (1934), all’austriaca Leontine Sagan, che con Ragazze in uniforme (1931) presentò una potente e sentita storia d’amore omosessuale frutto degli ultimi ruggiti dell’era di Weimar, fino alla tedesca Leni Riefenstahl che per il documentario sportivo Olympia (1938) fu premiata con la Coppa Mussolini ma fortemente criticata, sopratutto dalla stampa anglosassone, per l’apologia nazista su cui si fondava la sua opera. Con l’avvento della Seconda Guerra Mondiale la mostra si spostò dal Lido a Venezia città, rimanendovi fino al 1948 e perdendo quell’aria mondana che l’aveva, fino a quel momento, contraddistinta. Sono anni difficili per il Festival, tanto da essere in seguito quasi obliati a causa del loro carattere prettamente propagandistico. Gli assetti del conflitto tranciarono di netto il numero di nazioni partecipanti, che si ridussero a Italia, Germania - che dominò le competizioni - Boemia, Romania, Svizzera, Svezia, Ungheria e Spagna. Tra le pellicole di aperta propaganda politica, come ad esempio l’offensivo e disturbante Süss l’ebreo (1940), spiccarono, nel 1941, La nave bianca, lungometraggio d’esordio di Roberto Rossellini, e La corona di ferro, capolavoro dalle venature pacifiste firmato da Alessandro Blasetti e vincitore del premio principale. Con l’aggravarsi della situazione mondiale la manifestazione si interruppe nel 1942 per riprendere, a guerra finita, sotto una nuova e rinnovata luce.
Leone d’Oro
Con la fine del conflitto gli anni di regime trovarono la loro conclusione, e così il premio principale di Venezia doveva necessariamente cambiare per lasciarsi alle spalle un’oscura parentesi della storia italiana. Dopo l’edizione del 1946 - in cui venne nominata una commissione che avrebbe dovuto semplicemente segnalare i sette migliori film presentati all’interno del programma - le due Coppe Mussolini, attribuite al miglior film italiano e straniero, vennero fuse nel Gran Premio Internazionale di Venezia, rappresentato dalla scultura di un leone alato, storico simbolo della città. Il premio rimarrà con questo nome per due anni fino a quando, nel 1949, verrà ribattezzato Leone di San Marco e successivamente, nel 1954, Leone d’Oro. Vi furono però due occasioni in cui le giurie internazionali presero la controversa decisione di non assegnare l’ambito riconoscimento. La prima volta nel 1953, quando i membri giudicanti, capitanati dal poeta Eugenio Montale, si rifiutarono di incoronare un vincitore. La situazione fu alquanto anomala poiché, in assenza del Leone d’Oro, vennero assegnati, nell’arco di una serata di premiazione a dir poco tesa, sei Leoni d’Argento - il secondo riconoscimento più importante della manifestazione, attribuito a un'opera che si è, dopo il vincitore, particolarmente contraddistinta - e quattro Leoni di Bronzo su sedici film in competizione. Questo fatto aprì un varco a non poche polemiche, dal momento che furono premiate, con riconoscimenti minori, opere innegabilmente rilevanti come: I vitelloni (Italia) di Federico Fellini, Thérèse Raquin (Francia) di Marcel Carné, Moulin Rouge (Regno Unito) di John Huston, I racconti della luna pallida d’agosto (Giappone) di Kenji Mizoguchi, Sadko (Unione Sovietica) di Aleksandr Ptuško e Sinhá Moça (Brasile) di Tom Payne. Come era possibile non avere un vincitore? La giuria motivò che «pur constatando il notevole livello medio delle opere presentate» si era dovuto «con vivo rammarico, rilevare che nessuna di esse si era imposta per valore assoluto distaccandosi dalle altre»: incompetenza o fin troppa pretenziosità? Lo stesso episodio si ripetè nel 1956, con l’aggiunta che questa volta anche il Leone d’Argento mancava all’appello. I sette giurati, tra cui il regista Luchino Visconti e il critico André Bazin - fondatore del mensile Cahiers du cinéma - annunciarono, in un cordiale ma intransigente comunicato, che non ci sarebbero stati premi all’infuori dei riconoscimenti agli interpreti, Maria Schell per Gervaise e André Bourvil per La traversata di Parigi. Il fatto creò grande scompiglio a livello mediatico, infatti anche in questo caso la rincorsa a canoni fin troppo criptici, e probabilmente la non omogeneità di pensiero nella giuria, avevano portato all’esclusione di lavori degni di nota. Di questa edizione si possono infatti ricordare gli spagnoli Calle Mayor e Calabuch, rispettivamente diretti da Juan Antonio Bardem e Luis García-Berlanga, il greco L’orco di Nikos Koundouros, il giapponese L’arpa Birmana di Kon Ichikawa o gli americani Prima linea, di Robert Aldrich, e Dietro lo specchio di Nicholas Ray.
Polemica
Molte volte nella storia di Venezia le vittorie del Leone d’Oro, o la presentazione di opere controverse, sono state accompagnate da accese polemiche che, in alcuni casi, si trasformavano in vere e proprie odissee ideologiche. Le testate giornalistiche si dividevano in fazioni dichiarandosi guerre a suon di penna, gridando all'indignazione, o difendendo aspramente i loro film prediletti. L’edizione del 1954 rimane negli annali come una delle più dibattute e sofferte di sempre. Quell’anno il programma poteva vantare autori come Akira Kurosawa (I sette samurai), Elia Kazan (Fronte del porto), Alfred Hitchcock (La finestra sul cortile), Federico Fellini (La strada) e Luis Buñuel (con due opere, Le avventure di Robinson Crusoe e Le rive della morte). La pietra dello scandalo fu però rappresentata da Senso di Luchino Visconti, un’opera di revisionismo storico che affrontava i fatti del Risorgimento italiano da un nuovo e scottante punto di vista. La storia della contessa Livia Serpieri, (Alida Valli) che per amore di un tenente austriaco (Farley Granger) tradisce i suoi ideali di patriota, restituiva un ritratto ambiguo, e nient’affatto celebrativo, della Terza guerra d'indipendenza (1866). Per gran parte della critica non vi erano dubbi, Senso doveva essere il vincitore. Ma, alla serata di premiazione del sette settembre, il direttore della mostra Ottavio Croze dichiarò che il Leone d’Oro sarebbe stato assegnato a Giulietta e Romeo di Renato Castellani. Si scatenò così l’inferno: il rumore dei fischietti, portati ogni anno dal pubblico veneziano per esprimere il suo potenziale dissenso sui verdetti della giuria, tuonò per la sala accompagnato da voci che inneggiavano il nome di Visconti. L’atmosfera era talmente calda che quando si scoprì che il Leone d’Argento sarebbe stato assegnato a La strada, Moraldo Rossi - assistente di Fellini - per impedire ulteriori schiamazzi, si gettò furiosamente su Franco Zeffirelli - protetto di Visconti - strappandogli di bocca il fischietto con cui guidava la sommossa generale. Il regista milanese uscì ancora una volta a mani vuote. La spiegazione del mancato riconoscimento andava probabilmente imputata al fatto che l’identità nazionale, sopratutto negli anni del dopoguerra, risultava ancora un argomento estremamente delicato. Inoltre, come disse Gian Luigi Rondi, Visconti era un autore «avversato da molti nelle stanze del potere», che già era stato messo da parte nell’edizione del 1949, quando il neorealista La terra trema perse il Gran Premio contro l’Amleto di Laurence Olivier. Con un curioso scherzo del destino, in entrambe le occasioni furono due film di matrice shakespeariana ad avere la meglio sui lavori di Visconti. Negli anni successivi il regista avrà però la sua rivincita, mietendo vittorie con Le notti bianche (1957) e Rocco e i suoi fratelli (1960), riconosciuti con il Leone d’Argento, e Vaghe stelle dell’Orsa, eletto Leone d’Oro nel 1965.
Meno concitato, ma egualmente polemico, fu il giudizio della critica nel 1990 sulla vittoria del teatrale Rosencrantz e Guildenstern sono morti, diretto dal drammaturgo inglese Tom Stoppard. Un Leone d’Oro fischiato e ritenuto immotivato rispetto a un programma che vantava opere profondamente cinematografiche come Un angelo alla mia tavola, dell’allora astro nascente Jane Campion - che tre anni dopo avrebbe vinto la Palma d’Oro a Cannes per Lezioni di piano - Mo’ Better Blues di Spike Lee e Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese.
Il nome di Scorsese era già stato legato, due anni prima, a un’altra celebre «guerra veneziana» incentrata sulla proiezione, fuori concorso, di L’ultima tentazione di Cristo (1988). La controversa opera del cineasta newyorkese - che restituiva l’immagine di un Messia schiavo della propria condizione di uomo, soggetto alla passione carnale e terrorizzato dalla sua missione spirituale - costò all’allora direttore della mostra, Guglielmo Biraghi, un feroce attacco da parte della Democrazia Cristiana. La battaglia fu aspra e il film ottenne il nulla osta per la proiezione solo grazie all’intervento del procuratore della Repubblica di Venezia che, visionandolo in anteprima con otto magistrati, ne decretò la non offensività. Un fatto che ricorda non poco il caso de I Diavoli, lungometraggio firmato dal visionario regista Ken Russell che, durante la sua presentazione alla mostra del 1971, fu accusato di sacrilegio e blasfemia da parte dei maggiori organi cattolici. Ma Scorsese e Russell non furono gli unici autori a finire nell’occhio del ciclone, molti sono stati i casi di pellicole ritenute «esageratamente immorali». Torna alla memoria il 1982, quando i membri della giuria si coalizzarono contro il presidente Marcel Carné per non premiare Querelle de Brest, ultimo capolavoro queer di Rainer Werner Fassbinder, o il 1958 e il 1966, quando Gli amanti di Louis Malle e Giochi di notte di Mai Zetterling lasciarono esterrefatti i benpensanti a causa delle esplicite - per l’epoca - scene di sesso e nudità.
Politica
Al Festival di Venezia la parola polemica è spesso entrata in connessione con la parola politica. Molti Leoni d’Oro erano stati consegnati, nel mezzo di non pochi dibattiti, ad opere di denuncia sociale come Giustizia è fatta di André Cayatte (1950), Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi, La battaglia di Algeri (1966) di Gillo Pontecorvo, ma mai come nel decennio sessantanove-settantanove i fatti politici erano subentrati così profondamente nel cuore della mostra, sconvolgendola. Il 1968, anno delle grandi contestazioni studentesche, era stato rappresentato da un edizione profondamente complessa. In Francia il Festival di Cannes si era interrotto, per rispetto agli scioperi giovanili, prima che i premi venissero consegnati mentre, tra dibattiti - portati avanti da personalità come Pier Paolo Pasolini e Marco Ferreri - e momenti di estrema disarmonia, Venezia era riuscita a stilare una lista dei propri vincitori. In un concorso in cui figuravano grandi promesse, come Liliana Cavani (Galileo), Bernardo Bertolucci (Partner) e Miklós Jancsó (Silenzio e Grido), fu il tedesco Alexander Kluge a trionfare con lo sperimentale Artisti sotto la tenda del circo: perplessi, prima che la manifestazione diventasse, dall’anno successivo, non competitiva. Sulla scia della grande rivoluzione politico-culturale sessantottina il 1969 segnò la soppressione dei premi, e il Leone d’Oro si trasformò in un tributo da consegnare ogni anno a un grande maestro della storia del cinema. Così la giornalista Flavia Paulon commenterà i nuovi assetti: « In questa visione la mostra dovrebbe trasformarsi, secondo i suoi responsabili, in una grande tribuna di cinema a tutti disponibile, in cui tendenze, evoluzioni, sperimentazioni, incontri tra critici, autori, studiosi si rendano possibili». Le aspettative saranno soddisfatte solo a metà perché se da una parte Venezia mostrò di voler rendere possibile un’utopia, dall’altra perse inevitabilmente terreno e credibilità sul piano internazionale, lasciando a Cannes e Berlino la possibilità di aggiudicarsi, e premiare, opere chiave degli anni Settanta. Nonostante le presentazioni di L’adultera di Ingmar Bergman, Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, Sorellina d’estate di Nagisa Ōshima, l’evento risultò discontinuo e, in alcuni casi, insufficiente. Nel 1972 nacquero le Giornate del cinema italiano, una serie di proiezioni seguite da dibattiti e organizzate nelle piazze di Venezia città, che si contrapposero alla mostra aggravandone la crisi. Essa arriverà a essere addirittura annullata negli anni 1973 e 1978 o a essere drasticamente ridotta a una piccola rassegna di proposte e retrospettive. Fu nel 1980, sotto la direzione di Carlo Lizzani, che si decise di rivitalizzarla reinserendo la competizione ufficiale. Con queste premesse il Festival fu adattato alla modernità, con sezioni parallele ed eventi aperti ai nuovi e diversificati gusti del pubblico: Venezia tornava, ancora una volta, a brillare.
Ex-aequo
I Festival cinematografici sono come il vino, vi sono annate cattive e annate buone, spesso talmente buone da costringere una giuria internazionale a dividere il premio principale.Venezia è sempre stata, rispetto ad altre manifestazioni cinematografiche, particolarmente oculata nel dichiarare la parità fra due opere, ma questo non vuol dire che non ci siano stati casi in cui non si sia trovata a dover ammettere che il vincitore non fosse coniugato al singolare. Il primo ex-aequo da Leone d’Oro risale al 1959 e fu vinto da due grandi maestri del nostro cinema: Roberto Rossellini e Mario Monicelli. In un’edizione decisamente ricca di autori, che spaziava da Claude Chabrol (A doppia mandata) a Billy Wilder (A qualcuno piace caldo), da Otto Preminger (Anatomia di un omicidio) a Ingmar Bergman (Il volto), Rossellini e Monicelli si presentarono con dei lungometraggi specchio della loro poetica: Il generale Della Rovere e La grande guerra. Roberto Rossellini aveva un rapporto d’amore e odio con la kermesse veneziana: dopo l’esplosivo esordio del 1941 i successivi L’amore (1948), Stromboli (1950), Francesco Giullare di Dio (1950) e Europa 51 (1952) erano stati accolti freddamente dalla mostra. La critica sembrava non voler perdonare al regista quel suo repentino cambio di rotta verso dei toni maggiormente esistenziali. Con Il generale Della Rovere, storia di un imbroglione che durante la seconda guerra mondiale si macchia di collaborazionismo per poi redimersi in un ultimo eroico gesto, Rossellini tornava alle tematiche - la guerra, la lotta del popolo, il sacrificio - dei suoi capolavori Roma città aperta (1945), Paisà (1946) e Germania anno zero (1948). Monicelli invece, che giungeva al Lido con la sua fama di regista proveniente dalla satira sociale, presentava La grande guerra, un film che si proponeva come un ibrido fra la commedia e il dramma. La pellicola seguiva le gesta, a volte ironiche a volte tragiche, di due soldati del primo conflitto mondiale - interpretati da Vittorio Gassman e Alberto Sordi - denunciando, attraverso un’amara ironia, la crudeltà e le miserie della vita al fronte. Questa doppia vittoria può essere, ad oggi, considerata come un importante traguardo del cinema italiano poiché finalmente si riconosceva, grazie a un premio come il Leone d’Oro, il tragitto artistico di un cineasta essenziale come Rossellini e il valore di Monicelli, regista che poi avrebbe giocato un ruolo fondamentale nella costruzione iconografica della «commedia all’italiana» degli anni Sessanta e Settanta.
Il secondo pari merito del Festival avvenne nel 1962, portato a casa da un altro italiano, Valerio Zurlini, in compagnia del sovietico Andrej Tarkovskij. Tarkovskij si trovava, con L’infanzia di Ivan, al suo primo lungometraggio, mentre Zurlini aveva già alle spalle una lunga carriera e con Cronaca familiare si candidava con una delle sue opere più struggenti e sofferte. Su un concorso definito, da una stampa nevroticamente puritana, come «scandaloso» - erano in competizione, tra gli altri, Lolita di Kubrick, Mamma Roma di Pasolini, Questa è la mia vita di Jean-Luc Godard - il duo dei pittorici e commoventi film vincitori fu salutato in un clima stranamente concorde.
Invece nel 1980, primo anno di ritorno alla competizione, il Leone fu conquistato da Atlantic City, pellicola di co-produzione franco-canadese, e terza in lingua inglese, di Louis Malle, e Gloria, opera cardine del cinema indipendente americano firmata da John Cassavetes. Noir post-moderni ambientati in giungle urbane dove violenza e criminalità la fanno da padrone mentre l’essere umano, pedina in balia degli eventi, deve cercare di adattarsi, o semplicemente sopravvivere, ad un universo ostile. Queste due vittorie furono un’occasione per riconoscere, tramite uno storico premio, un nuovo modo di intendere la settima arte. L’America tornò sul palco del Lido anche nell’edizione del 1993 grazie a uno dei suoi più iconici autori, Robert Altman. Altman, che portava America Oggi, si trovò a condividere il podio con il polacco Krzysztof Kieślowski, in competizione con Tre colori - Film blu. Due film, a loro modo, entrambi episodici, America Oggi nella sua struttura - Altman mischia, in uno stile che ricorda una versione cinematografica dei racconti di Carver, una serie di microstorie ambientate nella periferia di Los Angeles - mentre Film blu nella sua concezione complessiva, dal momento che esso rappresenta il primo capitolo di una trilogia che Kieślowski dedica al motto, e ai colori della bandiera francese. L’ultima parità del premio principale risale al 1994, vinto da Vive l’amour, del regista taiwanese Tsai Ming-liang, e da Prima della pioggia, del macedone Milčo Mančevski. La maggior parte della stampa fu unanime nell’approvare il verdetto della giuria capitanata da David Lynch.
Presente
Continuando per tutto il corso degli anni Novanta a ospitare gli autori più svariati, da Abel Ferrara a Ken Loach, da Nicole Garcia a Emir Kusturica, da Lars von Trier a Steven Spielberg, Venezia seppe adattarsi ai tempi, sopravvivendo all’ingresso nel duemila e mutando assieme al cinema stesso. In questo clima di grande cambiamento si susseguirono le vittorie di Monsoon Wedding (2001) - dell’indiana Mira Nair, quarta donna a trionfare sul concorso dopo Leni Riefenstahl, Margarethe von Trotta e Agnes Varda - di Magdalene (2002), dell’irlandese Peter Mullen, e di Il segreto di Vera Drake (2004) primo, e lungamente atteso, Leone d’Oro al regista inglese Mike Leigh. Doppio riconoscimento invece, nell’arco di soli tre anni, per Ang Lee, applaudito ne I segreti di Brokeback Mountain (2005) - struggente racconto dell’impossibile amore tra due cowboy, filmato dal cineasta taiwanese alla sua quinta regia americana - e in Lussuria (2007), variazione sul tema del desiderio e dell’inganno. Mentre le regole formali del cinema evolvevano si assistette, con The Wrestler (2008), di Darren Aronofsky, e Somewhere (2010), di Sofia Coppola, al trionfo degli autori del nuovo millennio che, con le loro estetiche stranianti, davano vita a parabole moderne sull’isolamento e l’incomunicabilità. Nel 2011 fu il turno del Faust di Aleksandr Sokurov, pura e incontaminata esperienza visiva - come in fondo gran parte dell’opera di questo regista - dai toni onirico-filosofici. Il Leone d’Oro, consegnato con l'unanimità della giuria al film, risultò una grande sorpresa per tutti, dal momento che sia il pubblico che la critica si sarebbero aspettati la vittoria di Roman Polanski per Carnage. Nel 2013, con Sacro GRA invece, l’italiano Gianfranco Rosi commuove il presidente di giuria Bernardo Bertolucci e diventa il secondo cineasta, dopo il grande Robert J. Flaherty - vincitore nel 1934 della Coppa Mussolini per L’uomo di Aran - ad aggiudicarsi il premio principale per un documentario. L’opera, dura come lo svolgersi inesorabile dell’esistenza, racconta le vite dei dimenticati, persone che abitano l’anello autostradale che circonda Roma, in un mondo ai margini fatto di lotte e solitudini quotidiane. Nel 2014 fu la bandiera svedese a ondeggiare vincitrice sul Lido per Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza. Grazie alle sue alienate atmosfere questo lungometraggio di Roy Andersson si fece manifesto di quel tono grottesco e tragicomico - tipico dell’attuale cinematografia nordica - condiviso, e portato avanti, da registi come Ruben Östlund, grande autore scandinavo della scena contemporanea. Dal 2015, dopo l’assegnazione del riconoscimento principale al venezuelano Lorenzo Vigas per Ti guardo, si assistette alla celebrazione dei cineasti latinoamericani. La forma dell’acqua (2017), prodotto in USA e diretto da Guillermo del Toro, rappresentò la vittoria di un immaginario che, attraverso i suoi toni favolistici, si fa allegoria dei mali che attanagliano la nostra società. Mentre con Roma (2018), storia familiare ambientata nel Messico degli anni Settanta e girata in uno straordinario bianco e nero, Alfonso Cuarón portò un grande colosso dello streaming come Netflix - finanziatore del film - a vincere, per la prima volta, un festival europeo. Invece, con l’avvento degli americani Joker (2019) di Todd Phillips - opera di reinvenzione del cinecomic sotto il segno di autori come Scorsese, Brian De Palma, Michael Mann - e Nomadland (2020) di Chloé Zhao - film elegiaco, portavoce di una sorta di neorealismo contemporaneo - Venezia proclamò la vittoria dei rappresentanti della cinematografia del nostro tempo. Con il palmarès del 2021, che vedeva Audrey Diwan vittoriosa per La scelta di Anne, si torna invece al dramma intimista francese che, con la sua lucida condanna all’impossibilità femminile di scegliere sul proprio corpo, risulta più attuale e potente che mai.
Per il suo novantesimo compleanno il Festival chiama a sé una fitta e variegata schiera di autori. I titoli in gara - molti e promettenti - passeranno dai ritratti femminili di Joanna Hogg (The Eternal Daughter), Andrew Dominik (Blonde), Susanna Nicchiarelli (Chiara), Alice Diop (Saint Omer), Frederick Wiseman (Un couple), ai grandi ritorni di Todd Field (Tár) Emanuele Crialese (L’immensità), Darren Aronofsky (The Whale) e Andrea Pallaoro (Monica). Vi saranno anche le ultime fatiche di Noah Baumbach (White Nose), apripista della manifestazione, Luca Guadagnino (Bones and All), Rebecca Zlotowski (Les enfants des autres), Alejandro González Iñárritu (Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades), o i nuovi lavori di Laura Poitras (All The Beauty and The Bloodshed), Santiago Mitre (Argentina, 1985), Jafar Panahi (Khers nist) e Romain Gravas (Athena). Nomi come Kōji Fukada (Love Life), Martin McDonagh (The Banshees of Inisherin), Florian Zeller (The Son), Vahid Jalilvand (Šab, dākheli, divār), Gianni Amelio (Il signore delle formiche) e Roschdy Zem (Les Miens) completano la lista di una competizione che si preannuncia, almeno sulla carta, come una delle più accese degli ultimi anni. Alte sono anche le aspettative sul fuori concorso, che vede sfilare decani come Paul Schrader (Master Gardener), Walter Hill (Dead For a Dollar), e Lars von Trier (Riget Exodus), ex vincitori come Lav Diaz (Kapag wala nang mga alon), e Kim Ki-duk (Kõne taevast) - presente attraverso il suo ultimo lungometraggio postumo - filmmaker di culto come Nicolas Winding Refn (Copenhagen Cowboy) e Ti West (Pearl), o nuove scommesse come Olivia Wilde (Don’t Worry Darling), al suo esordio dietro la macchina da presa. Una sola cosa è certa, il verdetto su chi sarà riconosciuto Leone d’Oro 2022 tocca esclusivamente alla giuria, capitanata quest’anno dall’attrice americana Joulianne Moore, mentre a noi non resta che attendere, e lasciare che la Mostra d’arte cinematografica di Venezia faccia il suo corso.
Ripercorriamo l’epopea del Leone d’Oro
attraverso sei parole chiave,
di Alberto de Carolis Villars
TR-66
28.08.2022
Novant’anni di Venezia. Quest’anno la Rassegna d’Arte Cinematografica festeggia un importante traguardo che la incorona come il più antico Festival di cinema al mondo. Parlare di questa influente manifestazione non è cosa da poco e la sua storia, talmente estesa e ricca di particolari, potrebbe riempire pagine e pagine di enciclopedie specializzate. Venezia è stata da sempre, nel bene e nel male, specchio degli sviluppi e dei mutamenti che la settima arte ha incontrato lungo tutto il suo cammino. Noi, a pochi giorni dall’apertura del Festival, cercheremo di ricordare, per quanto possibile, le sue rocambolesche vicissitudini, le sue storiche vittorie e i dibattiti che l’hanno da sempre accompagnata, attraverso sei parole chiave.
Nascita
La Mostra del Cinema di Venezia è una parte della più vasta attività della Biennale, una storica fondazione culturale inaugurata nel 1895 proprio nella città lagunare per dar vita a una rassegna, tenutasi ogni due anni, di arte contemporanea. Fin dal suo primo allestimento, e per le diciassette edizioni successive, la Biennale d’arte di Venezia riscosse un grande clamore tanto da convincere il conte Giuseppe Volpi di Misurata, l’allora presidente dell’ente, a fondare altre esposizioni multidisciplinari. Così nel 1930, a seguito di una grande riforma, nacque il Festival Internazionale di Musica Contemporanea seguito, nel 1932, dalla prima edizione della Rassegna d’Arte Cinematografica di Venezia. L’idea di creare un evento dedicato al cinema nacque in Volpi grazie all’intercessione dello scultore, e segretario della Biennale, Antonio Maraini. Maraini cominciò a interrogarsi sulla possibilità di portare le grandi folle alle manifestazioni culturali, fino a quel momento pensate per un pubblico di nicchia. Volpi, proprietario della compagnia Grandi Alberghi, di cui faceva parte il celebre Hotel Excelsior situato al Lido, era interessato a incrementare il turismo a Venezia che, in seguito alla crisi del ‘29, aveva subito un potente ribasso. Il conte vide quindi in questo progetto una grande opportunità per far sposare l’interesse economico con quello artistico. Il cinema iniziava, proprio in quel periodo, a essere accettato come un mezzo creativo. Durante tutto il corso del decennio precedente la sperimentazione tecnica - come l’avanguardismo francese, la scuola sovietica, l’espressionismo tedesco, l’avvento di Hollywood e via dicendo - aveva portato alla creazione di grandi capolavori. Serviva quindi un punto d’incontro - gli Oscar, inaugurati nel 1927, erano un fenomeno troppo chiuso nell’industria cinematografica statunitense e non duravano che lo spazio di una serata - che facesse convergere le cinematografie mondiali, più precisamente un’esposizione che racchiudesse in sé il meglio di questa «nuova arte». Michelangelo Antonioni avrebbe poi scritto: «Mi piace pensare che la mostra venne al mondo per il bisogno di definire il lavoro di quegli anni fecondi». Il primo Festival si aprì sulla maestosa terrazza dell’Excelsior il sei agosto 1932 per concludersi il ventuno dello stesso mese. L’abbondante programma poteva vantare autentiche gemme di differente nazionalità e segnava l’inizio di un prezioso incontro mai avvenuto prima di allora. Tra i molti titoli presenti figuravano Pioggia, dei geniali documentaristi olandesi Joris Ivens e Mannus Franken, Il Dottor Jekyll e Frankenstein, picchi imprescindibili dell’horror fantastico americano, diretti rispettivamente da Rouben Mamoulian e James Whale, Il cammino verso la vita, del maestro sovietico Nikolai Ekk, A me la libertà, firmato dal grande regista francese René Clair e Gli uomini, che mascalzoni… interpretato da un giovanissimo Vittorio De Sica e diretto da Mario Camerini. Quell’anno non vi saranno premiazioni ufficiali - fu il pubblico che, attraverso un referendum indetto dal comitato organizzatore, decretò sei riconoscimenti, tra cui il premio al film più divertente, quello alla fantasia più originale o quello più commovente - fino all’edizione del 1934, in cui si decise, dato lo strepitoso successo riscontrato, di trasformare la mostra in un appuntamento annuale, mentre la giuria internazionale, organo di decisione e distribuzione dei premi, subentrerà nel 1935. Più le edizioni si susseguirono e più il Festival acquisì valore e fama, finché nel 1937 si inaugurò una nuova sede: il Palazzo del Cinema. Comprendendone l’enorme potenziale comunicativo il regime fascista si inserì sempre più prepotentemente nei meccanismi della manifestazione, tanto che, fino al 1942, il maggior riconoscimento di Venezia sarà la cosiddetta Coppa Mussolini, che incoronava il miglior film italiano e il miglior film straniero. Durante tutto il decennio apparvero al Lido opere audaci e rivoluzionarie, e i grandi studios di Hollywood cominciarono a sostenere la mostra inviando un alto numero di prodotti. Fu così che i grandi capolavori americani degli anni Trenta fecero il loro ingresso nel Palazzo del Cinema. Josef von Sternberg, Frank Capra, Ernst Lubitsch, William Wyler, King Vidor, John Ford, gli autori della mecca del cinema desideravano presentare le loro pellicole durante la manifestazione in modo da acquisire una sorta di marchio qualitativo. Anche le star non tardarono ad arrivare: Marlene Dietrich sbarcò al Festival attirando un grande interesse su di sé, Katherine Hepburn e Bette Davis vinsero, nel ‘34 e nel ‘37, i premi per la migliore interpretazione femminile. Intanto i film giunti dal resto del mondo regalavano emozioni indimenticabili, come quando nel lungometraggio cecoslovacco Estasi (1933) l’orgasmo liberatorio e il nudo di Hedy Kiesler - la futura star hollywoodiana Hedy Lamarr - squarciarono lo schermo veneziano destando grande scalpore, o quando Debaki Bose, pioniere del cinema indiano, arrivò al Lido per presentare il suo Seeta (1934), un episodio che demolì quella muraglia che impediva la diffusione del cinema orientale in Occidente, e che permise a cineasti come Rajaram Vankudre Shantaram (India), Hiroshi Shimizu e Tomotaka Tasaka (Giappone) di entrare nel circuito dei riconoscimenti internazionali. Già in quei primi anni a Venezia la presenza femminile non fu esclusivamente legata alla figura della diva, difatti la mostra ebbe la grande fortuna di ospitare registe chiave della storia cinematografica: da Lois Weber, pioniera del cinema narrativo americano che giunse con Il calore bianco (1934), all’austriaca Leontine Sagan, che con Ragazze in uniforme (1931) presentò una potente e sentita storia d’amore omosessuale frutto degli ultimi ruggiti dell’era di Weimar, fino alla tedesca Leni Riefenstahl che per il documentario sportivo Olympia (1938) fu premiata con la Coppa Mussolini ma fortemente criticata, sopratutto dalla stampa anglosassone, per l’apologia nazista su cui si fondava la sua opera. Con l’avvento della Seconda Guerra Mondiale la mostra si spostò dal Lido a Venezia città, rimanendovi fino al 1948 e perdendo quell’aria mondana che l’aveva, fino a quel momento, contraddistinta. Sono anni difficili per il Festival, tanto da essere in seguito quasi obliati a causa del loro carattere prettamente propagandistico. Gli assetti del conflitto tranciarono di netto il numero di nazioni partecipanti, che si ridussero a Italia, Germania - che dominò le competizioni - Boemia, Romania, Svizzera, Svezia, Ungheria e Spagna. Tra le pellicole di aperta propaganda politica, come ad esempio l’offensivo e disturbante Süss l’ebreo (1940), spiccarono, nel 1941, La nave bianca, lungometraggio d’esordio di Roberto Rossellini, e La corona di ferro, capolavoro dalle venature pacifiste firmato da Alessandro Blasetti e vincitore del premio principale. Con l’aggravarsi della situazione mondiale la manifestazione si interruppe nel 1942 per riprendere, a guerra finita, sotto una nuova e rinnovata luce.
Leone d’Oro
Con la fine del conflitto gli anni di regime trovarono la loro conclusione, e così il premio principale di Venezia doveva necessariamente cambiare per lasciarsi alle spalle un’oscura parentesi della storia italiana. Dopo l’edizione del 1946 - in cui venne nominata una commissione che avrebbe dovuto semplicemente segnalare i sette migliori film presentati all’interno del programma - le due Coppe Mussolini, attribuite al miglior film italiano e straniero, vennero fuse nel Gran Premio Internazionale di Venezia, rappresentato dalla scultura di un leone alato, storico simbolo della città. Il premio rimarrà con questo nome per due anni fino a quando, nel 1949, verrà ribattezzato Leone di San Marco e successivamente, nel 1954, Leone d’Oro. Vi furono però due occasioni in cui le giurie internazionali presero la controversa decisione di non assegnare l’ambito riconoscimento. La prima volta nel 1953, quando i membri giudicanti, capitanati dal poeta Eugenio Montale, si rifiutarono di incoronare un vincitore. La situazione fu alquanto anomala poiché, in assenza del Leone d’Oro, vennero assegnati, nell’arco di una serata di premiazione a dir poco tesa, sei Leoni d’Argento - il secondo riconoscimento più importante della manifestazione, attribuito a un'opera che si è, dopo il vincitore, particolarmente contraddistinta - e quattro Leoni di Bronzo su sedici film in competizione. Questo fatto aprì un varco a non poche polemiche, dal momento che furono premiate, con riconoscimenti minori, opere innegabilmente rilevanti come: I vitelloni (Italia) di Federico Fellini, Thérèse Raquin (Francia) di Marcel Carné, Moulin Rouge (Regno Unito) di John Huston, I racconti della luna pallida d’agosto (Giappone) di Kenji Mizoguchi, Sadko (Unione Sovietica) di Aleksandr Ptuško e Sinhá Moça (Brasile) di Tom Payne. Come era possibile non avere un vincitore? La giuria motivò che «pur constatando il notevole livello medio delle opere presentate» si era dovuto «con vivo rammarico, rilevare che nessuna di esse si era imposta per valore assoluto distaccandosi dalle altre»: incompetenza o fin troppa pretenziosità? Lo stesso episodio si ripetè nel 1956, con l’aggiunta che questa volta anche il Leone d’Argento mancava all’appello. I sette giurati, tra cui il regista Luchino Visconti e il critico André Bazin - fondatore del mensile Cahiers du cinéma - annunciarono, in un cordiale ma intransigente comunicato, che non ci sarebbero stati premi all’infuori dei riconoscimenti agli interpreti, Maria Schell per Gervaise e André Bourvil per La traversata di Parigi. Il fatto creò grande scompiglio a livello mediatico, infatti anche in questo caso la rincorsa a canoni fin troppo criptici, e probabilmente la non omogeneità di pensiero nella giuria, avevano portato all’esclusione di lavori degni di nota. Di questa edizione si possono infatti ricordare gli spagnoli Calle Mayor e Calabuch, rispettivamente diretti da Juan Antonio Bardem e Luis García-Berlanga, il greco L’orco di Nikos Koundouros, il giapponese L’arpa Birmana di Kon Ichikawa o gli americani Prima linea, di Robert Aldrich, e Dietro lo specchio di Nicholas Ray.
Polemica
Molte volte nella storia di Venezia le vittorie del Leone d’Oro, o la presentazione di opere controverse, sono state accompagnate da accese polemiche che, in alcuni casi, si trasformavano in vere e proprie odissee ideologiche. Le testate giornalistiche si dividevano in fazioni dichiarandosi guerre a suon di penna, gridando all'indignazione, o difendendo aspramente i loro film prediletti. L’edizione del 1954 rimane negli annali come una delle più dibattute e sofferte di sempre. Quell’anno il programma poteva vantare autori come Akira Kurosawa (I sette samurai), Elia Kazan (Fronte del porto), Alfred Hitchcock (La finestra sul cortile), Federico Fellini (La strada) e Luis Buñuel (con due opere, Le avventure di Robinson Crusoe e Le rive della morte). La pietra dello scandalo fu però rappresentata da Senso di Luchino Visconti, un’opera di revisionismo storico che affrontava i fatti del Risorgimento italiano da un nuovo e scottante punto di vista. La storia della contessa Livia Serpieri, (Alida Valli) che per amore di un tenente austriaco (Farley Granger) tradisce i suoi ideali di patriota, restituiva un ritratto ambiguo, e nient’affatto celebrativo, della Terza guerra d'indipendenza (1866). Per gran parte della critica non vi erano dubbi, Senso doveva essere il vincitore. Ma, alla serata di premiazione del sette settembre, il direttore della mostra Ottavio Croze dichiarò che il Leone d’Oro sarebbe stato assegnato a Giulietta e Romeo di Renato Castellani. Si scatenò così l’inferno: il rumore dei fischietti, portati ogni anno dal pubblico veneziano per esprimere il suo potenziale dissenso sui verdetti della giuria, tuonò per la sala accompagnato da voci che inneggiavano il nome di Visconti. L’atmosfera era talmente calda che quando si scoprì che il Leone d’Argento sarebbe stato assegnato a La strada, Moraldo Rossi - assistente di Fellini - per impedire ulteriori schiamazzi, si gettò furiosamente su Franco Zeffirelli - protetto di Visconti - strappandogli di bocca il fischietto con cui guidava la sommossa generale. Il regista milanese uscì ancora una volta a mani vuote. La spiegazione del mancato riconoscimento andava probabilmente imputata al fatto che l’identità nazionale, sopratutto negli anni del dopoguerra, risultava ancora un argomento estremamente delicato. Inoltre, come disse Gian Luigi Rondi, Visconti era un autore «avversato da molti nelle stanze del potere», che già era stato messo da parte nell’edizione del 1949, quando il neorealista La terra trema perse il Gran Premio contro l’Amleto di Laurence Olivier. Con un curioso scherzo del destino, in entrambe le occasioni furono due film di matrice shakespeariana ad avere la meglio sui lavori di Visconti. Negli anni successivi il regista avrà però la sua rivincita, mietendo vittorie con Le notti bianche (1957) e Rocco e i suoi fratelli (1960), riconosciuti con il Leone d’Argento, e Vaghe stelle dell’Orsa, eletto Leone d’Oro nel 1965.
Meno concitato, ma egualmente polemico, fu il giudizio della critica nel 1990 sulla vittoria del teatrale Rosencrantz e Guildenstern sono morti, diretto dal drammaturgo inglese Tom Stoppard. Un Leone d’Oro fischiato e ritenuto immotivato rispetto a un programma che vantava opere profondamente cinematografiche come Un angelo alla mia tavola, dell’allora astro nascente Jane Campion - che tre anni dopo avrebbe vinto la Palma d’Oro a Cannes per Lezioni di piano - Mo’ Better Blues di Spike Lee e Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese.
Il nome di Scorsese era già stato legato, due anni prima, a un’altra celebre «guerra veneziana» incentrata sulla proiezione, fuori concorso, di L’ultima tentazione di Cristo (1988). La controversa opera del cineasta newyorkese - che restituiva l’immagine di un Messia schiavo della propria condizione di uomo, soggetto alla passione carnale e terrorizzato dalla sua missione spirituale - costò all’allora direttore della mostra, Guglielmo Biraghi, un feroce attacco da parte della Democrazia Cristiana. La battaglia fu aspra e il film ottenne il nulla osta per la proiezione solo grazie all’intervento del procuratore della Repubblica di Venezia che, visionandolo in anteprima con otto magistrati, ne decretò la non offensività. Un fatto che ricorda non poco il caso de I Diavoli, lungometraggio firmato dal visionario regista Ken Russell che, durante la sua presentazione alla mostra del 1971, fu accusato di sacrilegio e blasfemia da parte dei maggiori organi cattolici. Ma Scorsese e Russell non furono gli unici autori a finire nell’occhio del ciclone, molti sono stati i casi di pellicole ritenute «esageratamente immorali». Torna alla memoria il 1982, quando i membri della giuria si coalizzarono contro il presidente Marcel Carné per non premiare Querelle de Brest, ultimo capolavoro queer di Rainer Werner Fassbinder, o il 1958 e il 1966, quando Gli amanti di Louis Malle e Giochi di notte di Mai Zetterling lasciarono esterrefatti i benpensanti a causa delle esplicite - per l’epoca - scene di sesso e nudità.
Politica
Al Festival di Venezia la parola polemica è spesso entrata in connessione con la parola politica. Molti Leoni d’Oro erano stati consegnati, nel mezzo di non pochi dibattiti, ad opere di denuncia sociale come Giustizia è fatta di André Cayatte (1950), Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi, La battaglia di Algeri (1966) di Gillo Pontecorvo, ma mai come nel decennio sessantanove-settantanove i fatti politici erano subentrati così profondamente nel cuore della mostra, sconvolgendola. Il 1968, anno delle grandi contestazioni studentesche, era stato rappresentato da un edizione profondamente complessa. In Francia il Festival di Cannes si era interrotto, per rispetto agli scioperi giovanili, prima che i premi venissero consegnati mentre, tra dibattiti - portati avanti da personalità come Pier Paolo Pasolini e Marco Ferreri - e momenti di estrema disarmonia, Venezia era riuscita a stilare una lista dei propri vincitori. In un concorso in cui figuravano grandi promesse, come Liliana Cavani (Galileo), Bernardo Bertolucci (Partner) e Miklós Jancsó (Silenzio e Grido), fu il tedesco Alexander Kluge a trionfare con lo sperimentale Artisti sotto la tenda del circo: perplessi, prima che la manifestazione diventasse, dall’anno successivo, non competitiva. Sulla scia della grande rivoluzione politico-culturale sessantottina il 1969 segnò la soppressione dei premi, e il Leone d’Oro si trasformò in un tributo da consegnare ogni anno a un grande maestro della storia del cinema. Così la giornalista Flavia Paulon commenterà i nuovi assetti: « In questa visione la mostra dovrebbe trasformarsi, secondo i suoi responsabili, in una grande tribuna di cinema a tutti disponibile, in cui tendenze, evoluzioni, sperimentazioni, incontri tra critici, autori, studiosi si rendano possibili». Le aspettative saranno soddisfatte solo a metà perché se da una parte Venezia mostrò di voler rendere possibile un’utopia, dall’altra perse inevitabilmente terreno e credibilità sul piano internazionale, lasciando a Cannes e Berlino la possibilità di aggiudicarsi, e premiare, opere chiave degli anni Settanta. Nonostante le presentazioni di L’adultera di Ingmar Bergman, Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, Sorellina d’estate di Nagisa Ōshima, l’evento risultò discontinuo e, in alcuni casi, insufficiente. Nel 1972 nacquero le Giornate del cinema italiano, una serie di proiezioni seguite da dibattiti e organizzate nelle piazze di Venezia città, che si contrapposero alla mostra aggravandone la crisi. Essa arriverà a essere addirittura annullata negli anni 1973 e 1978 o a essere drasticamente ridotta a una piccola rassegna di proposte e retrospettive. Fu nel 1980, sotto la direzione di Carlo Lizzani, che si decise di rivitalizzarla reinserendo la competizione ufficiale. Con queste premesse il Festival fu adattato alla modernità, con sezioni parallele ed eventi aperti ai nuovi e diversificati gusti del pubblico: Venezia tornava, ancora una volta, a brillare.
Ex-aequo
I Festival cinematografici sono come il vino, vi sono annate cattive e annate buone, spesso talmente buone da costringere una giuria internazionale a dividere il premio principale.Venezia è sempre stata, rispetto ad altre manifestazioni cinematografiche, particolarmente oculata nel dichiarare la parità fra due opere, ma questo non vuol dire che non ci siano stati casi in cui non si sia trovata a dover ammettere che il vincitore non fosse coniugato al singolare. Il primo ex-aequo da Leone d’Oro risale al 1959 e fu vinto da due grandi maestri del nostro cinema: Roberto Rossellini e Mario Monicelli. In un’edizione decisamente ricca di autori, che spaziava da Claude Chabrol (A doppia mandata) a Billy Wilder (A qualcuno piace caldo), da Otto Preminger (Anatomia di un omicidio) a Ingmar Bergman (Il volto), Rossellini e Monicelli si presentarono con dei lungometraggi specchio della loro poetica: Il generale Della Rovere e La grande guerra. Roberto Rossellini aveva un rapporto d’amore e odio con la kermesse veneziana: dopo l’esplosivo esordio del 1941 i successivi L’amore (1948), Stromboli (1950), Francesco Giullare di Dio (1950) e Europa 51 (1952) erano stati accolti freddamente dalla mostra. La critica sembrava non voler perdonare al regista quel suo repentino cambio di rotta verso dei toni maggiormente esistenziali. Con Il generale Della Rovere, storia di un imbroglione che durante la seconda guerra mondiale si macchia di collaborazionismo per poi redimersi in un ultimo eroico gesto, Rossellini tornava alle tematiche - la guerra, la lotta del popolo, il sacrificio - dei suoi capolavori Roma città aperta (1945), Paisà (1946) e Germania anno zero (1948). Monicelli invece, che giungeva al Lido con la sua fama di regista proveniente dalla satira sociale, presentava La grande guerra, un film che si proponeva come un ibrido fra la commedia e il dramma. La pellicola seguiva le gesta, a volte ironiche a volte tragiche, di due soldati del primo conflitto mondiale - interpretati da Vittorio Gassman e Alberto Sordi - denunciando, attraverso un’amara ironia, la crudeltà e le miserie della vita al fronte. Questa doppia vittoria può essere, ad oggi, considerata come un importante traguardo del cinema italiano poiché finalmente si riconosceva, grazie a un premio come il Leone d’Oro, il tragitto artistico di un cineasta essenziale come Rossellini e il valore di Monicelli, regista che poi avrebbe giocato un ruolo fondamentale nella costruzione iconografica della «commedia all’italiana» degli anni Sessanta e Settanta.
Il secondo pari merito del Festival avvenne nel 1962, portato a casa da un altro italiano, Valerio Zurlini, in compagnia del sovietico Andrej Tarkovskij. Tarkovskij si trovava, con L’infanzia di Ivan, al suo primo lungometraggio, mentre Zurlini aveva già alle spalle una lunga carriera e con Cronaca familiare si candidava con una delle sue opere più struggenti e sofferte. Su un concorso definito, da una stampa nevroticamente puritana, come «scandaloso» - erano in competizione, tra gli altri, Lolita di Kubrick, Mamma Roma di Pasolini, Questa è la mia vita di Jean-Luc Godard - il duo dei pittorici e commoventi film vincitori fu salutato in un clima stranamente concorde.
Invece nel 1980, primo anno di ritorno alla competizione, il Leone fu conquistato da Atlantic City, pellicola di co-produzione franco-canadese, e terza in lingua inglese, di Louis Malle, e Gloria, opera cardine del cinema indipendente americano firmata da John Cassavetes. Noir post-moderni ambientati in giungle urbane dove violenza e criminalità la fanno da padrone mentre l’essere umano, pedina in balia degli eventi, deve cercare di adattarsi, o semplicemente sopravvivere, ad un universo ostile. Queste due vittorie furono un’occasione per riconoscere, tramite uno storico premio, un nuovo modo di intendere la settima arte. L’America tornò sul palco del Lido anche nell’edizione del 1993 grazie a uno dei suoi più iconici autori, Robert Altman. Altman, che portava America Oggi, si trovò a condividere il podio con il polacco Krzysztof Kieślowski, in competizione con Tre colori - Film blu. Due film, a loro modo, entrambi episodici, America Oggi nella sua struttura - Altman mischia, in uno stile che ricorda una versione cinematografica dei racconti di Carver, una serie di microstorie ambientate nella periferia di Los Angeles - mentre Film blu nella sua concezione complessiva, dal momento che esso rappresenta il primo capitolo di una trilogia che Kieślowski dedica al motto, e ai colori della bandiera francese. L’ultima parità del premio principale risale al 1994, vinto da Vive l’amour, del regista taiwanese Tsai Ming-liang, e da Prima della pioggia, del macedone Milčo Mančevski. La maggior parte della stampa fu unanime nell’approvare il verdetto della giuria capitanata da David Lynch.
Presente
Continuando per tutto il corso degli anni Novanta a ospitare gli autori più svariati, da Abel Ferrara a Ken Loach, da Nicole Garcia a Emir Kusturica, da Lars von Trier a Steven Spielberg, Venezia seppe adattarsi ai tempi, sopravvivendo all’ingresso nel duemila e mutando assieme al cinema stesso. In questo clima di grande cambiamento si susseguirono le vittorie di Monsoon Wedding (2001) - dell’indiana Mira Nair, quarta donna a trionfare sul concorso dopo Leni Riefenstahl, Margarethe von Trotta e Agnes Varda - di Magdalene (2002), dell’irlandese Peter Mullen, e di Il segreto di Vera Drake (2004) primo, e lungamente atteso, Leone d’Oro al regista inglese Mike Leigh. Doppio riconoscimento invece, nell’arco di soli tre anni, per Ang Lee, applaudito ne I segreti di Brokeback Mountain (2005) - struggente racconto dell’impossibile amore tra due cowboy, filmato dal cineasta taiwanese alla sua quinta regia americana - e in Lussuria (2007), variazione sul tema del desiderio e dell’inganno. Mentre le regole formali del cinema evolvevano si assistette, con The Wrestler (2008), di Darren Aronofsky, e Somewhere (2010), di Sofia Coppola, al trionfo degli autori del nuovo millennio che, con le loro estetiche stranianti, davano vita a parabole moderne sull’isolamento e l’incomunicabilità. Nel 2011 fu il turno del Faust di Aleksandr Sokurov, pura e incontaminata esperienza visiva - come in fondo gran parte dell’opera di questo regista - dai toni onirico-filosofici. Il Leone d’Oro, consegnato con l'unanimità della giuria al film, risultò una grande sorpresa per tutti, dal momento che sia il pubblico che la critica si sarebbero aspettati la vittoria di Roman Polanski per Carnage. Nel 2013, con Sacro GRA invece, l’italiano Gianfranco Rosi commuove il presidente di giuria Bernardo Bertolucci e diventa il secondo cineasta, dopo il grande Robert J. Flaherty - vincitore nel 1934 della Coppa Mussolini per L’uomo di Aran - ad aggiudicarsi il premio principale per un documentario. L’opera, dura come lo svolgersi inesorabile dell’esistenza, racconta le vite dei dimenticati, persone che abitano l’anello autostradale che circonda Roma, in un mondo ai margini fatto di lotte e solitudini quotidiane. Nel 2014 fu la bandiera svedese a ondeggiare vincitrice sul Lido per Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza. Grazie alle sue alienate atmosfere questo lungometraggio di Roy Andersson si fece manifesto di quel tono grottesco e tragicomico - tipico dell’attuale cinematografia nordica - condiviso, e portato avanti, da registi come Ruben Östlund, grande autore scandinavo della scena contemporanea. Dal 2015, dopo l’assegnazione del riconoscimento principale al venezuelano Lorenzo Vigas per Ti guardo, si assistette alla celebrazione dei cineasti latinoamericani. La forma dell’acqua (2017), prodotto in USA e diretto da Guillermo del Toro, rappresentò la vittoria di un immaginario che, attraverso i suoi toni favolistici, si fa allegoria dei mali che attanagliano la nostra società. Mentre con Roma (2018), storia familiare ambientata nel Messico degli anni Settanta e girata in uno straordinario bianco e nero, Alfonso Cuarón portò un grande colosso dello streaming come Netflix - finanziatore del film - a vincere, per la prima volta, un festival europeo. Invece, con l’avvento degli americani Joker (2019) di Todd Phillips - opera di reinvenzione del cinecomic sotto il segno di autori come Scorsese, Brian De Palma, Michael Mann - e Nomadland (2020) di Chloé Zhao - film elegiaco, portavoce di una sorta di neorealismo contemporaneo - Venezia proclamò la vittoria dei rappresentanti della cinematografia del nostro tempo. Con il palmarès del 2021, che vedeva Audrey Diwan vittoriosa per La scelta di Anne, si torna invece al dramma intimista francese che, con la sua lucida condanna all’impossibilità femminile di scegliere sul proprio corpo, risulta più attuale e potente che mai.
Per il suo novantesimo compleanno il Festival chiama a sé una fitta e variegata schiera di autori. I titoli in gara - molti e promettenti - passeranno dai ritratti femminili di Joanna Hogg (The Eternal Daughter), Andrew Dominik (Blonde), Susanna Nicchiarelli (Chiara), Alice Diop (Saint Omer), Frederick Wiseman (Un couple), ai grandi ritorni di Todd Field (Tár) Emanuele Crialese (L’immensità), Darren Aronofsky (The Whale) e Andrea Pallaoro (Monica). Vi saranno anche le ultime fatiche di Noah Baumbach (White Nose), apripista della manifestazione, Luca Guadagnino (Bones and All), Rebecca Zlotowski (Les enfants des autres), Alejandro González Iñárritu (Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades), o i nuovi lavori di Laura Poitras (All The Beauty and The Bloodshed), Santiago Mitre (Argentina, 1985), Jafar Panahi (Khers nist) e Romain Gravas (Athena). Nomi come Kōji Fukada (Love Life), Martin McDonagh (The Banshees of Inisherin), Florian Zeller (The Son), Vahid Jalilvand (Šab, dākheli, divār), Gianni Amelio (Il signore delle formiche) e Roschdy Zem (Les Miens) completano la lista di una competizione che si preannuncia, almeno sulla carta, come una delle più accese degli ultimi anni. Alte sono anche le aspettative sul fuori concorso, che vede sfilare decani come Paul Schrader (Master Gardener), Walter Hill (Dead For a Dollar), e Lars von Trier (Riget Exodus), ex vincitori come Lav Diaz (Kapag wala nang mga alon), e Kim Ki-duk (Kõne taevast) - presente attraverso il suo ultimo lungometraggio postumo - filmmaker di culto come Nicolas Winding Refn (Copenhagen Cowboy) e Ti West (Pearl), o nuove scommesse come Olivia Wilde (Don’t Worry Darling), al suo esordio dietro la macchina da presa. Una sola cosa è certa, il verdetto su chi sarà riconosciuto Leone d’Oro 2022 tocca esclusivamente alla giuria, capitanata quest’anno dall’attrice americana Joulianne Moore, mentre a noi non resta che attendere, e lasciare che la Mostra d’arte cinematografica di Venezia faccia il suo corso.