NC-85
02.01.2022
Non una classifica, ma una lista. Sei titoli che hanno segnato con originalità la narrazione dei giovani nel cinema, spaziando tra alcune delle tematiche più urgenti e attuali, dall’identità sessuale alla crisi climatica, fino ai modelli di educazione alternativi. Il consiglio nel consiglio è quello di farli vedere ai vostri genitori, sì, ma di non guardarli insieme a loro. Un paradosso? Tutt’altro: i titoli che vi stiamo proponendo meritano un’analisi e un dialogo che chiama in causa la genitorialità, non i figli in sé. Lasciate allora agli adulti lo spazio di una visione intima, che li spinga a riflettere e a confrontarsi su conflitti ipotizzati da scenari estremi, in grado però di inquadrare tutto il disagio esistenziale che affligge i giovani di quest’epoca.
1. I nostri ragazzi (2014), dir. Ivano Di Matteo
Uno squarcio improvviso colpisce la vita di due famiglie: i due figli adolescenti, cugini tra loro, si macchiano di un crimine che i genitori non avevano neanche osato mettere in conto. Chi lo metterebbe in conto, d’altronde? Benedetta e Michele, usciti da una festa privata, picchiano a morte una senzatetto. Il fatto ci viene mostrato in prima serata da Federica Sciarelli, simbolo mediatico della cronaca nera: è gogna pubblica e caccia al colpevole. Made in Italy, liberamente ispirato al libro dell’olandese Herman Cock La cena, il film porta in scena due tipologie di genitori con un’idea di educazione familiare e civica che parrebbe essere agli antipodi. Ma che ruolo giocano i valori degli adulti quando un figlio diventa irriconoscibile ai loro occhi?
Il macabro plot twist della vicenda contiene in sé l’ipotesi che segretamente terrorizza qualsiasi genitore: il passaggio dall’idea che “certe cose capitano solo agli altri” allo scontro con una realtà che “invece sta capitando proprio a noi”.
Che succede dunque se i ragazzi cattivi non sono più quelli degli altri, ma quelli che tu, genitore, hai allevato dentro casa? Dov’è il confine tra assoluzione e punizione, tra legge e giustizia privata? Quante possibilità intercorrono tra l’omicidio a sangue freddo (compiuto per diletto, per noia, per vizio, per difesa, importa davvero?) e tra un’infinità di altre condotte pericolose? Ma soprattutto, genitori: conoscete davvero i vostri ragazzi? E sareste disposti a conoscerli fino in fondo?
2. Shiva Baby (2020), dir. Emma Seligman
Uno dei titoli di punta di Mubi, scritto e diretto da Emma Seligman (canadese classe 1995), qui al suo primo lungometraggio. Ebrea bisessuale, Seligman porta la sua caotica identità in una commedia autobiografica dall’umorismo estremo, che pone direttamente sul banco degli imputati la sua famiglia (già che siamo qui: un ripasso di Girls di Lena Dunham sarebbe la ciliegina sulla torta). Danielle (Rachel Sennott) è una studentessa universitaria con un segreto: guadagna soldi in cambio di prestazioni sessuali. Ovvero è una escort per scelta. Lo è (ovviamente) all’insaputa della sua famiglia, e lo è (ovviamente) a causa di alcune dinamiche psicologiche innescate dalla sua stessa famiglia.
Lo shiva (settimana di lutto prevista dal giudaismo, in cui i parenti si riuniscono per commemorare il defunto, ma che spesso può trasformarsi in una reunion condita da banchetti e pettegolezzi), è l’occasione in cui la regista contestualizza tutto il suo malessere. Pecora nera della famiglia, Danielle è trattata da tutti come una parente inetta e stramba, un’eterna bambina che - hanno deciso gli altri - nella vita non concluderà molto. Viene così travolta da giudizi, domande e pareri non richiesti, sempre velati dalla leggerezza di chi non vuole ferirti, ma che di fatto sta minando la tua autostima. Il focus è tutto qui. Non esistono solo buoni genitori o cattivi genitori, ma anche genitori in buona fede e tuttavia incapaci di supportare i figli. Inconsciamente colpevoli di aver causato danni emotivi alla persona che amano. Gli interrogativi da porsi sono scomodissimi poiché sembrano innocui: come vi relazionate ai vostri figli? Quanto li avete influenzati con i vostri preconcetti? È possibile che il vostro atteggiamento abbia creato una frattura nella loro ricerca d’identità, nell’ossessione di essere accettati, nel loro approccio alla vita adulta? Sareste pronti a mettervi in discussione anziché giudicarli?
3. Father and Son (2013), dir. Hirokazu Kore’eda
Father and Son affronta invece la domanda delle domande, atavica e allo stesso tempo attualissima: i figli sono di chi li mette al mondo o di chi li cresce? E ha davvero senso imporci questa distinzione? Hirokazu Kore’eda, regista e sceneggiatore giapponese che da sempre indaga i legami familiari senza farsi sconti, con questo film ha alzato l’asticella della riflessione. Perché se è vero che attorno al tema caldo delle unioni civili e delle adozioni sta finalmente fermentando il dibattito sui legami di sangue (e su quanto rischiamo di sopravvalutarli), qui Kore’eda ci tira un assist imprevisto. Racconta infatti il dramma di due famiglie i cui figli biologici sono stati scambiati alla nascita, in ospedale. I genitori ne verranno a conoscenza solo a distanza di sei anni, ovvero dopo aver cresciuto gli uni il figlio degli altri. Dopo aver educato e amato i due bambini, dopo aver addirittura notato improbabili somiglianze genetiche in base alla convinzione che quei figli avessero il loro stesso dna.
Siamo oltre: oltre la voglia di adottare, oltre gli schieramenti politici, oltre il limite da cui si può tornare indietro. La risoluzione del film verte su una scelta impossibile: le due famiglie a questo punto dovranno decidere se far prevalere il legame di sangue e 'restituirsi' i due bambini… oppure no. È un bivio dilaniante, su cui il regista ci lascia il tempo di riflettere (grazie ad una messa in scena meravigliosamente orientale, mai frenetica, che non teme pause, vuoti e silenzi). Potreste avere l’impressione che non vi riguardi da vicino, ma perché è un film che dovrebbero vedere anche i vostri genitori? Perché il legame di sangue non è il Sacro Graal della genitorialità, e perché un giorno anche voi potreste scegliere di voler adottare.
4. Call Me by Your Name (2017), dir. Luca Guadagnino
Capita di rado, ma a volte ci sono scene che valgono tutto un film. Come il dialogo finale tra padre e figlio in Chiamami col tuo nome. Siamo nella campagna del Cremasco, 1983: Guadagnino ci immerge in un’ambientazione che racconta un universo emotivo. È l’estate del primo amore, della scoperta erotica e dell’iniziazione sessuale. Ma è anche l’estate in cui Elio (17enne ebreo francoamericano, in vacanza con i genitori) s’innamora di Oliver (studente 24enne). La scoperta del sesso coincide con quella ancora più conturbante dell’omosessualità, e con il dolore che si abbatte su ogni primo amore estivo, il quale sboccia e appassisce il tempo di un ballo sulle note dei The Psychedelic Furs.
Timothée Chalamet (che con questo film ha ricevuto la consacrazione internazionale) è il figlio in cui ogni genitore potrebbe riconoscere il suo: incarna tutta la tragica bellezza dell’adolescenza, in cui il desiderio brucia veloce e la delusione amorosa assume dimensioni catastrofiche. Ma i genitori di Elio, invece, non sono quelli in cui ogni figlio ha la fortuna di imbattersi: ecco perché dovreste consigliare loro questo film. Perché possano ricordarsi, all’occorrenza, le parole che il Signor Perlman utilizzerà nel confronto più importante della vita di suo figlio. Quando il ragazzo andrà a cercare il suo aiuto, quando se lo troverà davanti in mille pezzi, sopraffatto dall’amore, dalla ricerca della sua identità sessuale e dal senso di rifiuto e fallimento, il signor Perlman saprà scegliere le parole giuste: “Come vivrai saranno affari tuoi, però ricordati: il cuore e il corpo ci vengono dati soltanto una volta. Tu adesso senti tristezza, dolore: non ucciderli. Al pari della gioia che hai provato”.
5. L’heure de la sortie (2018), dir. Sébastien Marnier
No, i ragazzi non stanno bene. Per questo - ci fa capire Marnier - non è più tempo di perder tempo dietro a teen movie incentrati solo su drammi sentimentali. La verità è che lì fuori si sta consumando una tragedia globale e la generazione Z non solo la vede lucidamente, ma ha gli occhi sbarrati di fronte all’orrore che ci aspetta. Sébastien Marnier ce lo racconta con un film insolito, disturbante, inquietante. Lirico e spaventoso. Tratto dall’omonimo romanzo di Christophe Dufossé, L’ultima ora (traduzione italiana del titolo originale) ci schiaffa di fronte ad una realtà che, in confronto, il più famoso Don’t Look Up sfiora appena: l’imminente fine del mondo qui assume le sembianze di un horror psicologico con una forte connotazione politica. L’aggettivo “imminente” non è casuale né esagerato: la catastrofe ambientale non è uno scenario apocalittico hollywoodiano, ma il futuro delle nuove generazioni. Letteralmente sporge e resta sospesa su qualsiasi prospettiva di vita per chi, giovanissimo, ha ereditato un testimone che non meritava.
Gli studenti della nuova classe del professor Pierre Hoffmann si muovono come zombie, ma pensano come un dead man walking: giorno dopo giorno, l’insegnante scoprirà che sei dei suoi alunni hanno scelto di somministrarsi a vicenda una serie di violenze fisiche per abituarsi al dolore. E anche qui, non è sadismo adolescenziale né una challenge di TikTok: i ragazzi si preparano all’ultimo grande atto della loro esistenza, intenzionati ad abbandonare un pianeta ormai irrecuperabile. Mentre ci domandiamo se oggi abbia davvero senso mettere al mondo dei figli, L’heure de la sortie riesce a darci una risposta: no, non ha senso se non resteremo almeno a lottare accanto a loro. Alla luce di ciò la domanda adesso suona più retorica che mai: perché farlo vedere ai vostri genitori? Perché i figli non potranno mai salvare il pianeta da soli.
6. Captain Fantastic (2016), dir. Matt Ross
È difficile immaginare un modello genitoriale che possa far vacillare le nostre certezze ed ispirarci più di Ben Cash, il padre protagonista di questo film, interpretato da Viggo Mortensen (in una prova attoriale così complessa che una parentesi non gli renderebbe giustizia). Matt Ross (regista al suo secondo lungometraggio) riesce ad immaginare e descrivere una realtà familiare fuori da ogni modello convenzionale: un padre cresce da solo sei figli lontano dalla civiltà moderna. Per proteggerli dal capitalismo imperante e dalla società iperconnessa, Ben e sua moglie hanno deciso di vivere nel cuore della foresta del Nord America. Coltivano, cacciano e barattano creazioni artigianali, studiano le scienze e le lingue, allenano ogni giorno il corpo e la mente. Finché lei non è costretta a tornare in città per curare un disturbo bipolare. Il tragico destino della madre scatenerà il grande conflitto della storia: l’impatto con la società quanto può essere pericoloso se non si è preparati a fronteggiarlo? È davvero possibile evitare la deriva del mondo esterno, e crescere le nuove generazioni in un’oasi incontaminata? Ma soprattutto: sarebbe giusto farlo?
Come nelle migliori analisi, la risposta è probabilmente nel mezzo. E “il mezzo” è proprio quello che un genitore dovrebbe cogliere da Captain Fantastic, aprendosi il più possibile a un modello educativo libero da stereotipi e preconcetti. Ben Cash forse dovrà arrendersi al compromesso, ma non schiverà mai una domanda posta da ognuno dei suoi figli: risponderà a questioni sul sesso, assegnerà loro libri da leggere, gli spiegherà il significato di ogni aggettivo e soprattutto saprà insegnargli a sceglierli con criterio (“interessante è una non-parola: sii più specifica e dicci la tua opinione”). E in fondo, se questa fosse una classifica anziché una lista, Captain Fantastic sarebbe al primo posto. Perché ci ricorda che essere genitori non è un mestiere da svolgere con pigrizia, ma una missione appassionante.
NC-85
02.01.2022
Non una classifica, ma una lista. Sei titoli che hanno segnato con originalità la narrazione dei giovani nel cinema, spaziando tra alcune delle tematiche più urgenti e attuali, dall’identità sessuale alla crisi climatica, fino ai modelli di educazione alternativi. Il consiglio nel consiglio è quello di farli vedere ai vostri genitori, sì, ma di non guardarli insieme a loro. Un paradosso? Tutt’altro: i titoli che vi stiamo proponendo meritano un’analisi e un dialogo che chiama in causa la genitorialità, non i figli in sé. Lasciate allora agli adulti lo spazio di una visione intima, che li spinga a riflettere e a confrontarsi su conflitti ipotizzati da scenari estremi, in grado però di inquadrare tutto il disagio esistenziale che affligge i giovani di quest’epoca.
1. I nostri ragazzi (2014), dir. Ivano Di Matteo
Uno squarcio improvviso colpisce la vita di due famiglie: i due figli adolescenti, cugini tra loro, si macchiano di un crimine che i genitori non avevano neanche osato mettere in conto. Chi lo metterebbe in conto, d’altronde? Benedetta e Michele, usciti da una festa privata, picchiano a morte una senzatetto. Il fatto ci viene mostrato in prima serata da Federica Sciarelli, simbolo mediatico della cronaca nera: è gogna pubblica e caccia al colpevole. Made in Italy, liberamente ispirato al libro dell’olandese Herman Cock La cena, il film porta in scena due tipologie di genitori con un’idea di educazione familiare e civica che parrebbe essere agli antipodi. Ma che ruolo giocano i valori degli adulti quando un figlio diventa irriconoscibile ai loro occhi?
Il macabro plot twist della vicenda contiene in sé l’ipotesi che segretamente terrorizza qualsiasi genitore: il passaggio dall’idea che “certe cose capitano solo agli altri” allo scontro con una realtà che “invece sta capitando proprio a noi”.
Che succede dunque se i ragazzi cattivi non sono più quelli degli altri, ma quelli che tu, genitore, hai allevato dentro casa? Dov’è il confine tra assoluzione e punizione, tra legge e giustizia privata? Quante possibilità intercorrono tra l’omicidio a sangue freddo (compiuto per diletto, per noia, per vizio, per difesa, importa davvero?) e tra un’infinità di altre condotte pericolose? Ma soprattutto, genitori: conoscete davvero i vostri ragazzi? E sareste disposti a conoscerli fino in fondo?
2. Shiva Baby (2020), dir. Emma Seligman
Uno dei titoli di punta di Mubi, scritto e diretto da Emma Seligman (canadese classe 1995), qui al suo primo lungometraggio. Ebrea bisessuale, Seligman porta la sua caotica identità in una commedia autobiografica dall’umorismo estremo, che pone direttamente sul banco degli imputati la sua famiglia (già che siamo qui: un ripasso di Girls di Lena Dunham sarebbe la ciliegina sulla torta). Danielle (Rachel Sennott) è una studentessa universitaria con un segreto: guadagna soldi in cambio di prestazioni sessuali. Ovvero è una escort per scelta. Lo è (ovviamente) all’insaputa della sua famiglia, e lo è (ovviamente) a causa di alcune dinamiche psicologiche innescate dalla sua stessa famiglia.
Lo shiva (settimana di lutto prevista dal giudaismo, in cui i parenti si riuniscono per commemorare il defunto, ma che spesso può trasformarsi in una reunion condita da banchetti e pettegolezzi), è l’occasione in cui la regista contestualizza tutto il suo malessere. Pecora nera della famiglia, Danielle è trattata da tutti come una parente inetta e stramba, un’eterna bambina che - hanno deciso gli altri - nella vita non concluderà molto. Viene così travolta da giudizi, domande e pareri non richiesti, sempre velati dalla leggerezza di chi non vuole ferirti, ma che di fatto sta minando la tua autostima. Il focus è tutto qui. Non esistono solo buoni genitori o cattivi genitori, ma anche genitori in buona fede e tuttavia incapaci di supportare i figli. Inconsciamente colpevoli di aver causato danni emotivi alla persona che amano. Gli interrogativi da porsi sono scomodissimi poiché sembrano innocui: come vi relazionate ai vostri figli? Quanto li avete influenzati con i vostri preconcetti? È possibile che il vostro atteggiamento abbia creato una frattura nella loro ricerca d’identità, nell’ossessione di essere accettati, nel loro approccio alla vita adulta? Sareste pronti a mettervi in discussione anziché giudicarli?
3. Father and Son (2013), dir. Hirokazu Kore’eda
Father and Son affronta invece la domanda delle domande, atavica e allo stesso tempo attualissima: i figli sono di chi li mette al mondo o di chi li cresce? E ha davvero senso imporci questa distinzione? Hirokazu Kore’eda, regista e sceneggiatore giapponese che da sempre indaga i legami familiari senza farsi sconti, con questo film ha alzato l’asticella della riflessione. Perché se è vero che attorno al tema caldo delle unioni civili e delle adozioni sta finalmente fermentando il dibattito sui legami di sangue (e su quanto rischiamo di sopravvalutarli), qui Kore’eda ci tira un assist imprevisto. Racconta infatti il dramma di due famiglie i cui figli biologici sono stati scambiati alla nascita, in ospedale. I genitori ne verranno a conoscenza solo a distanza di sei anni, ovvero dopo aver cresciuto gli uni il figlio degli altri. Dopo aver educato e amato i due bambini, dopo aver addirittura notato improbabili somiglianze genetiche in base alla convinzione che quei figli avessero il loro stesso dna.
Siamo oltre: oltre la voglia di adottare, oltre gli schieramenti politici, oltre il limite da cui si può tornare indietro. La risoluzione del film verte su una scelta impossibile: le due famiglie a questo punto dovranno decidere se far prevalere il legame di sangue e 'restituirsi' i due bambini… oppure no. È un bivio dilaniante, su cui il regista ci lascia il tempo di riflettere (grazie ad una messa in scena meravigliosamente orientale, mai frenetica, che non teme pause, vuoti e silenzi). Potreste avere l’impressione che non vi riguardi da vicino, ma perché è un film che dovrebbero vedere anche i vostri genitori? Perché il legame di sangue non è il Sacro Graal della genitorialità, e perché un giorno anche voi potreste scegliere di voler adottare.
4. Call Me by Your Name (2017), dir. Luca Guadagnino
Capita di rado, ma a volte ci sono scene che valgono tutto un film. Come il dialogo finale tra padre e figlio in Chiamami col tuo nome. Siamo nella campagna del Cremasco, 1983: Guadagnino ci immerge in un’ambientazione che racconta un universo emotivo. È l’estate del primo amore, della scoperta erotica e dell’iniziazione sessuale. Ma è anche l’estate in cui Elio (17enne ebreo francoamericano, in vacanza con i genitori) s’innamora di Oliver (studente 24enne). La scoperta del sesso coincide con quella ancora più conturbante dell’omosessualità, e con il dolore che si abbatte su ogni primo amore estivo, il quale sboccia e appassisce il tempo di un ballo sulle note dei The Psychedelic Furs.
Timothée Chalamet (che con questo film ha ricevuto la consacrazione internazionale) è il figlio in cui ogni genitore potrebbe riconoscere il suo: incarna tutta la tragica bellezza dell’adolescenza, in cui il desiderio brucia veloce e la delusione amorosa assume dimensioni catastrofiche. Ma i genitori di Elio, invece, non sono quelli in cui ogni figlio ha la fortuna di imbattersi: ecco perché dovreste consigliare loro questo film. Perché possano ricordarsi, all’occorrenza, le parole che il Signor Perlman utilizzerà nel confronto più importante della vita di suo figlio. Quando il ragazzo andrà a cercare il suo aiuto, quando se lo troverà davanti in mille pezzi, sopraffatto dall’amore, dalla ricerca della sua identità sessuale e dal senso di rifiuto e fallimento, il signor Perlman saprà scegliere le parole giuste: “Come vivrai saranno affari tuoi, però ricordati: il cuore e il corpo ci vengono dati soltanto una volta. Tu adesso senti tristezza, dolore: non ucciderli. Al pari della gioia che hai provato”.
5. L’heure de la sortie (2018), dir. Sébastien Marnier
No, i ragazzi non stanno bene. Per questo - ci fa capire Marnier - non è più tempo di perder tempo dietro a teen movie incentrati solo su drammi sentimentali. La verità è che lì fuori si sta consumando una tragedia globale e la generazione Z non solo la vede lucidamente, ma ha gli occhi sbarrati di fronte all’orrore che ci aspetta. Sébastien Marnier ce lo racconta con un film insolito, disturbante, inquietante. Lirico e spaventoso. Tratto dall’omonimo romanzo di Christophe Dufossé, L’ultima ora (traduzione italiana del titolo originale) ci schiaffa di fronte ad una realtà che, in confronto, il più famoso Don’t Look Up sfiora appena: l’imminente fine del mondo qui assume le sembianze di un horror psicologico con una forte connotazione politica. L’aggettivo “imminente” non è casuale né esagerato: la catastrofe ambientale non è uno scenario apocalittico hollywoodiano, ma il futuro delle nuove generazioni. Letteralmente sporge e resta sospesa su qualsiasi prospettiva di vita per chi, giovanissimo, ha ereditato un testimone che non meritava.
Gli studenti della nuova classe del professor Pierre Hoffmann si muovono come zombie, ma pensano come un dead man walking: giorno dopo giorno, l’insegnante scoprirà che sei dei suoi alunni hanno scelto di somministrarsi a vicenda una serie di violenze fisiche per abituarsi al dolore. E anche qui, non è sadismo adolescenziale né una challenge di TikTok: i ragazzi si preparano all’ultimo grande atto della loro esistenza, intenzionati ad abbandonare un pianeta ormai irrecuperabile. Mentre ci domandiamo se oggi abbia davvero senso mettere al mondo dei figli, L’heure de la sortie riesce a darci una risposta: no, non ha senso se non resteremo almeno a lottare accanto a loro. Alla luce di ciò la domanda adesso suona più retorica che mai: perché farlo vedere ai vostri genitori? Perché i figli non potranno mai salvare il pianeta da soli.
6. Captain Fantastic (2016), dir. Matt Ross
È difficile immaginare un modello genitoriale che possa far vacillare le nostre certezze ed ispirarci più di Ben Cash, il padre protagonista di questo film, interpretato da Viggo Mortensen (in una prova attoriale così complessa che una parentesi non gli renderebbe giustizia). Matt Ross (regista al suo secondo lungometraggio) riesce ad immaginare e descrivere una realtà familiare fuori da ogni modello convenzionale: un padre cresce da solo sei figli lontano dalla civiltà moderna. Per proteggerli dal capitalismo imperante e dalla società iperconnessa, Ben e sua moglie hanno deciso di vivere nel cuore della foresta del Nord America. Coltivano, cacciano e barattano creazioni artigianali, studiano le scienze e le lingue, allenano ogni giorno il corpo e la mente. Finché lei non è costretta a tornare in città per curare un disturbo bipolare. Il tragico destino della madre scatenerà il grande conflitto della storia: l’impatto con la società quanto può essere pericoloso se non si è preparati a fronteggiarlo? È davvero possibile evitare la deriva del mondo esterno, e crescere le nuove generazioni in un’oasi incontaminata? Ma soprattutto: sarebbe giusto farlo?
Come nelle migliori analisi, la risposta è probabilmente nel mezzo. E “il mezzo” è proprio quello che un genitore dovrebbe cogliere da Captain Fantastic, aprendosi il più possibile a un modello educativo libero da stereotipi e preconcetti. Ben Cash forse dovrà arrendersi al compromesso, ma non schiverà mai una domanda posta da ognuno dei suoi figli: risponderà a questioni sul sesso, assegnerà loro libri da leggere, gli spiegherà il significato di ogni aggettivo e soprattutto saprà insegnargli a sceglierli con criterio (“interessante è una non-parola: sii più specifica e dicci la tua opinione”). E in fondo, se questa fosse una classifica anziché una lista, Captain Fantastic sarebbe al primo posto. Perché ci ricorda che essere genitori non è un mestiere da svolgere con pigrizia, ma una missione appassionante.