di Cosimo Maj
NC-107
17.04.2022
Il cinema nella sua storia ha molto raccontato le festività, in particolar modo il Natale. Almeno in Italia la stagione invernale ha sempre registrato incassi altissimi. Il film di Natale, il cosiddetto cinepanettone, era fino a undici anni fa un rito collettivo, quasi una funzione laica, di cui Boldi, De Sica e Neri Parenti detenevano il monopolio. Nel 2009 Enrico e Carlo Vanzina portarono al cinema La vita è una cosa meravigliosa, titolo che giocava con quello del film di Frank Capra del 1946. Il film uscì durante il periodo pasquale di quell’anno, per cui i Vanzina scherzarono subito implorando la critica, o il pubblico, di non affibbiare il nome di cinecolomba al loro film dopo che già un loro precedente lavoro, Un’estate al mare, era stato marchiato come cinecocomero. Tuttavia, questa nuova locuzione, per quanto replica sbiadita del padre spirituale cinepanettone, è sorta davvero. Pochissimi film possono “fregiarsi” di tale appellativo. Tutte opere che in realtà non hanno nessun legame narrativo con la Pasqua. Questa mancanza è un aspetto comprensibile, data l’inafferrabilità dell’immaginario pasquale, meno evidente e forte rispetto a quello natalizio. Forse si potrebbero definire pasquali quei film che trattano dell’evento che si sta celebrando, la crocefissione e la conseguente risurrezione di Gesù. La Passione di Mel Gibson è ad esempio decisamente più pasquale di Buona giornata. Per quanto (ri)vedere (forse) il film di Gibson possa farci sentire più in linea con i valori cristiani, la redazione di ODG ha deciso di concedervi momenti più leggeri e consigliarvi 5 commedie da poter vedere in questi giorni di vacanza, risparmiandovi due ore di sangue raggrumato, fustigazioni e antisemitismo. Buona visione.
1 – Be Kind Rewind, dir. Micheal Gondry (2008)
Siamo a Passaic, New Jersey. Il vecchio Fletcher (Danny Glover) gestisce la Be Kind Rewind, una piccola videoteca dentro un palazzo nel quale lui è convinto sia nato il jazzista Fats Waller. Il negozio vende VHS e soffre la concorrenza di una videoteca nello stesso quartiere che è passata al commercio del più moderno DVD. L’anziano gestore affida il negozio per qualche settimana al commesso Mike (Mos Def), amico da sempre di Jerry (Jack Black), un meccanico contaminato dalle onde elettromagnetiche provenienti dalla centrale elettrica vicina al camper in cui vive. L’uomo causa involontariamente la smagnetizzazione di tutte le cassette del negozio. A quel punto i due, per riparare al danno, girano su cassetta una serie di remake amatoriali di grandi classici della storia del cinema statunitense. I film “taroccati” hanno grande successo presso la clientela del quartiere. La grande forza di questo film è la leggerezza, mescolata a discorsi, in realtà, di grande spessore. Mike e Jerry sono due novelli Ed Wood, due folli sognatori, che, a scapito di effetti speciali e tecnica, portano i propri clienti a preferire addirittura le loro versioni povere di film ad altissimo budget. Gondry mette in scena una bellissima lettera d’amore al cinema, all’analogico; un film che è un atto di resistenza contro il controllo delle major, la repressione della libera condivisione dell’arte e la passività del consumo.
2 – Il grande capo, dir. Lars Von Trier (2006)
Prima e finora unica commedia firmata dal regista danese. Jens Albinus, già interprete di Von Trier in Idioti e Dancer in the Dark, è Kristoffer, attore fallito, fanatico di un drammaturgo (che nella realtà non esiste) di nome Gambini. L’uomo viene pagato da Ravn, proprietario di un’azienda d’informatica, per vestire i panni del grande capo, ossia del padrone che quello reale ha inventato così da scaricare su di esso le responsabilità per le scelte più impopolari tra i dipendenti. Von Trier rompe subito la quarta parete nei primi minuti del film, comparendo con tanto di macchina da presa riflesso sui vetri del palazzo in cui si svolgeranno le vicende. Così facendo denuncia da subito la natura di farsa dell’opera, la quale unisce elementi deliranti al racconto dell’alienazione da ufficio, costituendo in tal modo una sorta di versione scandinava di The Office. Ancor più della sitcom di Ricky Gervais, il film presenta una crudele spietatezza di fondo nel descrivere un mondo di deboli manipolabili. Nel caso di quest’opera, la cattiveria e l’ostentato cinismo di Von Trier si sfogano nella provocazione di una risata. La tecnica di ripresa adottata è quella dell’automavision, una camera fissa, senza operatore, manovrata da un computer che decide anarchicamente e in modo casuale di fare primi piani, panoramiche o zoom senza un ordine e un senso. La provocazione dietro l’utilizzo di tale tecnica è quella di sollevare il regista da qualsiasi responsabilità sulla riuscita del lavoro. Il film stesso ha quindi un grande capo.
3 – Soul Kitchen, dir. Fatih Akin (2009)
Zinos Kazantsakis, giovane cuoco di origine greca, è il proprietario del Soul Kitchen, un vecchio magazzino di Amburgo trasformato in ristorante. Il menù che propone il ragazzo è di largo consumo e di infima qualità, tra bastoncini di pesce surgelati e risotti precotti. La clientela rozza apprezza tuttavia di buon grado. La svolta gourmet arriva con l’approdo di Shayn, chef di classe (che non tollera variazioni sulla temperatura con cui va servito il gazpacho), il quale rivoluziona il menù del ristorante, convertendo una parte della vecchia clientela al buon cibo, che lui chiama “cibo per l’anima”. Il locale così si trasforma in un tempio dell’alta cucina, attirando un pubblico giovane e curioso. Nel frattempo Zinos affronta l’abbandono della fidanzata Nadine, trasferitasi in Cina per lavoro, e la convivenza col fratello Illias, pluripregiudicato con il vizio del gioco. Fatih Akin, al suo sesto film, ritrova parecchie vecchie conoscenze già viste nella sua pellicola precedente La sposa turca, a partire dal compianto Birol Ünel. Soul Kitchen è un’opera dal carattere urban, nella quale la mescolanza racconta, in modo sottile e intelligente, la convivenza tra popoli diversi in una metropoli come Amburgo, città-cornice delle storie narrate e silenziosa protagonista del film. Oltre la dimensione sociale in cui è calato il film c’è l’ottima narrazione, un racconto intelligente delle piccole evoluzioni dei vari personaggi che si stratifica in un ordinato caos fomentato da cuochi geniali, palazzinari avidi e ingordi, criminali bonaccioni e ricche ereditiere. La cura con cui Akin riesce a dare corpo a ogni personaggio, dai principali ai secondari scolpisce un film che brulica, vibrante di personaggi, di storie e della magia della città che li ospita.
4 – Tromeo and Juliet, dir. Lloyd Kauffman e James Gunn (1997)
La storia è delle più classiche, l’amore impossibile tra la Capuleti e il Montecchi. Non siamo a Verona, ma nella mente di Lloyd Kauffman, padre della Troma, casa cult di produzione specializzata nello stravolgere i melodrammi in deliranti opere pop. Al centro della storia ci sono due famiglie rivali, i Que e i Capulet. I due pater familias si odiano dopo essere stati soci della stessa società di produzione pornografica, ora in totale controllo di Cappy Capulet. Il film si apre con Lemmy dei Motorhead in veste di coro greco, e con un piercing sparato su un capezzolo. Dai primi minuti Kauffman e Gunn devastano il linguaggio shakespeariano, integrando all’opera (quasi) omonima un universo di ingordigia sessuale e corruzione, nel quale il subconscio è un luogo abitato da vermi e mostri. D’altronde la tagline recita ironicamente: “Body Piercing, sesso perverso, smembramenti. Le cose che hanno fatto grande Shakespeare”. Nonostante il fiero e spavaldo cattivo gusto, Kauffman e Gunn riservano un occhio di riguardo al cristallino sentimento dei due ragazzi, capace di andare oltre l’incesto e il putridume che li circonda, in un mondo dove la violenza è uno strumento infantile per sentirsi più forti dell’altro. Il finale, rispetto a questo discorso, è conciliatorio, inneggia alla convivenza con il diverso, lo strano, il deforme. L’omaggio all’autore inglese è quindi un film nel quale lo splatter e il melodramma non hanno mai così tanto convissuto in scioltezza, una dissacrazione ossequiosa e rispettosa delle battute del testo originale, mescolate a quelle demenziali dei Que e dei Capulet di Casa Troma. Da vedere in alternativa al più celebre e romantico Romeo + Juliet di Baz Luhrmann.
5 – Brian di Nazareth, dir. Terry Jones (1979)
L’unico film della lista che si possa definire pasquale. Terry Jones firma questo terzo film dei Monty Phyton, una rilettura della vita di Cristo attraverso la storia di un suo contemporaneo, Brian, ragazzo di Gerusalemme che scopre di essere romano, nato da madre umile e padre ignoto. Nonostante le sue origini il ragazzo è pieno di odio ed è pronto a rovesciare il potere dell’Impero sulla Galilea insieme al gruppo di rivoltosi anti-imperialisti del Fronte popolare di Giudea. Con Brian di Nazareth il gruppo di comici inglesi riscrive e deride il Nuovo Testamento, mescolando la fantascienza alla satira dell’antagonismo politico e conducendo a un vero e proprio ribaltamento gioioso del dolore e della sofferenza legati alla passione del Cristo. Un Ben-Hur della comicità, in cui in modo caotico e gioioso convivono volgarità e demenzialità intelligente. Elementi che il gruppo sfrutta per celare la spietata onda dirompente della loro satira che non risparmia nessuno, irrompe e devasta qualsiasi credenza religiosa e politica. Non deride la divinità ma il fedele, rivolgendo il suo sberleffo all’azione umana, scaturita spesso da un fanatismo cieco e intollerante. Parla intelligentemente di santità casuale, il fortuito che è alla base della parabola di Brian, ragazzo umile, ribelle, riconosciuto come messia da un gruppo di persone che, travolte da una irragionevole fede in lui, perdono ogni forma di spirito critico. Parabola che termina, da canone evangelico, con la crocefissione. Non c’è però nessun Dio a salvare Brian, né tantomeno i suoi compagni del Fronte popolare. Alla fine anche gli autori stessi, decidendo che sorte riservare al loro protagonista, alla proposta di uno di loro di farlo risorgere sentenziano che tanto non ci avrebbe creduto nessuno.
di Cosimo Maj
NC-107
17.04.2022
Il cinema nella sua storia ha molto raccontato le festività, in particolar modo il Natale. Almeno in Italia la stagione invernale ha sempre registrato incassi altissimi. Il film di Natale, il cosiddetto cinepanettone, era fino a undici anni fa un rito collettivo, quasi una funzione laica, di cui Boldi, De Sica e Neri Parenti detenevano il monopolio. Nel 2009 Enrico e Carlo Vanzina portarono al cinema La vita è una cosa meravigliosa, titolo che giocava con quello del film di Frank Capra del 1946. Il film uscì durante il periodo pasquale di quell’anno, per cui i Vanzina scherzarono subito implorando la critica, o il pubblico, di non affibbiare il nome di cinecolomba al loro film dopo che già un loro precedente lavoro, Un’estate al mare, era stato marchiato come cinecocomero. Tuttavia, questa nuova locuzione, per quanto replica sbiadita del padre spirituale cinepanettone, è sorta davvero. Pochissimi film possono “fregiarsi” di tale appellativo. Tutte opere che in realtà non hanno nessun legame narrativo con la Pasqua. Questa mancanza è un aspetto comprensibile, data l’inafferrabilità dell’immaginario pasquale, meno evidente e forte rispetto a quello natalizio. Forse si potrebbero definire pasquali quei film che trattano dell’evento che si sta celebrando, la crocefissione e la conseguente risurrezione di Gesù. La Passione di Mel Gibson è ad esempio decisamente più pasquale di Buona giornata. Per quanto (ri)vedere (forse) il film di Gibson possa farci sentire più in linea con i valori cristiani, la redazione di ODG ha deciso di concedervi momenti più leggeri e consigliarvi 5 commedie da poter vedere in questi giorni di vacanza, risparmiandovi due ore di sangue raggrumato, fustigazioni e antisemitismo. Buona visione.
1 – Be Kind Rewind, dir. Micheal Gondry (2008)
Siamo a Passaic, New Jersey. Il vecchio Fletcher (Danny Glover) gestisce la Be Kind Rewind, una piccola videoteca dentro un palazzo nel quale lui è convinto sia nato il jazzista Fats Waller. Il negozio vende VHS e soffre la concorrenza di una videoteca nello stesso quartiere che è passata al commercio del più moderno DVD. L’anziano gestore affida il negozio per qualche settimana al commesso Mike (Mos Def), amico da sempre di Jerry (Jack Black), un meccanico contaminato dalle onde elettromagnetiche provenienti dalla centrale elettrica vicina al camper in cui vive. L’uomo causa involontariamente la smagnetizzazione di tutte le cassette del negozio. A quel punto i due, per riparare al danno, girano su cassetta una serie di remake amatoriali di grandi classici della storia del cinema statunitense. I film “taroccati” hanno grande successo presso la clientela del quartiere. La grande forza di questo film è la leggerezza, mescolata a discorsi, in realtà, di grande spessore. Mike e Jerry sono due novelli Ed Wood, due folli sognatori, che, a scapito di effetti speciali e tecnica, portano i propri clienti a preferire addirittura le loro versioni povere di film ad altissimo budget. Gondry mette in scena una bellissima lettera d’amore al cinema, all’analogico; un film che è un atto di resistenza contro il controllo delle major, la repressione della libera condivisione dell’arte e la passività del consumo.
2 – Il grande capo, dir. Lars Von Trier (2006)
Prima e finora unica commedia firmata dal regista danese. Jens Albinus, già interprete di Von Trier in Idioti e Dancer in the Dark, è Kristoffer, attore fallito, fanatico di un drammaturgo (che nella realtà non esiste) di nome Gambini. L’uomo viene pagato da Ravn, proprietario di un’azienda d’informatica, per vestire i panni del grande capo, ossia del padrone che quello reale ha inventato così da scaricare su di esso le responsabilità per le scelte più impopolari tra i dipendenti. Von Trier rompe subito la quarta parete nei primi minuti del film, comparendo con tanto di macchina da presa riflesso sui vetri del palazzo in cui si svolgeranno le vicende. Così facendo denuncia da subito la natura di farsa dell’opera, la quale unisce elementi deliranti al racconto dell’alienazione da ufficio, costituendo in tal modo una sorta di versione scandinava di The Office. Ancor più della sitcom di Ricky Gervais, il film presenta una crudele spietatezza di fondo nel descrivere un mondo di deboli manipolabili. Nel caso di quest’opera, la cattiveria e l’ostentato cinismo di Von Trier si sfogano nella provocazione di una risata. La tecnica di ripresa adottata è quella dell’automavision, una camera fissa, senza operatore, manovrata da un computer che decide anarchicamente e in modo casuale di fare primi piani, panoramiche o zoom senza un ordine e un senso. La provocazione dietro l’utilizzo di tale tecnica è quella di sollevare il regista da qualsiasi responsabilità sulla riuscita del lavoro. Il film stesso ha quindi un grande capo.
3 – Soul Kitchen, dir. Fatih Akin (2009)
Zinos Kazantsakis, giovane cuoco di origine greca, è il proprietario del Soul Kitchen, un vecchio magazzino di Amburgo trasformato in ristorante. Il menù che propone il ragazzo è di largo consumo e di infima qualità, tra bastoncini di pesce surgelati e risotti precotti. La clientela rozza apprezza tuttavia di buon grado. La svolta gourmet arriva con l’approdo di Shayn, chef di classe (che non tollera variazioni sulla temperatura con cui va servito il gazpacho), il quale rivoluziona il menù del ristorante, convertendo una parte della vecchia clientela al buon cibo, che lui chiama “cibo per l’anima”. Il locale così si trasforma in un tempio dell’alta cucina, attirando un pubblico giovane e curioso. Nel frattempo Zinos affronta l’abbandono della fidanzata Nadine, trasferitasi in Cina per lavoro, e la convivenza col fratello Illias, pluripregiudicato con il vizio del gioco. Fatih Akin, al suo sesto film, ritrova parecchie vecchie conoscenze già viste nella sua pellicola precedente La sposa turca, a partire dal compianto Birol Ünel. Soul Kitchen è un’opera dal carattere urban, nella quale la mescolanza racconta, in modo sottile e intelligente, la convivenza tra popoli diversi in una metropoli come Amburgo, città-cornice delle storie narrate e silenziosa protagonista del film. Oltre la dimensione sociale in cui è calato il film c’è l’ottima narrazione, un racconto intelligente delle piccole evoluzioni dei vari personaggi che si stratifica in un ordinato caos fomentato da cuochi geniali, palazzinari avidi e ingordi, criminali bonaccioni e ricche ereditiere. La cura con cui Akin riesce a dare corpo a ogni personaggio, dai principali ai secondari scolpisce un film che brulica, vibrante di personaggi, di storie e della magia della città che li ospita.
4 – Tromeo and Juliet, dir. Lloyd Kauffman e James Gunn (1997)
La storia è delle più classiche, l’amore impossibile tra la Capuleti e il Montecchi. Non siamo a Verona, ma nella mente di Lloyd Kauffman, padre della Troma, casa cult di produzione specializzata nello stravolgere i melodrammi in deliranti opere pop. Al centro della storia ci sono due famiglie rivali, i Que e i Capulet. I due pater familias si odiano dopo essere stati soci della stessa società di produzione pornografica, ora in totale controllo di Cappy Capulet. Il film si apre con Lemmy dei Motorhead in veste di coro greco, e con un piercing sparato su un capezzolo. Dai primi minuti Kauffman e Gunn devastano il linguaggio shakespeariano, integrando all’opera (quasi) omonima un universo di ingordigia sessuale e corruzione, nel quale il subconscio è un luogo abitato da vermi e mostri. D’altronde la tagline recita ironicamente: “Body Piercing, sesso perverso, smembramenti. Le cose che hanno fatto grande Shakespeare”. Nonostante il fiero e spavaldo cattivo gusto, Kauffman e Gunn riservano un occhio di riguardo al cristallino sentimento dei due ragazzi, capace di andare oltre l’incesto e il putridume che li circonda, in un mondo dove la violenza è uno strumento infantile per sentirsi più forti dell’altro. Il finale, rispetto a questo discorso, è conciliatorio, inneggia alla convivenza con il diverso, lo strano, il deforme. L’omaggio all’autore inglese è quindi un film nel quale lo splatter e il melodramma non hanno mai così tanto convissuto in scioltezza, una dissacrazione ossequiosa e rispettosa delle battute del testo originale, mescolate a quelle demenziali dei Que e dei Capulet di Casa Troma. Da vedere in alternativa al più celebre e romantico Romeo + Juliet di Baz Luhrmann.
5 – Brian di Nazareth, dir. Terry Jones (1979)
L’unico film della lista che si possa definire pasquale. Terry Jones firma questo terzo film dei Monty Phyton, una rilettura della vita di Cristo attraverso la storia di un suo contemporaneo, Brian, ragazzo di Gerusalemme che scopre di essere romano, nato da madre umile e padre ignoto. Nonostante le sue origini il ragazzo è pieno di odio ed è pronto a rovesciare il potere dell’Impero sulla Galilea insieme al gruppo di rivoltosi anti-imperialisti del Fronte popolare di Giudea. Con Brian di Nazareth il gruppo di comici inglesi riscrive e deride il Nuovo Testamento, mescolando la fantascienza alla satira dell’antagonismo politico e conducendo a un vero e proprio ribaltamento gioioso del dolore e della sofferenza legati alla passione del Cristo. Un Ben-Hur della comicità, in cui in modo caotico e gioioso convivono volgarità e demenzialità intelligente. Elementi che il gruppo sfrutta per celare la spietata onda dirompente della loro satira che non risparmia nessuno, irrompe e devasta qualsiasi credenza religiosa e politica. Non deride la divinità ma il fedele, rivolgendo il suo sberleffo all’azione umana, scaturita spesso da un fanatismo cieco e intollerante. Parla intelligentemente di santità casuale, il fortuito che è alla base della parabola di Brian, ragazzo umile, ribelle, riconosciuto come messia da un gruppo di persone che, travolte da una irragionevole fede in lui, perdono ogni forma di spirito critico. Parabola che termina, da canone evangelico, con la crocefissione. Non c’è però nessun Dio a salvare Brian, né tantomeno i suoi compagni del Fronte popolare. Alla fine anche gli autori stessi, decidendo che sorte riservare al loro protagonista, alla proposta di uno di loro di farlo risorgere sentenziano che tanto non ci avrebbe creduto nessuno.